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Il San Valentino a cristalli liquidi di Laurie Anderson

‘Mister Heartbreak’ compie 40 anni. Appunti per il recupero di un disco sospeso fra ipertecnologia e primitivismo, una sorta di audiolibro d’avanguardia che ha previsto il nostro mondo ultradigitalizzato

Foto: LGI Stock/Corbis/VCG via Getty Images

Si parla molto di omologazione in musica e di come oramai la creatività sia un accessorio, una cornice nella quale è inserito il marketing: un aspetto che non coinvolge solo il pop, ma anche e soprattutto le cosiddette zone alternative o sperimentali. Trovare personalità capaci di sfuggire a qualsiasi etichetta è molto difficile. Ma c’è chi è riuscito (e riesce ancora dopo anni) a essere indefinibile.

Uno degli esempi lampanti è quello di Laurie Anderson. Premiata nel 2024 con il Grammy Lifetime Achievement Award, Anderson ha indubbiamente molti meriti (tra i quali grandissime invenzioni come il tape bow violin, un violino con l’archetto fatto di nastro magnetico), ma possiamo tranquillamente concentrarli in uno: quello di essere riuscita a trasformare la performance art in musica pop. Perché quello che fa Anderson non può essere confinato in un discorso meramente musicale: è un happening per le orecchie ma soprattutto per lo spirito, è un ponte immaginario che unisce spoken word, poesia sonora, avanguardia sperimentale, new e no wave, esotismi di stampo world, elettronica pura e semplice, operetta, salmi religiosi, racconti popolari, e potremmo andare avanti a lungo.

Non ha confini specifici e per questo si percepisce un flusso ininterrotto: è come se le sue composizioni si muovessero sul palcoscenico della nostra immaginazione, quasi esseri viventi. Sembrano a volte cellule elementari, apparentemente è facile catturarle ma nel momento stesso in cui le hai nel retino, come farfalle spiccano il volo menandoti per il naso. Esiste un disco che forse più di tutti riassume la pratica andersoniana che abbiamo appena descritto e che festeggia il 40eismo anniversario a ridosso del Grammy appena ricevuto. Si tratta di Mister Heartbreak, uscito nel giorno di San Valentino del 1984 (mai titolo di album fu più appropriato).

Big Science, l’album di esordio della Anderson, una selezione musicale della sua performance United States Live, era stato un caso: una roba avanguardista di quel tipo normalmente non sarebbe uscita dalla nicchia di pochi esperti, e invece eccola qua che scala le classifiche inglesi, sale nella top 200 americana, e il singolo O Superman con quel vocoder improbabile, monocorde e spettrale arriva al secondo posto nel Regno Unito. Potrebbe essere un miracolo, ma non è esattamente così: Anderson ha la capacità di approcciarsi a certe materie sulla carta anguste con la leggerezza ludica di chi sta raccontando una favola eterna. Come tutte le favole, la sua è seria non tanto per il contenuto ma proprio in virtù della sua capacità di incantare: e Anderson è una pifferaia magica che in un certo senso ipnotizza l’ascoltatore (il singolo sopraccitato è un potente esercizio in questo senso).

Con Mister Heartbreak forse si tocca la sintesi perfetta, l’anello mancante tra musica e non musica, tra ipertecnologia e primitivismo folklorico, con la conferma di un recitar cantando che se appunto è eredità della musica scritta (il cosiddetto Sprechgesang), vero è che la rielabora secondo una dimensione jazz/ambient, trasformandolo in una cosa per tutti. Non a caso Mister Heartbreak è tra i più venduti del suo catalogo, soprattutto negli Stati Uniti che avevano precedentemente accolto l’artista in maniera tiepida. È fondamentalmente un audiolibro d’avanguardia, una fiaba moderna per adulti immersi in vasche di silicio. Si parte con la storia di Sharky, un personaggio che come in un flusso di coscienza viene mosso dalle cose e sensazioni che incontra lungo la strada, soprattutto quelle apparentemente più quotidiane, insulse, per andare a finire senza soluzione di continuità nel secondo brano, Langue d’amour, in un’isola simile al giardino dell’Eden dove pasce un serpente con le gambe (con la narrazione che vira verso un sensuale vocoder in lingua francese), e via di questo passo canzone dopo canzone. Ci sono momenti come Gravity’s Angel, una versione liofilizzata del libro Gravity’s Rainbow (L’arcobaleno della gravità) di Thomas Pynchon, Kokoku in giapponese mistico, Blue Lagoon con testo tratto dalla Tempesta di Shakspeare e da Moby Dick di Melville, con campioni di fonemi a farla da padrone.

