I fiori del male è un manga disegnato da Shūzō Oshimi, uno dei grandi mangaka contemporanei. È la storia di un ragazzo, Takao, amante della letteratura, e ovviamente de Les Fleurs du Mal di Charles Baudelaire, che si ritrova a scoprire i lati oscuri di se stesso a causa di un furto scolastico e delle pressioni della compagna di classe, la solitaria e nichilista Sawa Nakamura. Un manga, diventato poi anime (ma mai completato), sulla «fine della pubertà», come scrive lo stesso Oshimi all’inizio di ogni tankōbon: «Il periodo oscuro che si vive quando ci si avvia a diventare “adulti”, vale a dire quando ormai non siamo più spensierati bambini delle elementari perché in noi sta emergendo una forma di autocoscienza» di cui si conosce l’inizio, ma non la fine.
Affrontando crescita, imbarazzo, vergogna nel periodo della pubertà e della prima adolescenza, I fiori del male è una rara occasione per confrontarsi con i traumi depositati nella polvere della nostra memoria. In un’opera intensa che ci divora dall’interno, l’anime rincara la dose con una soundtrack che sottolinea le ansie raccontate, ingigantendole fino alla claustrofobia. In particolare, a devastarci, è la chiusura di ogni episodio, affidata a Hana, brano del percussionista Hirokazu Asakurami, in arte Asa-Chang e a capo di Asa-Chang & Junray (non fatevi ingannare, Junray non è un musicista, ma la parola giapponese per “pellegrinaggio”), uno degli artisti culto del circuito underground giapponese degli ultimi 30 anni.
Hana è un capolavoro di emotività grandiosa e, a suo modo, minimalista. Nella versione originale è una composizione per Junraytronics (device di elaborazione musicale costruito dallo stesso artista che «sincronizza gli strumenti con la voce»), tabla, archi e canto, ma nelle varie forme che ha preso nei suoi oltre 20 anni di vita, possiamo ritrovarla anche in versione marcetta popolare, come in quella scelta per i titoli di coda degli episodi dell’anime I fiori del male. La potenza del brano va oltre gli arrangiamenti — che però offrono sempre nuove intriganti letture — di una composizione geniale e senza tempo.
La tabla scandisce ogni sillaba delle due voci – quella femminile e quella maschile – con una precisione ansiogena. Ogni particella rimbalza sulla pelle della percussione, come uno scioglilingua, un drammatico balbettio. La velocità dell’enunciazione varia, prima lenta, poi sempre più veloce, infinitamente rapida, per tornare educata, calma, scandita. Siamo in una versione nipponica allucinata di Musica per parole, i vinili musicati pensati dalla Olivetti come lezioni di dattilografia che utilizzavano la voce per scandire il battere sui tasti delle proprie macchine da scrivere. Ma qui non c’è lezione, ritmo da imparare; le parole scritte da Asa-Chang ci franano addosso, ingestibili in termini di comprensione, con una violenza emotiva rara.
Hana ga saita yo (un fiore è sbocciato) è la cadenza su cui si costruisce il brano che racconta di un fiore che nessuno ha visto sbocciare e che il vento fa agitare fino a far piangere. Mentre la visione della realtà di Takao si decompone, la combinazione ritmica-vocale ribattuta da Asa-Chang ne sottolinea l’inarrestabile decomposizione. Assieme, le due opere sublimano.
Asa-Chang è seduto su un piccolo sgabello che ricorda quelli che si trovano all’interno dei sentō, i bagni pubblici della sua terra natia. Dà le spalle al pubblico. Di fronte a sé zampillano le luci del Junraytronics, che quasi ricorda un prop di scena retrofuturistico di Asteroid City di Wes Anderson. Attorno, posizionata a terra sul palco, una variegata e stravagante collezione di piccole percussioni e una tabla elettronica, lo strumento che ha consacrato il suono dell’artista. Ai lati del Junraytronics, in piedi, Yoshihiro Goseki (sassofono, flauto, voce) e Sena Oshima (violino e voce), che accompagnano l’«artista del ritmo», come lui stesso si è definito, in un viaggio molecolare all’interno del ritmo stesso. Tutti e tre sono vestiti con divisa e fascia istituzionali, un richiamo a Moonrise Kingdom, se vogliamo continuare a giocare con le lenti estetiche di Wes Anderson.
Siamo alla Biennale Musica a Venezia (quest’anno diretta da Caterina Barbieri), dove Asa-Chang & Junray si sta esibendo, in questa formazione in trio, per un pubblico a metà tra l’adorante e il frastornato. I brani in scaletta recuperano la discografia del progetto in questi oltre 25 anni di carriera. Sillabazioni, pizzicati, piccoli accenni percussivi si rincorrono mentre Asa-Chang dirige la sua piccola orchestra personale. La sua musica è sperimentazione e gioco (come il canone a tre voci della conta dei numeri di Juunisetsu o l’interpolazione di Billie Jean di Michael Jackson), esperienza emotiva e ludica, dadaismo e surrealismo. Ma, perché no, anche futurismo.
Una musica in frazioni, a metà tra il minimalismo di scuola Steve Reich e il sampling hip-hop, una de-frammentazione che ci ricorda come la più piccola unità in musica è quella che può stimolarci, sfidarci, farci emozionare. Asa-Chang prende in mano la sua lingua e estrae la percussività del dizionario giapponese, utilizzando il ritmo come escamotage emotivo. Lui che fa sperimentazione ma si definisce pop, con il suo fare divertito dal palco, è quel tipo di artista che, quando scopri, vuoi consigliarlo a tutte le tue amicizie.
Non è un caso che la fama di Asa-Chang derivi proprio dal passaparola delle radio pirata inglesi che, a inizio millennio, hanno passato in scaletta Hana, con una costanza piuttosto rara per una produzione giapponese di quei giorni. Asa-Chang (che in carriera è stato anche turnista per un altro progetto avanguardista come i Fishmans) è proprio quella cosa là, quell’amore al primo ascolto, la soglia d’ingresso per un mondo ricondotto alla sua forma geometrica più elementare, una rivoluzione dell’ascolto.
Se non avete mai sentito nulla di Asa-Chang & Junray, ritenetevi fortunati di aver la possibilità di perdervi nella sua disordinata discografia. Avrete l’occasione di ascoltare qualcosa di strano, magico, rivoluzionario. Avrete l’occasione di innamorarvi di un percussionista giapponese, anche senza essere a Venezia.













