Il rude boy originale, il rivoluzionario musicale del Terzo mondo, la prima superstar globale del reggae, Jimmy Cliff insomma, è imbottigliato con la sua BMW nel traffico da incubodi Kingston. Fa un giro in auto del genere ogni paio d’anni per visitare i luoghi della sua memoria: il guscio fatiscente della Beverley’s Records dove ha convinto il produttore reggae Leslie Kong a registrare le sue prime canzoni quand’aveva 14 anni, lo squallido sobborgo di West Kingston dove ha vissuto finché non ha iniziato a guadagnare qualche soldo, il vecchio cinema di fronte al quale le strade erano gremite a perdita d’occhio la notte della prima di The Harder They Come.
È una bellissima giornata di sole e Cliff tiene i finestrini abbassati per sentire la brezza che spira dal porto. Suppergiù ogni cinque minuti dal marciapiede o da un’altra auto arriva un urlo: «Jimmy!», «Zio!», «Generale!». Cliff risponde ogni volta con un allegro «Blessed!» o «Respect!» e con un paio di rapide strombazzate. È un po’ come fare un giro a Liverpool con Paul McCartney, solo che l’atmosfera è meno da fan in delirio, è più calda e familiare, come se il più grande cantante vivente della Giamaica facesse semplicemente parte del tessuto della città. «I giamaicani ti omaggiano, ma non ti stanno addosso», spiega Cliff dopo un paio di volte che succede. «Avere autostima è importante. I giamaicani hanno questo tipo di spirito ed è ciò che ci ha spinto a fare molte cose nel mondo. Qui non abbiamo la neve, ma pensa alla squadra di bob. Incredibile!».
Avanziamo a fatica attraverso il caos del Coronation Market, dove i contadini confluiscono provenienti delle campagne per vendere il raccolto. Mi indica il terminal degli autobus dov’è arrivato per la prima volta nella capitale giamaicana quand’aveva 14 anni. «Kingston era scioccante», dice Cliff, che ora ha 64 anni e divide il suo tempo tra Giamaica, Miami e Parigi con la moglie franco-marocchina e i loro due bambini. «Sono cresciuto in un villaggio dove non c’era acqua corrente né niente, manco i negozi. Se dovevi cucinare e non avevi il sale, lo chiedevi a un vicino. Non ero abituato a gente che imbrogliava il prossimo o cose del genere».
In The Harder They Come, la prima grande produzione cinematografica giamaicana, Cliff interpreta Ivanhoe Martin, un aspirante cantante reggae che diventa un eroe criminale prima d’essere ammazzato nell’ultima scena. La prima metà è più o meno basata sulla storia di Cliff, l’ingenuo ragazzo di campagna che diventa hitmaker (Martin viene truffato e provato di tutti i suoi averi poco prima di arrivare a Kingston). Il film e la sua colonna sonora che è ormai un classico con i Maytals, Desmond Dekker e le immortali Many Rivers to Cross, You Can Get It If You Really Want e The Harder They Come di Cliff hanno fatto conoscere il reggae al resto del mondo. E Cliff incarnava il ribelle del reggae prima che quasi chiunque fuori dalla Giamaica avesse sentito anche solo nominare Bob Marley. Era l’uomo di strada, carismatico e cosmicamente funky.
Quest’estate, le vibrazioni di Cliff e di The Harder They Come stanno tornando alla grande. Sta per pubblicare il nuovo album Rebirth che ha registrato a Los Angeles con un gruppo di musicisti ossessionati dalla musica giamaicana guidati da Tim Armstrong dei Rancid. Solo quest’anno, Cliff ha suonato con Paul Simon (che spesso esegue la canzone pacifista del 1969 di Cliff Vietnam) e con la E Street Band (la versione di Springsteen di Trapped è uno dei suoi momenti dal vivo più devastanti). Ad aprile, Cliff ha suonato sul palco principale del Coachella con Armstrong e ha dato il via a un tour mondiale. «Ha scritto alcune delle più belle ballate mai uscite dalla Giamaica», dice l’amico di lunga data Keith Richards. «Canzoni imbattibili con una voce d’angelo».
