Joan Baez: «La speranza è un muscolo che va allenato» | Rolling Stone Italia
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Joan Baez: «La speranza è un muscolo che va allenato»

Pessimista con l’intelligenza, ottimista con la volontà. Ieri la grande folksinger era a Milano: il problema della parola “pace”, la biografia poetica ‘Quando vedi mia madre, chiedile di ballare’, il disturbo dissociativo dell’identità, la Tesla con cui si è schiantata, Bob Dylan

Joan Baez: «La speranza è un muscolo che va allenato»

Joan Baez

Foto: Getty Images

«Speravo che almeno la prima domanda non contenesse il nome di Bob Dylan» scherza Joan Baez davanti al piccolo gruppo di giornalisti radunati per parlare di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare (La Nave di Teseo), autobiografia in poesia della cantante. «Solo una volta mi hanno fatto un’intervista che era solo su di me. È successo in Germania e quando abbiamo finito ho domandato: “Alleluia, come hai fatto?”. Il giornalista mi ha risposto che uscendo di casa aveva chiesto alla moglie: “Dovrei chiederle anche di Dylan?”, e lei gli aveva detto di non farlo».

Ma se è vero che il recente A Complete Unknown ha riportato sotto i riflettori il legame tra Bob Dylan e Joan Baez, è impossibile scordarsi che quest’ultima ha partecipato da protagonista ad alcuni dei passaggi chiave della cultura pop (e della storia tutta) del Novecento. Era a Woodstock, incinta del suo primo figlio e pronta a salire sul palco dopo essere stata folgorata da Jimi Hendrix. Era al Live Aid, in apertura di giornata a Philadelphia. E a guardarla in tv c’era il suo fidanzato Steve Jobs, ma servirebbe un articolo a parte. Era a Bratislava nel bel mezzo della rivoluzione di velluto di Václav Havel, e poi a Sarajevo, quando invece le armi tuonavano eccome. Basta così? Mettiamoci pure l’Isola di Wight e soprattutto le canzoni suonate nel 1963 a Washinghton, il giorno dell’ “I Have a Dream” di Martin Luther King.

È persino normale, trovandosi a intervistarla, chiederle tutto e il contrario di tutto: vita privata (sua) e pubbliche disgrazie (Trump e sodali), la sua voce e i suoi testi, Furio Colombo, Sacco e Vanzetti e Morricone. E le poesie del libro, che poi sono il motivo per cui siamo qui. Sono state scritte quasi tutte tra il 1991 e il 1997. Iniziato un percorso di analisi, a Baez era stato diagnosticato un disturbo dissociativo dell’identità. In pratica aveva sviluppato personalità multiple. «Il disturbo era dovuto a un trauma accaduto durante l’infanzia: un abuso sessuale e fisico», spiega. «Per tutta la vita ho sofferto di fobie e di ansia, e non capivo perché. Ma ho incontrato dei buoni terapisti, che mi hanno insegnato ad affrontarle. Sono problemi che di solito seppelliamo e poi tornano a farci visita. Per capire come risolverli bisogna lavorare duro».

Le poesie si susseguono in ordine più o meno cronologico seguendo la vita di Baez. Ci sono la madre, l’amica del cuore, il trasloco, il primo bacio, il figlio Gabe, la lotta contro le fobie, Jimi & Bob, un viaggio nelle canzoni di Leonard Cohen, un corso di ginnastica per signore anziane. E l’amatissima sorella Mimi Fariña, «una donna tormentata», come ha ricordato in serata sul palco del Franco Parenti, ospite scalza della ventiseiesima edizione della Milanesiana di Elisabetta Sgarbi, intervistata da Sandro Veronesi.

