In un mondo di John e Paul, pensatevi Yoko Ono | Rolling Stone Italia
L'artista più denigrata della Terra

In un mondo di John e Paul, pensatevi Yoko Ono

La vedova più odiata del rock compie 90 anni. È stata vittima di xenofobia, sessismo, ageism. Eppure è stata talentuosa e audace, una provocatrice incredibilmente sicura di sé. Impariamo da lei

John Lennon Yoko Ono bed-in

Yoko Ono ai tempi del bed-in ad Amsterdam con John Lennon, marzo 1969

Foto: Charlie Ley/Mirrorpix/Getty Images

Pensate a quante cose potremmo realizzare nella vita se fossimo tutti un po’ più Yoko Ono. Se, come lei, fossimo sicuri delle nostre capacità, provocatori e avventurieri nella creatività ma anche sprezzanti del giudizio degli altri perché troppo determinati a esprimere la propria essenza senza compromessi o timori. Confessatelo, è per questo che vi sta antipatica: la invidiate. Poche donne nella propria vita si sono trovate ad arginare fiumi d’odio come Yoko Ono: xenofobia, sessismo, giovanilismo e la macchia di un peccato originale da cui non esiste redenzione, ovvero l’avere distrutto, così dicono, il gruppo più amato di tutti.

«C’è ancora gente che la ferma per strada solo per gridarle: hai fatto sciogliere i Beatles!», mi ha detto suo figlio Sean Lennon qualche anno fa, nel corso di un’intervista. «Non credi sia disumano aggredire con tanta violenza una donna della sua età?». Oggi l’artista storicamente più denigrata della terra è una splendida 90enne. Autrice di molteplici album che attraverso i decenni continuano ad essere scoperti da vecchie e nuove generazioni a suon di compilation-tributo, nella sua carriera Yoko Ono ha trattato la musica come un’estensione della sua arte concettuale. Questo è specialmente vero per i primi lavori sperimentali avant-garde Plastic Ono Band e Fly: la parte più difficile non è ascoltare i suoi canti fatti di grida e gemiti, ma ascoltarli senza pregiudizi. Soprattutto dopo averla osservata nell’illuminante documentario Get Back con i Fab Four in sala di registrazione e lei incollata come una patella di mare a suo marito tra gli sguardi irritati della band. John non era stato diplomatico: senza avvisare i compagni, ne aveva improvvisamente imposto l’onnipresenza.

In modo simile, Lennon ha lasciato che la voce di sua moglie entrasse a gamba tesa nelle nostre orecchie nel 1970 quando pubblicava il Plastic Ono Band di Yoko come album gemello e omonimo al proprio. A detta di Yoko, quando era lei ad avvicinarsi al microfono piuttosto del marito, il personale in studio avrebbe spento gli amplificatori o se ne sarebbe andato in bagno. Eppure il risultato è un disco che anche a distanza di mezzo secolo difende il suo valore. «Nel suo modo oscuro e caotico, è quasi bello come quello di suo marito», si leggeva nella recensione del leggendario critico di Rolling Stone Lester Bangs. Dopo tutto Lennon era in India a meditare con il Maharishi quando Ornette Coleman (un gigante, pioniere del free jazz) colpito da una delle mostre d’arte di Yoko a Parigi, le chiedeva di un unirsi a lui sul palco della Royal Albert Hall (il risultato è AOS, incluso nel suddetto album). Come un musicista jazz che si lancia nell’arte dell’improvvisazione, Yoko Ono è stata in grado di abbandonarsi e lasciare che la magia accadesse. Lo sapeva bene John Lennon, che come gli altri Beatles verso la fine dei ’60 era interessato all’avant garde, e con Yoko saltò dritto sul treno della sperimentazione.

Nata a Tokyo, da teenager Yoko Ono diventa la prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa università di Gakushūin, ma dopo un anno di studi decide di raggiungere la famiglia a New York, dove suo padre banchiere si era trasferito per lavoro. È qui che conoscerà il primo marito Toshi Ichiyanagi, un pianista inserito nel mondo avant garde newyorchese. Il loro loft di Manhattan sarebbe diventato un importante teatro di eventi per quella scena, con visitatori abituali del calibro di John Cage e Yoko Ono alle prese con le sue prime installazioni di arte concettuale, spesso interattive con il pubblico (una caratteristica che denoterà molti dei suoi futuri sforzi artistici). Nonostante venisse da una famiglia più che abbiente, anche lei ha avuto una buona dose di dramma nella vita, come spesso è riflesso nei suoi testi, dalla miseria indotta dalla Seconda guerra mondiale, a un tentato suicidio dopo il primo divorzio che la portò a soggiornare in un ospedale psichiatrico, dall’essere estraniata dalla propria figlia Kyoko per 25 anni, fino ad assistere all’omicidio del terzo marito nel 1980.