Cliff mi porta nel suo studio in una strada tranquilla di Uptown Kingston. Un telecomando apre un cancello adornato con un enorme sole di metallo e due leoni di Giuda, accanto all’insegna dipinta a mano che recita “Sunpower Productions”. Parcheggia in cortile sotto un gigantesco albero di mango. I muri sono dipinti con scene della vita di Cliff e iconografia dell’antico Egitto. «Ho comprato l’albero», scherza Cliff, «l’edificio era compreso nel prezzo». Indossa una giacca a vento color kaki col colletto alzato, un elegante cappello a visiera messo al contrario, jeans e mocassini, e somiglia a com’era da giovane.
Cliff ha la fama d’essere riservato, una percezione confermata da amici e conoscenti, da Armstrong al fondatore della Island Chris Blackwell, che lo ha messo sotto contratto. Lo dice Cliff che una delle principali differenze tra lui e Marley, amici fin dall’adolescenza, era la socievolezza. «Avevamo aspirazioni, spiriti e pensieri rivoluzionari simili, ma io ero un tipo più solitario, lui invece amava esser circondato dalla gente», dice Cliff, seduto sul divano della control room dello studio. «E così attirava i buoni, i brutti e i cattivi».
Eppure a parlarci da soli, di persona, Cliff è caloroso, sprigiona fascino ride e risponde alle domande con attenzione nell’accento acquisito negli anni in cui ha vissuto nel Regno Unito, a partire dalla metà degli anni ’60. Si è trasferito a Londra su suggerimento di Blackwell e ha guidato due band R&B, Shakedown Sound e New Generation, che suonavano un mix di suoi brani ska e di soul/R&B americano. «Facevamo Otis Redding, Wilson Pickett, James Brown, Solomon Burke, qualche pezzo Motown». Cliff e i suoi giovani musicisti britannici facevano su e giù per la M1 esibendosi negli stessi club dove suonavano Jimi Hendrix e gli Who (ha aperto per entrambi). È stato allora che ha conquistato le simpatie di un’intera generazione di divinità del rock britannico, da Pete Townshend che lo guardava impaziente dal backstage a Robert Plant che ha presentato Cliff a uno showcase del South by Southwest questa primavera. «Era impressionante con le sue mosse alla James Brown», ricorda Blackwell.
Dall’altra parte dell’isola, non lontano da Montego Bay, c’è il villaggio di Somerton, dove è nato col nome di James Chambers (ispirandosi a Fats Domino, ha scelto il nome d’arte Jimmy Cliff perché rifletteva meglio le vette che intendeva raggiungere). A crescere lui e il fratello maggiore è stato il padre Victor. Era profondamente religioso e quindi il giovane James ha avuto un primo assaggio di un’esibizione musicale nella chiesa pentecostale locale. Aveva 6 o 7 anni. «La musica mi piaceva , a non piacermi erano le prediche».
Bambino in un minuscolo angolo di una remota colonia britannica, Cliff ha sviluppato un ardente desiderio di vedere le meraviglie del mondo. Passava ore a sfogliare mappe e libri, memorizzando nomi e posizioni di città, montagne, fiumi e punti di riferimento tra cui il Big Ben. «Quanto volevo vedere quel famoso orologio. E ho una passione per l’acqua forse perché sono cresciuto su un fiume, quindi il Nilo mi affascinava. Volevo andare in Cina e in India e in Inghilterra e in America, solo che non sapevo come fare».
La risposta, alla fine, è arrivata a Somerton via radio. Accanto alle star americane come Little Richard e Domino, artisti locali come il cantante R&B Derrick Morgan iniziavano a essere trasmessi alla radio AM giamaicana. Cliff ha chiesto al suo insegnante di falegnameria come fare a scrivere una canzone. «Mi disse che basta scriverla: scrivila e basta!», dice ridendo al solo ricordo. «E così ho fatto, ho semplicemente scritto una canzone». Non poteva avere un tempismo migliore: non appena ne ha scritte altre, a 14 anni ha vinto una borsa di studio per una scuola tecnica superiore a Kingston. «Avevo quattro canzoni e sapevo che quello era il posto per registrarle».
Si potrebbe dire che se non fosse stato per Jimmy Cliff, non ci sarebbe stato Bob Marley. La storia è questa: Chris Blackwell aveva un’idea per far conoscere il cantante ai fan del rock in tutto il mondo. Voleva presentare Cliff come un nuovo Hendrix, ovvero un musicista nero dal carisma supercool e pensava che The Harder They Come fosse il modo perfetto per riuscirci. Il regista del film Perry Henzell aveva visto la copertina di Jimmy Cliff del 1969 (che conteneva i successi Wonderful World, Beautiful People e Vietnam). «Mi chiamò dicendo che quello era il tipo che voleva come protagonista del film», dice Blackwell, seduto a piedi nudi sul terrazzo del suo resort da rockstar chiamato GoldenEye e costruito sulla vecchia proprietà fronte mare di Ian Fleming. «Ho detto a Jimmy che era una grande opportunità».