Tornando al pomeriggio con i giornalisti, Joan Baez fa capire che lei parlerebbe volentieri anche solo del libro. «Ma oggi quando dico qualcosa, devo sempre metterlo nel contesto dello stato disastroso in cui si trova il mio Paese. Secondo me non ci sono molte speranze. L’ho scritto quando ero politicamente attiva ma il libro non riguarda quell’aspetto. Parte delle poesie di questa raccolta sono fortemente influenzate, o in realtà scritte, da alcuni degli “autori interiori” nati dal disturbo di cui soffrivo. Questo in parte spiega perché si tratta di un testo molto personale e non politico. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare il momento politico che stiamo vivendo. È la prima volta che vengo in Italia senza incontrare il mio amico Furio Colombo. L’ultima volta che ci siamo visti abbiamo parlato del fascismo e lui mi ha detto che nel fascismo ci era nato e ora ci sarebbe morto».

Un’amicizia, quella fra i due, giocata anche sul terreno della musica. Here’s to You, per esempio. «Furio è venuto a bussare alla porta della mia stanza d’albergo assieme a Morricone, un gentleman, e mi ha detto che avevo quattro giorni di tempo per scrivere un testo. Non c’era internet, quindi telefonavo a casa per chiedere dettagli e informazioni sulla storia su cui dovevo lavorare. Sono stata una stupida a non chiedere soldi: se mi fossi accordata sulle royalties avrei potuto non lavorare mai più».

In effetti il brano scritto per la colonna sonora di Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo è finito dappertutto: da un videogioco come Metal Gear al palco di Sanremo (Emma e Modà, 2011, per chi avesse rimosso). Baez racconta che anche le sue versioni di C’era un ragazzo… e Un mondo d’amore nascono da suggerimenti dell’amico italiano. E di quest’ultima il pubblico del Parenti ha potuto ascoltare una versione a cappella, bissata in chiusura di serata da Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me ’round, inno per i diritti civili basato su un quasi omonimo spiritual. Ai giornalisti, invece, Baez ha regalato la One in a Million scritta per lei da Janis Ian. «C’è bisogno di inni» spiega Baez. Per un certo periodo di tempo c’è stato in giro fin troppo talento. In qualche modo ha condizionato in positivo, consciamente o meno, tutti quelli tra noi che scrivevano canzoni. Oggi ci si domanda chi scriverà un’altra Blowin’ in the Wind. In realtà ci sono un sacco di belle canzoni, ma quello che tutti desideriamo è un inno. Come We Shall Overcome, il più potente che ci sia mai stato perché tutti potevamo cantarlo, e sentire che stavamo insieme ed eravamo forti».

Riguardo al bisogno di canzoni adatte a questi tempi, Baez dice che non sa se e come arriveranno, ma nel frattempo possiamo fare con quello che già abbiamo: «Ho notato che i giovanissimi che protestano contro le leggi dello stato della Florida in tema di armi cantano le canzoni di Bob Dylan. Per me sono canzoni che non hanno rivali. Quando ho visto A Complete Unknown mi sono chiesta quanti saranno i giovani che avranno la possibilità di conoscere la sua musica». Racconta che l’altro giorno un giornalista di un’altra edizione di Rolling Stone le ha chiesto se Dylan l’avesse chiamata dopo aver visto il film. «Lavori a Rolling Stone da un tempo sufficiente per sapere che Bob Dylan non chiama nessuno», gli ha risposto. «E io non chiamerò lui», aggiunge. Il film però le è piaciuto, «a patto di non scordarsi che è un film», precisa. «E Timothée Chalamet è troppo pulito».

Con Dylan per la Rolling Thunder Revue. Foto: Ken Reagan, Courtesy of Netflix

Nel libro accosta Jimi Hendrix a un vulcano, un’immagine evocata dall’esecuzione dell’inno americano a Woodstock. «Quando mio figlio mi ha chiesto se l’ho conosciuto, gli ho risposto che mi sembrava di no. Allora mi ha mostrato un’immagine presa da internet e fatta con Photoshop in cui eravamo insieme a fumare marijuana nel mio camerino. È molto bella come immagine ma in realtà c’erano un sacco di musicisti con cui semplicemente ci si incontrava ai festival. Alcuni coltivavano i rapporti e altri no, io ero tra questi ultimi».