È il racconto della nostra vita in cui, parafrasando appunto la prima traccia, “mi giro intorno ed è paura, mi giro ancora ed è amore”. È un flusso di coscienza che oltre ad essere letterario è soprattutto sonico, inafferrabile ma nello stesso tempo efficacissimo e concreto. Tra effetti speciali, sapienti dilatazioni ritmico-spaziali, un uso massiccio e spensierato del Synclavier, all’epoca avveniristico campionatore (Mister Heartbreak è il secondo esempio di utilizzo di tale macchina nella discografia di Anderson), che riesce a riprodurre perfettamente i suoni tropicali quanto urbani che tempestano il disco, oltre a quella patina digitale che si scioglie come ghiaccio nel bicchiere di whisky della musica analogica.

Col passare del tempo, quello che veniva indicato come il punto debole dell’album, cioè il fatto di avere dei suoni datati, si è manifestato come la sua forza. La previsione della Anderson di un mondo ultradigitalizzato e presettato (quello che alla fine era alla base del concetto di Big Science) si è avverata lungo la strada e oggi ci troviamo immersi nei cristalli liquidi senza neanche farci caso. Questo comporta che l’ascolto di Mister Heartbreak sia come entrare in una macchina del tempo, un ritorno al futuro che piazza Anderson nella falla temporale dell’HD anni 2000, del ritorno del campionamento a pioggia, dei nuovi esotismi digitali, di una scorribanda infinita di dati sonori randomici che ha visto crescere personaggi come Holly Herndon o i Visible Cloaks, una Lucrecia Dalt come una Kaitlyn Aurelia Smith, per non parlare dell’uso ritmico dei campioni speech nel footwork di Jlin.

Ecco che allora Mister Heartbreak ci parla del nostro presente da un lontano passato archetipico, quasi mitologico: è un rimanere fermi in una vibrazione di stringhe, è un mondo parallelo che ci osserva avvicinandosi mentre noi ci allontaniamo sempre più. E non si tratta di un disco solipsistico, come si potrebbe immaginare di un prodotto arty, tutt’ altro.

Uno degli aspetti più importanti di Mister Heartbreak è senza dubbio la presenza di collaborazioni di tutto rispetto. Gli occhi sono stati puntati solo sulla comparsata di William Burroughs, che recita con la sua voce da wild boy Sharkey’s Night, che chiude il disco come un uroboro, forse indicando che il concept dell’album sono le fantasticherie a ruota libera di questo personaggio che potremmo tranquillamente essere noi stessi, o su quella di Peter Gabriel in Excellent Birds (poi ripresa con titolo diverso in una versione del suo disco solista So), artista che in quel periodo stava sperimentando a sua volta con campionatori e sequenze di etnomusica (e che nei solchi di Mister Heartbreak si presta a varie backing vocals).

C’è anche Adrian Belew che si esprime con chitarre che oramai dello strumento hanno solo il nome (imitando qualsiasi tipo di suono, finanche i versi degli animali). Oltre ad essere colonna portante dei King Crimson degli anni ’80, è anche in quel periodo il braccio destro dei Talking Heads, dei quali si percepiscono le vibes. C’è anche Sang-Won Park, coreano virtuoso del kayagum e cantante sopraffino nell’improvvisazione vocale (non a caso collaborerà con Derek Bailey), la grandissima cantante jazz-blues Phoebe Snow, la performance artist Atsuko Yuma. E ancora, Bill Laswell, mago del basso e capoccia dei Material (che si distingue all’epoca per le relazioni e le produzioni musicali doc tra i quali Herbie Hancock, Nona Hendryx e Fred Frith), Anton Fier, batterista dei Golden Palominos, Daniel Ponce, percussionista di Rock It di Hancock, David Van Tieghem, grandissimo esponente del progressive electro autore di un disco fotonico come These Things Happen, e dulcis in fundo Nile Rodgers degli Chic che piazza la sua chitarra di plexiglass in Excellent Birds, a fare il paio col violino sempre di plexiglass di Laurie.

Con una line up di questo tipo è impossibile fare un disco che non colga nel segno, poiché non si tratta di meri feat, ma di pezzi di un puzzle che sono perfettamente incastrati tra loro. Tanto che senza Mister Heartbreak non potremmo concepire una fucina d’idee collettiva come è il successivo Home of the Brave, che nel suo essere la summa dell’arte di Anderson nasce come un live promozionale di Mister Heartbreak nel quale trovano posto, as usual, stralci della sua sovraccitata United States (1983) già in parte disseminati in Big Science e in Mister Heartbreak. Ma rispetto a quest’ultimo, Home of the Brave non riesce a stare in piedi senza l’apparato performativo (nasce in effetti come colonna sonora dei filmati dei live). Ecco perché Mister Heartbreak ha equilibrio più unico che raro.

La cosa vale anche per la copertina, che di sicuro nella sua collage/computer art pionieristica quanto naïf è diventata un punto di riferimento per la vapor che verrà e non solo un semplice packaging. Tra il minimale e l’infantile, rappresenta lo specchio delle menti umane che nell’era della tecnologia si stanno riformattando verso qualcosa di elementare, quindi spaventoso quanto – appunto – colmo d’amore. Siamo tutti Sharkey, in fondo, persi “deep in the heart of darkest America”.

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