Prima del film, Cliff stava considerando un’offerta di 50 mila dollari per lasciare la Island. Blackwell lo ha convinto a restare, promettendo che una volta uscito il film sarebbe stato in grado di offrirgli un contratto migliore. Ma la lavorazione è durata più del previsto e Cliff è rimasto a corto di soldi. Sentendosi tradito da Blackwell, ha preso i 50 mila e ha firmato con la EMI. «Erano un sacco di soldi all’epoca», ammette Blackwell, «ma avevo investito un sacco di energie su di lui. Ero amareggiato».
Per caso, Marley è entrato nell’ufficio di Blackwell una settimana dopo e ha firmato un contratto. Mentre The Harder They Come alimentava l’interesse per il reggae in tutto il mondo, Marley ha inciso l’album dal sapore rock Catch a Fire con Blackwell, che ha mandato i Wailers a suonare nei club d’America e d’Europa. «Ho trasferito tutto il piano che avevo per Jimmy su Bob», spiega Blackwell.
Cliff dice che non è vero che Marley gli ha rubato la scena. Aveva la sua strada da fare, i suoi fiumi da attraversare, i suoi album da registrare e i suoi stadi da far tremare. Inoltre, dice, quando ha lasciato la Island Blackwell sembrava interessato più a rock band come i Traffic che alle ballate dal sapore soul e morbido che lui stava scrivendo. «Vedeva il mio lato ribelle, che era ciò che voleva vendere. Le canzoni che stavo scrivendo non si adattavano all’immagine che desiderava. Quindi ad essere amareggiati eravamo in due» (per un assaggio di quanto fosse teso il rapporto, ascolta la canzone di Cliff del 1974 contro Blackwell, No. 1 Rip-Off Man, che è tanto caustica quanto suggerisce il titolo).
Ovviamente, il talentuosissimo Marley avrebbe sfondato anche senza la rottura tra Cliff e Blackwell. Ma c’è un altro dettaglio cruciale, risalente a molto tempo prima. Cliff ha scoperto Marley quand’erano entrambi adolescenti, nel 1962. All’epoca Marley lavorava con l’amico di Cliff, Desmond Dekker, in un’officina di saldatura. Cliff e Dekker avevano entrambi singoli pubblicati dalla Beverley’s Records di Leslie Kong, e anche Marley voleva registrare le sue canzoni. «Forse c’erano pochi anni di differenza tra noi», dice Cliff. «Entrò alla Beverley’s mentre io ero lì a suonare un pezzo nuovo al pianoforte. Entrò e disse che suonava bene. Pensai: “Deve essere uno sensibile per entrare in una stanza e cogliere immediatamente il sensop di quello che sto facendo”».
Cliff ha chiesto a Marley di cantargli le sue canzoni e ne è rimasto colpito a tal punto da organizzare una session con Kong per registrarne tre, quelle che sarebbero diventate i suoi primi due singoli, One Cup of Coffee e Judge Not e l’inedita Terror «Queste tre canzoni lo riassumono come persona e artista», dice Cliff del vecchio amico, «perché One Cup of Coffee è una canzone d’amore, Terror era rivoluzionaria e Judge Not il suo manifesto: io sono chi sono e non cerco di essere nessun altro, quindi non giudicatemi».
Uno s’immagina che la prima volta che Marley – come Bob Dylan, del resto – ha fumato erba, le porte della percezione si sono spalancate permettendogli di sintonizzarsi su una frequenza musicale mai udita prima, capace di rivoluzionare un’epoca. Non è quel che è accaduto quando il giovane Jimmy Cliff ha fumato per la prima volta. È andato completamente fuori di testa. «Vicino a dove vivevo a Kingston c’era un’area chiamata Back-o-Wall. Lì viveva Prince Emmanuel, un anziano rastafariano». Un giorno il suono dei tamburi è giunto fino al quartiere di Cliff, che ha seguito il ritmo fino alla fonte. «Per la prima volta sentivo i tamburi Nyabinghi», dice riferendosi a uno stile africano di percussione cerimoniale rastafari. «È stato come un richiamo».
