Nelle opere normali, mitologiche o no, i corteggiamenti incestuosi tra fratelli e sorelle che non si vedono da quando sono nati e il destino ha fatto nuovamente incrociare si interrompono appena prima del patatrac. Così il pubblico può tirare un sospiro di sollievo. Nella Valchiria di Richard Wagner – vista a Roma in una splendente trionfale edizione di Daniel Harding, nuovo direttore dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia – Siegmund e Sieglinde si riconoscono nel tempo che ci vuole ad accogliere l’ospite misterioso e bere un bicchiere d’acqua (almeno 10 minuti, ma l’opera dura quasi quattro ore, è un mondo a parte). Si corteggiano per tutto il primo atto (“sei tu la primavera che sognavo con desiderio / intirizzita nel gelido inverno”) e vanno a concludere direttamente dietro la scenografia di scalinate minimal stile Eur dell’impianto di Vincent Huguet, regista francese allievo di Chéreau e Sellars, mentre il marito buzzurro di lei dorme per via di una pozione che gli ha dato la ragazza.
Wagner, il cui istinto teatrale era pari almeno alla sua disordinata collezione di fiabe e miti nordici, mette l’incesto tra gli ingredienti di un’opera che è già intossicata musicalmente dopo le prime sequenze: l’arrivo di Siegmund nella notte buia e tempestosa (sette contrabbassi pompano tipo techno di Colonia), il tema della spada che l’uomo estrae da un tronco di frassino e lo renderà momentaneamente invincibile (corni e trombe direttamente dal Paradiso), il bellissimo duetto sull’amore come primavera che spezza l’inverno. È certo che il suo pubblico apprezzerà l’audacia del tema – oppure la respingerà inorridito – moltiplicata dal romanticismo esagerato del testo e della musica. Il tenore afroamericano James McCorkle e il soprano Vida Miknevičiūtė, la più applaudita della serata, rendono bene l’agitata coppia di innamorati in fuga, ignari del peccato commesso. Con un vago retrogusto di commedia che si respira qua e là, non sempre involontaria, che sembra prevedere la parodia: il sonnifero nel caffè del marito buzzurro, tipo pochade; e al secondo atto nel Walhalla il dio Wotan, padre assente della coppia incestuosa, che discute con la moglie Fricka, tipo casa Vianello, la punizione da dare ai due.
Quando Wotan (il baritono Michel Volle, altra star della serata) chiama finalmente la figlia Valchiria Brünnhilde per eseguire la condanna, ci siamo. La cavalcata delle Valchirie è uno dei pezzi più celebri della musica d’ogni tempo, una bomba di sesso, morte, guerra, come avevano intuito Fellini e Coppola. Il leitmotiv entra ed esce per tutto il secondo atto ed esplode nel terzo. Non solo Apocalipse Now: c’è anche il grido di battaglia delle guerriere “Hojotoho!”, accompagnato da un buffo grido. Chi sono le Valchirie? Nove figlie illegittime di Wotan (Wunschmaid, le figlie del desiderio): vergini a cavallo, con l’elmetto e l’armatura modellata sul seno di certe goffe messinscene d’epoca, soprano vichinghe magari anche nel fisico, risparmiate e coperte di sobrie mantelle scure in questa messinscena essenziale vista all’Auditorium (era la prima volta che un’opera veniva rappresentata nei gusci di Renzo Piano). A loro il padre Wotan ha assegnato il compito di recuperare i cadaveri degli eroi morti in battaglia, per assumerli nel suo cielo (con le donne, Wagner, superuomo del suo tempo, è sempre prevedibile: se non è sesso, è morte).
Daniel Harding. Foto: Accademia Nazionale di Santa Cecilia/Musa
Della strampalata drammaturgia di questa opera (la seconda delle cosiddetta tetralogia sull’anello del Nibelungo, madre di ogni fantasy a venire), piena di spiegoni, Wotan è il personaggio centrale: traditore seriale, dio monologante ossessionato dalla libertà concessa agli uomini, prigioniero delle leggi del patriarcato e della morale almeno quanto lo sono i suoi figli e figlie sparse. Senonché quelle leggi lui deve farle rispettare. Aggiungi la questione generale della tetralogia: l’anello rubato, la costruzione del Walhalla, le debolezze troppo umane di Wotan per mantenere il potere e l’eterna giovinezza, crisi di mezza età che non si addicono a un dio. Da qui lo scontro con la figlia Brünnhilde, che si rifiuta di “terminare” l’incestuoso eroe, e prova a salvarlo in nome dell’amore, senza successo.
Dilemma tragico, dal momento che non c’è bisogno di un cattivo vero, ma soltanto di leggi da trasgredire o da rispettare. E desideri che invecchiano, imborghesiscono, si offuscano: “amare ciò che tu avevi amato”, si difenderà Brünnhilde dalla severità di suo padre. Rivoluzionario sulle barricate del ’48, nemico delle convenzioni del capitalismo borghese (l’oro e il potere contro l’amore e il desiderio), lettore entusiasta di Schopenhauer (il filosofo non ricambiava: sembra che fosse tra quelli scandalizzati dall’incesto, e preferiva Rossini), ma anche in vecchiaia trombone antisemita, Wagner era un apostolo del sesso, amante delle mutandine di seta e dei vestiti da donna. I suoi “figli”, giovani wagneriani di mezza Europa, lo andavano a adorare nel teatro che si era fatto costruire a Bayreuth. La città perfetta. Dove c’era posto per tutti come in una specie di Woodstock d’epoca, dai re ai poeti decadenti alle coppie lesbochic a Hitler in persona.
Alla fine Valchiria sostiene che c’è un solo modo per amare l’amore: restare uomini o donne mortali. Siegmund rifiuta di farsi portare nel Walhalla, e muore. Brünnhilde che non è riuscita a salvarlo torna ad essere donna, Wotan la sdraia su una rupe alla mercé del primo uomo che passa. Dopo l’incesto, lo stupro. L’ultima scena della Valchiria, con la ragazza circondata dalle fiamme perché “solo un dio più libero liberi la sposa” è una specie di cartoncino porno sadomaso. Wagner lo sa benissimo e non risparmia la fantasia agli spettatori maschi. Ma il finale è incredibile, doppio, triplo: dopo il saluto struggente del padre alla figlia, l’evocazione dell’incantesimo del fuoco col battito di un incudine nascosta tra l’orchestra, Wagner prende per sé i due minuti finali di “musica per il fuoco”, con i flauti, le quattro arpe che erano rimaste ad aspettare quasi dall’inizio dell’opera e un glockenspiel, un ostinato da maniaci che avrà mandato a casa generazioni di wagneriani con le lacrime in tasca e la voglia di fare non si sa cosa.
