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In difesa degli astrusi, cervellotici, interminabili pipponi prog

Cinquant’anni fa usciva ‘The Six Wives of Henry VIII’ di Rick Wakeman. Con lui, ELP, Yes e altri il progressive andava oltre. Troppo? Forse no, perché quei dischi aprivano nuovi mondi

Foto: D. Morrison/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images

Il 1973 verrà ricordato come l’anno dei pipponi prog. Gli anni precedenti, a partire dal fatidico 1969 di In the Court of the Crimson King, avevano fatto registrare l’uscita di autentici capisaldi del genere a cura di band destinate al successo: Genesis, Yes, ELP, Jethro Tull e Gentle Giant su tutti. Formazioni che in qualche modo la critica inglese aveva imparato ad apprezzare riconoscendone gli sforzi per consolidare le caratteristiche salienti dello stile (brani lunghi, unione di vari generi, suoni retro-futuristici) che avevano portato a capolavori come Foxtrot, Close to the Edge, Tarkus, Aqualung e Octopus. Opere fresche e originali nelle quali l’armonia tra le varie parti è encomiabile, la classica forma canzone era superata germogliando in brani che univano ricerca, crossover e pulsioni rock. Senza la giusta unione di questi fattori non sarebbe stato possibile che un brano come Close to the Edge, con i suoi 18 minuti infarciti di testi misticheggianti, divenisse uno dei più trasmessi nelle radio dei collage americani, spingendo l’album fino al terzo posto della classifica.

Poi, d’improvviso, qualcosa sfugge al controllo. Le prime avvisaglie si hanno il 23 gennaio di 50 anni fa, quando viene pubblicato The Six Wives of Henry VIII di Rick Wakeman. Il tastierista degli Yes ha da tempo in serbo la serie di pezzi che andranno a completare il concept sulle sfortunate mogli del tiranno inglese, ma ha dovuto attendere il momento giusto a causa di problemi con l’etichetta e di impegni con la band madre che in quel momento è all’apice del successo. Successo che arriderà anche al disco di Rick, catapultandolo in breve al settimo posto della hit inglese.

Tutto bene quindi? No, affatto. C’è chi inizia a vedere non del tutto positivamente il successo del prog, si tratta di diversi giornalisti per i quali tali proposte puzzano di stantio. Già nel ’72 il Thick as a Brick dei Jethro Tull era stato un boccone arduo da digerire: un unico brano di 45 minuti, un concept tra satira sociale e mille altre cose poco chiare, lo avevano fatto tacciare di pretenziosità. Adesso arriva Wakeman a scomodare addirittura Enrico VIII e a sfoderare mille tastiere che suona in maniera tentacolare. Poi dentro c’è sì il solito connubio tra rock e musica classica, ma stavolta le cose si sono fatte più barocche: c’è abbondanza strumentale e virtuosistica, mischioni indigesti tra Mellotron, cori femminili, funk, jazz. C’è il tema storico, la copertina, il modo in cui Rick si presenta in scena con tanto di mantello colorato.

In giro in quel periodo c’è di tutto: per rimanere tra i più noti c’è il rock puro di Stones e Who, le perfette pop song di Elton John, il glam di Bowie, di Marc Bolan e di tutti gli altri che sanno come ammaliare le platee con del sano rock’n’roll. Questo prog sta diventando invece un po’ troppo baroque’n’roll. Tra i critici comincia a venire a galla un certo livore. Ma come? Il rock dovrebbe essere un genere di rottura, con canzoni che colpiscono in faccia, riff taglienti, gioventù, sesso, voglia di spaccare il mondo. E ora questi non fanno altro che menarla con pomposissime tastiere e astrusi concept a base di brani interminabili su re e regine. La ventata di novità è andata a farsi benedire, ora c’è solo noia. E ancora non hanno visto nulla.

Nel corso del 1973 saranno almeno altri due i concept che rincareranno la dose in maniera massiccia: A Passion Play dei Jethro Tull, nel quale le ambizioni del disco precedente si fanno ancora più smisurate, e, soprattutto, Tales from Topographic Oceans (da leggersi immaginando la voce di Fantozzi quando parla della Corazzata Potëmkin) degli Yes, che in quattro suite da 20 minuti ha la modesta ambizione di raccontare la storia dell’universo.