I rasta di Back-o-Wall hanno fatto sballare Cliff di brutto e dopo un po’ il cantante si è messo in cammino compiendo un viaggio verso casa che è diventato surreale. «Mi sembrava di camminare a dieci miglia d’altezza», dice, scoppiando a ridere all’assurdità del ricordo. «Era talmente strana quella cosa che ho pensato di sdraiarmi per vedere se riuscivo a darmi una calmata. Quando sono arrivato a casa e mi sono sdraiato, il soffitto ha cominciato a traballare e non la smetteva. Mi sono spaventato. Meglio andare in ospedale, mi sono detto. Mi sono incamminato e a metà strada ho pensato: sì, ma che gli posso dire? Così sono tornato a casa e ho promesso: Jah, questa è l’ultima volta che fumo in vita mia».
Ci fermiamo per pranzo a bordo piscina al Wyndham Hotel, una sorta di club per avvocati, medici e impiegati di ambasciate che vivono e lavorano lì vicino, con un’atmosfera alla James Bond. Mentre spizzica il pranzo – un’insalata con acciughe e una ginger beer – Cliff mi spiega un po’ la religione rastafariana. «Rastafari è, beh… puoi usare la parola mistico. È rendersi conto della capacità di sintonizzarsi con l’universo. Leggere la Bibbia interpretandola in un modo forse non molto letterale. È conoscere se stessi».
Cliff è sempre stato attratto da certi principi di quella religione, come il linguaggio basato su giochi di parole, pieno di idee che trova utili. «Puoi capire qualcosa, understand, ma puoi anche overstand qualcosa. Puoi avere l’intelletto, l’intellect, ma c’è anche l’outerlect. Cose del genere».
Da decenni ormai Cliff conduce una vita moderata, cosa che aiuta a spiegare la sua vitalità giovanile e la voce perfettamente conservata (Blackwell pensa addirittura che Cliff canti meglio ora: «Da giovane aveva una voce un po’ stridula, che col tempo si è ammorbidita»). Non gli piace darsi regole rigide. Per esempio, anche se in generale evita la carne, non rifiuta il cous cous di agnello dei parenti acquisiti nordafricani. «E ogni tanto condivido uno spliff con certi amici o bevo un bicchiere di vino o di champagne».
Nei primi anni a Kingston, però, aveva preso qualche cattiva abitudine. Oltre a fumare sigarette per socializzare in studio, ha iniziato a fumare quantità assurde di erba. «Mi piace provare le cose e sono il tipo di persona competitiva», dice. «Quelli di Toots and the Maytals mi dicevano: “Che ti succede? Perché non fumi?”. Così li ho superati tutti! Quando fumavo, lo facevo tutto il giorno e non solo spliff. Dovevo fumare il chalice (una pipa ad acqua rasta, nda) perché lo spliff non mi bastava».
Alla fine ha capito che quello stile di vita minacciava di rovinare il suo tenore cristallino. «In Inghilterra ho messo anche di bere e mi piaceva farlo prima di salire sul palco. Ho deciso che quelle cose mi facevano male e le ho eliminate dalla mia vita».
Passiamo per il viale del centro che una volta era il cuore pulsante della scena musicale di Kingston. «La chiamavamo Beat Street perché era lì che c’era il beat», dice Cliff. Nei primi anni ’60, percorreva la strada per andare a scuola: era piena di negozi di dischi ed etichette discografiche, e lui sperava che qualcuno prima o poi lo scoprisse. «Era una bella camminata, ma non mi dispiaceva. C’erano sempre file di cantanti che volevano registrare. Ogni giorno che ci passavo rappresentava un’opportunità».
Transitiamo davanti all’edificio che ospitava il famoso Studio One di Coxsone Dodd, che ha pubblicato i classici dei Wailers e di Burning Spear. Di fronte, il vecchio negozio del pioniere dei sound system Prince Buster, con i murali sbiaditi di Augustus Pablo e Dennis Brown ancora visibili. Poco dopo superiamo la Trojan Records di Duke Reid, che sembra essere ancora uno studio funzionante. «Nessuno di questi tizi mi ha mai dato una chance», dice Cliff, «forse semplicemente le mie canzoni non piacevano».
