In The End - I tormenti di Chester Bennington | Rolling Stone Italia
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In The End – I tormenti di Chester Bennington

Il frontman dei Linkin Park si è tolto la vita il giorno del compleanno dell'amico Chris Cornell, ma la sua voce vivrà per sempre nelle canzoni della band

In The End – I tormenti di Chester Bennington

Il concerto-maratona che i Guns N’ Roses hanno suonato all’Apollo Theater di New York – trasmesso in diretta radiofonica in tutta l’America – è stato ricco di commemorazioni, non solo per i 30 anni di Appetite for Destruction, il loro album di debutto del 1987. Verso la fine della seconda di tre ore di concerto, Axl Rose si è allontanato dal palco, lasciando il centro della scena al duetto di Slash e Richard Fortus sulle note di Wish You Were Here, il classico dei Pink Floyd del 1975 dedicato a Syd Barrett. Rose è riapparso poco dopo, si è seduto al piano e ha guidato la band verso un’altra cover, Layla, l’elegia strumentale di Derek and the Dominos.

Rose non ha detto nulla, né prima né dopo, mentre cantava November Rain. Il capolavoro dei Guns è arrivato al momento giusto: Love is always coming and love is always going – recita il testo – And no one’s really sure who’s lettin’ go today. Poi, con Black Hole Sun dei Soundgarden, hanno dato l’ennesima dimostrazione di quanto siano una cover band grandiosa. Hanno dedicato il brano alla memoria di Chris Cornell, l’icona del grunge che si è tolta la vita lo scorso maggio.

Chester Bennington sul palco degli I-Days di Monza, l’ultimo concerto dei Linkin Park in Italia. Foto di Kimberley Ross

I Guns suonano questo blocco di canzoni ogni sera – spesso chiudono con Knockin’ on Heaven’s Door di Bob Dylan –, ma, quando Slash e Fortus hanno aperto il bis con Patience (con una spruzzata di Melissa di Gregg Allman, anche lui scomparso a maggio a causa delle complicazioni del cancro al fegato contro cui combatteva da anni), è diventato impossibile non pensare a quanti lutti ha dovuto affrontare il mondo della musica solo quest’anno. Poi un altro fantasma è entrato in sala.
Alle 9 del mattino di quello stesso giorno, a Los Angeles – due mesi dopo la morte di Cornell –, il corpo di Chester Bennington, la voce dell’alternative metal dei Linkin Park, è stato ritrovato senza vita, a quanto pare un altro suicidio per impiccagione. Aveva 41 anni.

Chester con Jay-Z, Paul McCartney e ike Shinoda. Foto di Kevin Mazur / Wireimage

Ho conosciuto Bennington nel 2002, ero a Los Angeles per scrivere una storia sui Linkin Park, il loro debutto sulla cover di Rolling Stone. Bennington, il rapper Mike Shinoda, il chitarrista Brad Delson, il batterista Rob Bourdon, il bassista David “Phoenix” Farrell e il dj Joseph Hahn componevano uno dei gruppi rock più famosi del mondo. Il loro primo album, Hybrid Theory – pubblicato nel 2000, uno dei pochi LP dell’epoca che riusciva a combinare punk, metal e hip-hop con concretezza, coesione e intelligenza – aveva venduto sei milioni di copie negli Stati Uniti e più di 11 nel resto del mondo. Quando li ho incontrati, dopo quasi un anno passato a suonare sui palchi di tutto il Paese, erano pronti per tornare in tour.

All’epoca suonavano sempre come se avessero tutto da dimostrare, anche durante le prove. Bennington, l’ultimo arrivato, era emigrato da Phoenix nel 1999, quando la band ancora si chiamava Xero, grazie all’invito di un talent scout della loro etichetta discografica. Avevano suonato più di 42 showcase, praticamente per tutte le label della città, ma, come mi ha detto Bennington, «Ci avevano scartato tutti». Guardandoli era impossibile ignorare il legame che si era formato affrontando tutti quei rifiuti, lo stesso che li ha aiutati a rimanere loro stessi per 15 anni, nonostante il successo e i cambiamenti di rotta, come nell’album-collaborazione con Jay-Z del 2004, Collision Course, o nel caso dell’LP prodotto da Rick Rubin, Minutes to Midnight. “Bennington e Shinoda si scambiano le parti come se fossero gemelli siamesi”, scrissi allora. “I loro corpi si agitano, fremono di convinzione”.