Se con i primi due album ha l’ambizione di creare una nuova forma d’arte, in quelli successivi crea melodie più abbordabili, come in Approximately Infinite Universe del 1973 che si potrebbe considerare tra i primi album di feminist rock, fosse solo per il saggio sul femminismo contenuto all’interno del disco. Una versione ridotta era stata pubblicata nel New York Times: Yoko, con una certa lungimiranza, riconosceva l’inizio di una rivoluzione in cui le donne presto avrebbero compreso la futilità di competere con gli uomini. Dunque incoraggia una società in cui gli attributi femminili sarebbero stati una «forza positiva per cambiare il mondo» dopo che gli uomini, negli ultimi 2000 anni, avevano «ripetutamente dimostrato di avere fallito». Ammette il ruolo cruciale dell’uomo come procreatore e padre di famiglia e, piuttosto che una lotta tra i sessi, incita a una rivoluzione in cui la società si sforza a trovare soluzioni insieme (se vi ricorda il testo di Imagine è perché in parte lo ha scritto lei). Ancora dalla serie “se solo avessimo le palle di Yoko”, per la copertina di Season of Glass scatta una foto agli occhiali da vista di John Lennon ancora sporchi di sangue dopo l’omicidio e in Milk & Honey, alterna le proprie canzoni con quelle realizzate dal marito, portando a termine l’album postumo sulla falsariga di Double Fantasy.

Al lutto ha reagito nell’unico modo che conosceva, ovvero lavorando instancabilmente, tra mostre d’arte, impegni sociali e musica a volte più abbordabile, a volte meno, spesso spronata da musicisti che la considerano come una sorta di divinità. Due nomi su tutti, sono Thurston Moore e Kim Gordon dei Sonic Youth, insieme ai quali crea nel 2012 l’album sperimentale noise Yokokimthurston. Tra i suoi collaboratori più fidati ci sono anche il figlio Sean e la comunità di artisti che gira intorno alla loro etichetta Chimera Records. «Lo sai com’è fatta la mamma», mi diceva Sean. Alludeva al fatto che quando sua madre viene presa da un’urgenza creativa, deve mollare tutto quello che sta facendo per dedicarsi esclusivamente ad essa.

Se c’è chi insiste che il matrimonio con John Lennon sia stato un danno per la carriera artistica di Yoko Ono perché mai nessuno avrebbe retto il paragone, la lista dei musicisti che vogliono rivisitare i suoi brani negli anni continua a crescere, dai Flaming Lips a Cat Power, Anohni, Porcupine Tree, Moby. Ocean Child: Songs of Yoko Ono è uscito lo scorso anno, prodotto da Ben Gibbard dei Death Cab for Cutie e contiene cover, tra gli altri, di David Byrne, Deerhoof, Sharon Van Etten. In tal senso, Yoko Ono sembra una di quegli artisti a cui solo il tempo concede l’onore che si merita. L’inno pacifista Give Peace a Chance e lo slogan “War is Over (if you want it)”, entrambi coniati per la guerra in Vietnam e di cui è co-autrice, smetteranno di essere cantati solo quando la classe dei potenti smetterà di creare guerre in terra (esatto, mai). Anzi, con ogni conflitto ritornano con più vigore, come nel 2009 quando Yoko riempie i tetti dei taxi di New York con la scritta “War is Over”, oppure a Reykjavík, dove dal 2007, accende lo straordinario raggio di luce della Peace Tower per diverse settimane ogni anno.

Non fosse stato per il suo strambo modo di gorgheggiare, il gruppo new wave B-52’s non avrebbe mai scritto l’iconica Rock Lobster. Yoko spiegò anni fa durante un’intervista con la cantante Kate Pierson che John Lennon, non appena sentito il pezzo alla radio, l’avrebbe chiamata tutto eccitato per fargliela sentire e per avvertirla che il mondo era finalmente pronto per lei. John ha avuto ragione, gli addetti ai lavori hanno ormai raggiunto un verdetto unanime sulla sua qualità artistica. Eppure continua ad essere criticata, come dieci anni fa quando, ottantenne, ha ballato nel video Bad Dancer con un paio di shorts (molto short). Lei si difese nello stile di sempre: ignorando le critiche. È attiva su Twitter, dove non fa che pubblicare messaggi positivi, spesso intesi a ricordarci che ciascun essere umano è in grado di creare arte, l’importante, ci fa capire, è non avere paura di nulla. Novant’anni e non sentirli: auguri di cuore Yoko.

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