Ci fermiamo davanti allo scheletro di un edificio a due piani all’angolo, occupato da cani randagi e baracche dove fanno chissà quali lavori. Lì c’era la Beverley’s Records, dove Leslie Kong – probabilmente il più grande produttore reggae della prima era – ha registrato Jimmy Cliff, Bob Marley, i Maytals, Desmond Dekker, i Melodians e molti altri. «Una volta avevo pensato di comprare questo posto e rimetterlo in piedi, come un monumento, ma qui non succede più nulla, tutti gli edifici sono in rovina».
Nel 1962, quando Cliff è entrato per la prima volta alla Beverley’s, era solo un negozio di dischi e Kong non aveva ancora registrato nessuno. Cliff tornava da scuola quando ha notato il negozio gestito da tre fratelli cino-giamaicani e ha iniziato a elaborare in testa una canzone chiamata Dearest Beverley. «Dissi loro che avevo delle canzoni», ricorda Cliff. «E uno mi ha risposto: “Non sono nel settore”». «Ma vendete dischi, magari vi interessa entrarci, nel settore». Il più alto dei fratelli, vale a dire Leslie Kong, gli ha chiesto di cantare il pezzo. «Due dei fratelli hanno riso, ma l’altro mi ha detto che avevo la voce più bella che avesse sentito in Giamaica. È sempre di grande incoraggiamento trovare qualcuno che vede in te quel tu stesso vedi».
Kong ha registrato in studio i primi brani di Cliff, i classici ska Hurricane Hattie, Miss Jamaica e Dearest Beverley. I pezzi sono andati in radio, sono arrivati i primi concerti, Cliff ha iniziato a scrivere canzoni per altri. Nel 1964 il suo sogno d’infanzia si stava avverando. Era su un aereo per New York, per partecipare a una evento dedicato alla musica giamaicana alla World’s Fair del 1964.
Cliff ha scritto qualcosa come 300 canzoni in oltre mezzo secolo. Molte parlano d’amore, cuori infranti, bei momenti e cercatrici d’oro (è il caso di Gold Digger del 1962, in cui il giovane Cliff parla a un amico di una ragazza che “una volta ha provato a scavare il mio oro, l’ho beccata con le mani giù nei miei pantaloni”). Ma il tema dominante della musica di Cliff è il sostegno ai più poveri e vulnerabili del mondo, in particolare in Africa, nei Caraibi e in Sud America. A differenza degli appelli spesso espliciti alla rivoluzione di Marley, le canzoni più note di Cliff tendono a essere motivazionali ed edificanti, con melodie e arrangiamenti dolci e pieni di positività. «Credo ancora che you can get it if you really want it», dice Cliff, riferendosi al suo classico reso celebre da Dekker. «Ma devi creare posti di lavoro per la gente. A livello globale. Viviamo in un’epoca di cambiamenti drammatici sul pianeta. Socialmente, spiritualmente, politicamente, ecologicamente, tutta la situazione cosmica sta cambiando».
Ci dirigiamo verso il quartier occidentale di Kingston chiamato Denham Town, vicino al Trenchtown di Marley. Cliff viveva in un angolo della baracca di un’unica stanza di sua zia e suo zio, ed era così povero che non poteva permettersi dei pantaloni lunghi. «Serve meno stoffa, ma a scuola mi prendevano in giro perché portavo ancora i calzoni corti».
Fino a poco tempo fa, questa era una delle zone urbane più pericolose del pianeta. Nel 2010 la polizia e l’esercito giamaicani (con l’appoggio dei servizi statunitensi) hanno preso d’assedio il complesso residenziale di Tivoli Gardens, costruito sul vecchio sito dell’accampamento rasta di Back-o-Wall, per catturare Christopher “Dudus” Coke, un signore della droga che comandava un esercito di gangster giovanissimi ed estremamente violenti (e le cui opere di beneficenza, come pagare l’elettricità del quartiere, lo avevano reso una sorta di fuorilegge-eroe alla Ivanhoe Martin per molti residenti di West Kingston). Coke è stato arrestato cinque settimane dopo e almeno 73 civili sono stati uccisi durante l’assedio. È stato poi estradato negli Stati Uniti e nel giugno di quest’anno condannato a 23 anni per traffico di droga. «Tutto questo era il territorio di Dudus», dice Cliff, fissando la strada. «Ma era anche dove mi muovevo io».