I Linkin Park con i Korn e Snoop Dogg. Foto di Annamaria Disanto / WireImage

Ho intervistato Bennington in un ristorante di Santa Monica e Samantha, la sua prima moglie, ci ha fatto compagnia. La coppia era in vena di festeggiamenti: poche settimane prima, il 2 gennaio del 2002, il cantante aveva deciso di smettere di bere. La coppia ha brindato all’evento con dell’acqua minerale. Bennington parlava di tutte le dipendenze che lo avevano perseguitato – cocaina e metanfetamine da teenager, l’alcool da adulto – come se fossero ombre permanenti, un monito quotidiano a rispettare se stesso.

«Non è stato difficile cedere a quella roba. Povero, povero me», diceva. Ha anche citato Crawling (da Hybrid Theory), «Una canzone che testimonia quanto sia importante assumersi le responsabilità delle proprie azioni. Nel testo non ho mai scritto “You”: il pezzo parla di me, sono io il colpevole di tutta questa negatività».

Non riesco a immaginare un mondo senza di te. Prego che tu possa trovare la pace nella prossima vita

Rileggendo quella storia nei minuti successivi al ritrovamento del suo corpo, e poche ore dopo il concerto dei Guns N’ Roses all’Apollo Theater, non riuscivo a non pensare alla fragilità del mio lavoro di giornalista. Scrivo di musica e di musicisti, e lo faccio (almeno spero) per i posteri, per le generazioni future. Certo, dipendo da verità evidenti sul momento, da cosa pensano gli artisti della loro opera e di loro stessi nel momento in cui rispondono alle mie domande. E ho imparato questa lezione nel peggiore dei modi, con le storie di Kurt Cobain, Scott Weiland e Chris Cornell.

Non avrò occasione di rivisitare le verità (sulla musica e sulla vita) che mi ha raccontato Bennington nel 2002. Lui, anche in altre interviste e pubblicazioni di ogni tipo, è sempre stato molto sincero nel raccontare i suoi problemi, le sue battaglie contro le dipendenze e il dramma delle violenze ricevuta da bambino. La storia del 2002 è stata l’unica occasione che ho avuto per intervistarlo davvero, l’unica volta che ho raccontato i Linkin Park in profondità. Certo, ho continuato ad ascoltarli e a seguirli, intrigato dalla loro storia. Bennington era un cantante potente, sempre alla ricerca di qualcosa, cambiava con delicatezza e senza mai dimenticare la melodia, sempre al centro delle trasformazioni della sua voce: feroce e affilata, cupa e minacciosa, agitata e arrogante in perfetto stile hip-hop, malinconica e introspettiva.

Chester Bennington e il dj Joseph Hahn. Foto di Carlo Allegri / Getty Images

Ero convinto che High Rise, l’EP che ha registrato con gli Stone Temple Pilots al posto di Scott Weiland, morto per overdose a dicembre 2015, fosse una deviazione promettente, un modo per mettere la voce di Bennington al servizio di una scrittura più tipicamente hard-rock. Gli STP, invece, si sono ritrovati a rimpiangere un altro frontman. I Linkin Park hanno perso molto di più; e io sto scrivendo di un altro musicista che ha scelto di andarsene, anche lui troppo presto, e senza nessun avvertimento.

Durante la serata all’Apollo, i Guns hanno aggiunto una cover al bis, il singolo degli Who The Seeker. L’hanno suonata con una presunzione esaltante. Dopo la morte di Bennington, ascoltare Rose cantare I won’t get to get what I’m after / ‘Till the day I die, mi ha messo i brividi. A maggio, dopo il suicidio di Cornell, Bennington aveva postato sui social un messaggio per l’amico: “Non riesco a immaginare un mondo senza di te”, ha scritto. “Prego che tu possa trovare la pace nella tua prossima vita”.