Perché i musicisti decidono di andare così oltre? In primis perché hanno visto quanto successo hanno ottenuto i loro album precedenti e hanno alzato l’asticella. Se il pubblico è pronto per mandare in classifica una suite di un quarto d’ora perché non dovrebbe farlo con altrettante da 50 o 80 minuti? Non è poi solo questione di successo, la volontà è quella condividere con chi ascolta le passioni di chi compone, più i dischi di impipponiscono più si fanno traghettatori di varia cultura. Wakeman adora la storia, Jon Anderson il misticismo, Ian Anderson il surrealismo metaforico e le tematiche sociali.

Arriveranno poi Emerson Lake & Palmer a proporre il tecnologico e iperbarocco Brain Salad Surgery, i Genesis con i deliri jodorowskiani di The Lamb Lies Down on Broadway, ancora Rick Wakeman che dopo il successo delle sei mogli non si fermerà più tra viaggi al centro della terra e miti e leggende di Re Artù rappresentati dal vivo con pattinatori su ghiaccio, mostri di cartapesta e il tastierista sempre più ubriaco. Rick ama la bella vita, così tanto che a soli 24 anni viene ricoverato per un inizio di infarto. Paradossalmente poi molla gli Yes perché trova Tales troppo ampolloso quando lui stesso si lancia in mastodontiche performance che, di fatto, contribuiranno a decretare la fine del prog come fenomeno di massa. Da quel punto ogni cosa che odora di prog verrà messo al bando e ci penserà il punk a rimettere il rock al suo posto (basterà però poco più di un anno perché la new wave cominci a ricuperare alcuni stilemi prog senza le esagerazioni, ma questa è un’altra storia).

Ma i pipponi prog sono veramente tali? Hanno giustificato l’affossamento del genere? Sono così inascoltabili, pretenziosi e tutto il resto delle nefandezze che ancora oggi molti critici di una certa età sottolineano? No. Anche se non si ama il prog non si può prescindere da questi 33 giri perché rappresentano, per la prima e unica volta in ambito rock, qualcosa che va oltre la musica. Io a 15 anni, grazie a Tales from Topographic Oceans, ho scoperto le filosofie orientali e mi sono avvicinato a Yogananda. Ascoltando un pezzo di rock “normale” a cosa mi potevo avvicinare? Alla strada, al sesso, alla ribellione? Ma che palle.

Chiaro che non tutti possano avere le stesse passioni ma quel prog pipposo portava con sé scoperte pazzesche, e più era pipposo e più si scopriva. Con The Lamb sono arrivato a Jodowrowsky, con A Passion Play a Edgar Allan Poe (per la vicenda macabra che racconta) e ai Monty Python (per il grottesco intermezzo di The Hare Who Has Lost His Spectacles). Ascoltando Journey to the Centre Of The Earth ho scoperto Giulio Verne e sono impazzito dietro alla caterva di Moog e cambi di tempo perché per una storia così ci vogliono tempo e ricchezza strumentale. The Myths and Legends of King Arthur and the Knights of The Round Table mi ha fatto appassionare alla storia pagana, Brain Salad Surgery alla fantascienza.

Forse è vero che questi dischi non contengono “vero” rock e non sono sexy, ma vuoi mettere gli stimoli che trasmettono? Magari per alcuni critici questo rappresentava una palla ma per me adolescente era meglio imparare le cose lì che a scuola. Poi è vero, c’erano tastiere sovrabbondanti e pezzi infiniti ma anche una sfida con se stessi per capirli, con alla fine la soddisfazione di avere imparato cose nuove, di avere penetrato qualcosa di difficile che non ti saresti mai più scrollato di dosso. Se ascoltavo solo gli Stones cosa imparavo?

E poi bisogna andare oltre le banalità tramandate da anni, i proggers viveno appieno la loro giovinezza rock: gli Yes erano dei cocainomani, Rick Wakeman quasi ci lasciava la pelle per il bere, Gabriel era un fluido pansessuale, Emerson a petto nudo spaccava tutto (nel vero senso della parola). Non erano rock’n’roll? Certo che lo erano! Solo che non si accontentavano delle banalità ma cercavano di andare oltre, con pipponi, ironia e tanta voglia di fare cultura. E dove cazzo è scritto che il rock non possa essere anche cultura?

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