Ora le cose sono più tranquille: mentre hip hop e dancehall risuonano dalle auto di passaggio, Cliff accosta al 63 3/4 di Spanish Town Road, che segna l’ingresso di un vicolo pieno di baracche di lamiera ondulata e compensato dai colori vivaci. Scendiamo dalla BMW e un gruppo di adolescenti s’avvicina offrendosi di sorvegliare la macchina e di farci da guida. Non si capisce se sanno chi è Cliff, di sicuro sanno che è qualcuno e le persone che sono qualcuno non le si vede spesso a Denham Town.
Un ragazzo che sembra il capo e che indossa una camicia rosa elegante e grossi orecchini di diamante alle orecchie conduce Cliff tra le baracche strette lungo un sentiero fangoso. Si ferma a salutare un gruppo di residenti più anziani tra cui una donna con uno canna enorme che si illumina nel vedere la grande star del reggae. Ci inoltriamo oltre, passando bambini piccoli che tornano da scuola in uniformi immacolate, quando improvvisamente Cliff riconosce una baracca blu minuscola e non esattamente impermeabile. È grande più o meno come una capsula spaziale Apollo, senza acqua corrente, né elettricità. «Questa era casa mia», dice, fissando quello spazio buio e scarsamente arredato. «Dormivo proprio laggiù in fondo». Sente l’energia del posto per qualche minuto, poi torna verso l’auto.
Quando arriviamo alla macchina, Cliff ringrazia le nostre guide e tira fuori un grosso rotolo di banconote. «Chi di voi è il capo?», chiede. Il ragazzo con la camicia rosa si fa avanti. Cliff stacca diverse banconote da 1000 dollari giamaicani (circa 11 dollari l’una) e gli dice di usarle per comprare da bere agli altri. Poi dà un’altra banconota a ciascuna delle cinque o sei mani tese, risale in auto e si dirige verso uptown.
Molte cose accadono nel primo viaggio di Cliff a New York: Blackwell è alla World’s Fair e vede esibirsi per la prima volta Cliff. Il quale, intanto, vive una delle esperienze musicali più importanti della sua vita andando fuori di testa vedendo James Brown all’Apollo. «Amici miei lavoravano sulle navi da crociera e tornavano raccontandoci di aver visto James Brown o Martha and the Vandellas lì», ricorda Cliff. «Così quando sono andato a New York la prima cosa che ho voluto fare è stata andare all’Apollo».
Fuori dal teatro, danno a Cliff un giornale chiamato Muhammad Speaks. Lui che era già interessato a Malcolm X, è andato al Temple No. 7 di Harlem e lì ha incontrato Louis Farrakhan. «Per un certo periodo ho fatto parte della Nation of Islam», una scelta accolta con derisione dalla stampa e dai musicisti giamaicani. «È stata una cosa enorme», ricorda. «Tipo: “Ma che ci fa Jimmy laggiù? Dovrebbe stare qui”. Ma, sai, era il percorso che dovevo fare».
Cliff non aderisce più a nessuna fede formale, ma è sempre stato un ricercatore: ha trascorso del tempo in un ashram in India, ha adottato e poi abbandonato una forma più tradizionale di fede islamica in Africa, ha studiato il kung fu Shaolin con due diversi maestri. La sua identità così difficile da definire probabilmente lo ha penalizzato tra i fan americani del reggae, insieme ai dischi che si sono via via allontanati dal sound roots reso popolare da Marley. Negli anni successivi a The Harder They Come, Cliff è diventato un artista da stadio dalla Nigeria al Brasile, mentre negli Stati Uniti la sua leggenda sbiadiva. Ha avuto occasionalmente successo come quando ha recitato nel film del 1986 Club Paradise con Robin Williams o quando la versione di Trapped di Springsteen è stata inclusa nella compilation We Are the World. Ma all’inizio degli anni 2000, lui e l’America si erano allontanati. «Avevo un agente che in pratica mi ha sottratto un sacco di soldi», dice Cliff degli anni in cui ha smesso di andare in tour negli Stati Uniti. «Volevo tornare in modo organizzato».
Dopo l’ingresso nella Hall of Fame, il momento sembrava giusto, ma mancava una cosa per rilanciarsi sul serio: «Mi serviva un disco buono».