Oggi, a 84 anni, Joan Baez è una persona molto disciplinata. «Faccio ginnastica, cammino e seguo una dieta senza sgarrare», racconta. «Non potrebbe che essere così, perché in questo modo riesco a fare la mia vita, anche se da quando non suono più dal vivo è tutto diventato più semplice: non devo più fare vocalizzi e non devo più pensare alla chitarra. Non è che mi sia proprio ritirata del tutto: partecipo ancora a concerti di beneficenza e se mi chiedono di fare due o tre canzoni non è un problema. Non ho più la stessa estensione di prima, però non escludo di fare qualche concerto, se è organizzato in modo da non farmi girare in bus e stancare troppo. Anche perché mi piace, ma mi piace cantare, non viaggiare e tutto il resto. Insomma, se arriva qualcosa di creativo, non chiudo la porta alle possibilità».

E a proposito di concerti e di benefit, esattamente quarant’anni fa ha partecipato al Live Aid. Oggi le ragioni per mettere su un evento dello stesso tipo non mancherebbero. «Riguardo al Live Aid, l’unico rischio era quello di non essere invitati. Faccio questa battuta per dire che non era propriamente un evento politico. Però ho capito che per molti giovani di allora era la prima volta che sentivano dire che c’era la fame nel mondo. Io pensavo che lo sapessero, ma molti hanno detto che proprio non ne avevano idea. Gli Stati Uniti sono un Paese troppo ricco. Siamo viziati, lo sono i nostri ragazzi, compresa mia nipote che è stupenda, intelligente e piena di talento. All’università scriveva e cantava canzoni, e voleva diventare un avvocato nel campo dello spettacolo. Un paio di mesi fa si è laureata e più quel giorno si avvicinava e più le cose nel nostro Paese si mettevano peggio. Ora vuole fare l’avvocato costituzionalista, speriamo che nei prossimi anni ci sia ancora una costituzione».

Considerazioni pessimiste, ma attenzione: «Durante la mia vita non ho mai avuto grande speranza, in realtà. Ma insieme agli altri ho ottenuto dei risultati perché ho agito. La speranza è un muscolo che va allenato». È così, Joan Baez, un attimo prima ti inchioda con le sue considerazioni lucide e inevitabilmente poco ottimiste. E un attimo dopo ti ricorda che se non credi all’inno di Pete Seeger da quel divano non ti schioderai mai. Certo il 2025 è l’anno peggiore tra quelli che ha vissuto, «oggi che “empatia” è diventata una parolaccia, una cosa per deboli».

Quello che succede a Gaza e in Ucraina le spezza il cuore. «Anche perché allo stato attuale delle cose non vedo una soluzione. Tecnicamente sono due situazioni diverse, ma in entrambi i casi c’è un potere più grande che cerca di sopraffarne uno più piccolo, e quest’ultimo combatte disperatamente. Ho dipinto un ritratto di Zelensky, credo sia l’unico eroe di guerra che mai dipingerò». “Pace” invece è una parola che non le piace: «Riguarda gli eserciti, è qualcosa di statico, anche di noioso: preferisco pensare in termini di attivismo non violento, qualcosa che si muove».

Sul suo sito e sui suoi social sono elencate le cause per le quali oggi, secondo Joan Baez, vale la pena battersi. Come dire: non ci sono scuse. Se hai voglia di provare a cambiare le cose, da fare c’è parecchio. Lei al momento sostiene un gruppo di avvocati che si occupa di dare una mano alle famiglie divise dalle deportazioni di migranti messe in atto da Trump, «gente a cui hanno portato via anche la dignità». A che le chiede come sta, risponde che il problema principale è quello del sonno: «Le notizie che arrivano tutti i giorni mi tengono sveglia a chiedermi: sta succedendo davvero? Ma fondamentalmente la mia salute e il mio spirito vanno bene». Nonostante, o forse grazie a, una Tesla distrutta subito dopo averla comprata. «L’avevo ritirata e l’ho guidata per un’oretta, il tempo di tornare a casa. Sono finita contro un albero: probabilmente era il Signore che voleva dirmi qualcosa».

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