Poteva Kanye West non essere amico di Charlie Kirk, il podcaster e attivista conservatore il cui omicidio la scorsa settimana ha scatenato una virulenta sete di vendetta a destra? No e infatti ecco Kirk che compare a metà di In Whose Name?, il documentario in cui Nico Ballesteros, che ha avuto accesso illimitato a Ye nell’arco di sei anni, racconta la sua trasformazione da rapper a complottista. Kirk sorride sinceramente eccitato mentre intervista Ye e gli chiede come s’è avvicinato alle idee conservatrici. È il 2018, poco dopo la prima visita di Kanye alla Casa Bianca di Trump, in piena fase MAGA.
Da questo punto di vista, In Whose Name? è un’affascinante macchina del tempo che ci riporta alla prima elezione di Trump. Prima del Covid e prima delle teorie su come la frustrazione ha portato tanti giovani nel 2024 tra le braccia dei repubblicani. Prima di ChatGPT e delle illusioni che ci si è fatti sull’IA, prima dei raid dell’ICE e della sua rete di sorveglianza che ha messo dentro civili innocenti. E però il film non si propone di offrire un punto di vista nuovo sul percorso fatto da Ye in direzione delle provocazioni della destra americana. Si limita piuttosto a far vedere cosa potrebbe averlo spinto fin lì e infatti si apre con Ye che torna a Chicago (e fa la promessa presto infranta di non lasciare mai più la sua città natale) e visita la casa d’infanzia dov’è cresciuto con la madre Donda West, morta nel 2007, due anni prima del suo famigerato sfogo agli MTV VMAs, quando ha interrotto il discorso di premiazione di Taylor Swift.
L’idea del documentario è che la controversia con Swift ha costituito il primo atto del Kanye che conosciamo oggi. Quand’è tornato ai VMAs nel 2010 per fare Runaway, un pezzo del capolavoro My Beautiful Dark Twisted Fantasy, le riprese nel backstage mostrano un’atmosfera da spogliatoio dopo la vittoria di un campionato. Rihanna è lì che si congratula. Lui poco dopo taglia una torta a forma della sua scarpa Nike, all’epoca suo partner commerciale. L’allora compagna Amber Rose gioisce. In effetti, le sneaker hanno reso Kanye un re e la collaborazione con Adidas, lanciata poco dopo una rottura con Nike, lo ha reso (si stima) miliardario… prima che mandasse tutto in fumo.
Sentiamo pronunciare le parole «salute mentale» durante tutto il film e sembrano sussurri di un fantasma che resta fuori campo. Ye ha parlato pubblicamente della diagnosi di disturbo bipolare, e anche se i periodi in cui ha fatto meno dei farmaci sono stati ampiamente documentati dalla stampa (in particolare da TMZ), qui siamo testimoni di episodi inquietanti che potrebbero suscitare compassione se solo Ye non si mostrasse così menefreghista delle conseguenze che le sue azioni hanno sul prossimo. C’è un angosciante viaggio in Uganda in cui aggredisce verbalmente una persona del suo entourage che sta cercando di evitare un incidente internazionale. Ye si trasforma in un lampo, è visibilmente scollegato dalla realtà. A scatti d’ira del genere seguono silenzi inquietanti, con la tensione che ribolle sotto la superficie e i collaboratori lasciati in un luogo remoto in elicottero (presumibilmente a spese di Kanye) e di fatto intrappolati lì con lui.
Ci è dato modo anche di vedere frammenti d’intimità casalinga coi Kardashian. Ye si scaglia contro Kris Jenner, mentre la famiglia di lei lo supplica di tornare a prendere i farmaci di cui ha bisogno. È in questi momenti senza filtri che emerge il livello di precarietà della vita di Ye, anche se il documentario non aggiunge alcuna rivelazione. Anche solo ripensando a qualunque uscita pubblica di Ye negli ultimi sei anni ci si poteva convincere anche prima di vedere il documentario che è proprio così che probabilmente vanno le cose dietro le quinte.
Sono episodi, in ogni caso, che servono a rendere più umano Ye, con tutti i suoi problemi. La sensazione di essere intrappolato è quasi palpabile guardandolo in faccia. Lo sguardo è pieno di dolore, come se fosse in cerca di qualcosa, sembra puntare in tutte le direzioni nello stesso momento. C’è naturalmente un genio dietro tutta questa follia e va detto che fortunatamente Ballesteros non costruisce un ritratto dell’artista penalizzato dalla propria grandezza. È facile perdersi nella crudezza del documentario, ci si sente come uno che spia le foto dal telefono di un altro. È un punto di vista straordinario sull’ordinarietà della vita di una celebrità giacché spesso Ye è da solo in auto, in attesa di essere accompagnato a un breve incontro con qualche altra persona famosa col quale scambia due chiacchiere su nulla di particolare per poi andarsene, di nuovo scortato.
Alcune delle sequenze più suggestive del film ritraggono l’apparato della celebrità, proprio quello da cui Kanye vuole disperatamente fuggire, lo stesso apparato che gli permette di sedere accanto ad architetti e artisti di fama mondiale come James Turrell, autore dello stupefacente Roden Crater a cui Ye ha donato 10 milioni di dollari. Il progetto di Turrell costituiva una parte centrale del film di Ye del 2019 Jesus Is King ed è parte della sua svolta religiosa. La serie Sunday Service è resa con dettagli impressionanti nel film di Ballesteros, facendo rivalutare quello che altrimenti potrebbe sembrare un momento minore della sua carriera. È nel fervore religioso che Ye sembra trovare la maggiore chiarezza, anche se la beatitudine dura poco, attratto com’è Kanye dalle controversie.
In Whose Name? funziona anche una critica ai funzionamento dei media nell’era dei social. In tutto il film, Ye combatte contro mostri invisibili, ovvero gli utenti di Twitter che non sono d’accordo con lui. Col senno di poi e guardando il film si capisce che molti dei peggiori impulsi di Ye sono stati alimentati dalla gratificazione istantanea delle nostre reazioni online. Una parte del documentario è dedicata alla disastrosa controversia della maglietta “White Lives Matter” che, nel mondo squilibrato del 2025, sembra quasi innocua, non è neanche lontanamente la cosa peggiore che si può leggere su una t-shirt oggigiorno. Sì, c’è anche Candace Owens che indossa la maglietta che ha dato il via a una serie di sfoghi che hanno quasi rovinato Ye.
Il film non indugia sulle farneticazioni antisemite di Ye e sceglie piuttosto di concentrarsi su come ha reagito al contraccolpo subito. Cosa dobbiamo però pensare del fatto che, nonostante le controversie, Ye continua a esibirsi in mezzo mondo? Che la sua YZY ha commercializzato una maglietta con una svastica, eppure continua a fare affari? Buona parte della sua retorica è ormai parte integrante del mainstream. Tutti conoscono Owens, così come Kirk, che in questi giorni viene beatificato dall’establishment statunitense. In Whose Name? si avvicina all’analisi di Ye, delle sue contraddizioni, di come si intrecciano alla cultura in cui viviamo, ma si ferma un passo prima di giungere a una conclusione coerente, il che forse la dice tutta.