«Com’è stato, divertente?», chiede Tim Armstrong. Ha il fiato corto ed è vestito con un completo nero taglio anni ’60 e un fedora inclinato per mostrare un pezzo di cuoio capelluto tatuato. «Jimmy è forte, eh?». È la sera di aprile prima del primo weekend del Coachella, e gli Engine Room, assemblati da Armstrong per accompagnare Cliff nel nuovo album, hanno appena fatto una prova generale ad altissima energia in uno studio grande come un hangar a North Hollywood. «Adora esibirsi», dice Armstrong, scuotendo la testa ammirato. «Dà tutto, che suoni davanti a tre o a 30 mila persone».
Pochi minuti prima, Cliff – con un’altra giacca a vento figa e un berretto a visiera coordinato – saltava, piroettava, camminava come Chuck Berry e faceva mosse di kung fu durante il set, con Armstrong e gli Engine Room alle sue spalle. Dai brani come Afghanistan (una versione contemporanea di Vietnam) a una cover energica e muscolosa di Ruby Soho dei Rancid, il suono è puro Leslie Kong: basso chunk-a-chunk, organo Hammond, fiati solari, cori alla Showtime at the Apollo e Armstrong che pizzica la sua splendida Gretsch malconcia. «Questi ragazzi sono dei matti totali», dice “Native” Wayne Jobson, dj reggae amico di Cliff dai vecchi tempi (è anche un vecchio amico di Keith Richards ed è co-produttore dei due dischi deep roots reggae di Richards con gli Wingless Angels). «Questo pazzo punk può dirti quale amplificatore e quali corde sono stati usati nel 1968 ai Treasure Island», dice, ancora sbalordito dalla performance che ha appena visto. «I ragazzi in Giamaica non lo sanno più. Conoscono la dancehall e un po’ di reggae, ma non il rocksteady».
È una settimana fredda, umida, deprimente a Los Angeles, ma quando la band attacca la versione di Cliff del classico di Johnny Nash I Can See Clearly Now e il cantante fa partire un “briiight sunshiny day” degno dei cancelli del paradiso, sembra che la Terra si sia improvvisamente spostata un po’ più vicino al centro del sistema solare. Appena la canzone finisce, Cliff chiede di fare The Harder They Come. La band riparte e io sento un’ondata di serotonina irradiarsi dalla base del cranio, il tipo di felicità pura che ti porta a pensare che viviamo in un mondo meraviglioso e pieno di persone splendide, nonostante la realtà ci dica tutto il contrario. «Spero che domani piova», dice Armstrong uscendo dallo studio. «E che smetta proprio mentre facciamo I Can See Clearly».
Il desiderio di Armstrong viene esaudito a metà. Il pomeriggio successivo, per la prima volta nella storia del festival, al Coachella piove e il grande impianto del palco principale oscilla minacciosamente nel vento. È praticamente il clima meno reggae possibile a parte una bufera di neve, e di fronte al palco c’è pochissima gente. Il set di Cliff è previsto per le 17:10, ma quando l’ora arriva e poi passa, sul palco ci sono solo tecnici che indicano con aria preoccupata le impalcature e discutono animosamente mentre il vento aumenta di intensità.
Finalmente, con 20 minuti di ritardo, Cliff e gli Engine Room appaiono sul palco davanti a a un pubblico sparuto. Dopo tutto il tempo passato assieme e sapendo quanto potrebbe essere incredibile lo show, mi si spezza il cuore per lui. Poi però accade qualcosa di magico. Quando gli Engine Room attaccano You Can Get It If You Really Want, i fan iniziano a spostarsi in massa dal palco vicino, dove sta suonando una qualche band di moda. Si lasciano alle spalle il boom boom apocalittico della dance tent, le attrici di serie B nella zona vip e i beer garden. Cliff, col suo spettacolare completo oro e nero e una fascia da testa vagamente alla Karate Kid, comincia a ridere felice mentre il pubblico sempre più folto risponde con un boato quando lui urla: «How you feeeeeeelin’?».
All’improvviso si sente l’odore della cannabis e un tizio apparso dal nulla sventola un’enorme bandiera giamaicana. Quando Cliff intona Many Rivers to Cross sono circondato da un sacco di gente totalmente, completamente, del tutto esaltata che si scalda alla sua luce. La pioggia non smette di cadere, ma non importa più perché Jimmy Cliff sta cantando I Can See Clearly Now e sta per suonare The Harder They Come. E almeno per ora c’è tutto il sole di cui abbiamo bisogno.
Da Rolling Stone US del 5 luglio 2012.













