Che il rap sia, per antonomasia, un genere che si parla addosso è qualcosa di cui siamo apertamente al corrente. “Fare rap che parla di rap e parlare alla gente che ascolta rap è un controsenso, come se i libri parlassero di libri, e d’ogni foto stampassimo i negativi”, rappava Ghemon prima di una delle sue fughe dal genere in Niente può fermarmi, Anno Domini 2006. Nell’ultimo anno e mezzo, ovvero dalla reunion dei Club Dogo di inizio 2024, al parlarsi addosso si è però aggiunta una nuova (e altrettanto preoccupante) attitudine nella comunità hip hop: la nostalgia.
Gli ultimi mesi sono stati piuttosto intensi per i nostalgici del primo rap italiano. L’anno ha difatti inaugurato con un cortocircuito importante: Sanremo. Sul palco dell’Ariston – che storicamente non ha buon feeling con il mondo hip hop – si è presentato Shablo accompagnato da due figure storiche del genere come Guè e Tormento, il primo di ritorno dopo precedenti apparizioni nelle serate cover, il secondo alla terza presenza dopo quella a nome Sottotono nel 2019 come ospite di Livio Cori e Nino D’Angelo e l’esordio nel 2001 diventato celebre per il violento alterco con Valerio Staffelli di Striscia la Notizia che portò poi inesorabilmente allo scioglimento del duo.
Proprio nella serata cover di quest’anno, però, il cortocircuito: sul palco si ritrovano i due grandi rivali degli anni ’90, Neffa e Tormento, l’underground e il pop, a celebrare la storia dell’hip hop made in Italy con due pietre miliari di quegli anni, Aspettando il sole e Amor de mi vida. Quello che sembrava un semplice omaggio alla storia, però, si è presto rivelato essere una premonizione.
Proprio Neffa, post-Sanremo, è tornato a pubblicare un disco rap dopo un’attesa lunga 25 anni e «dieci anni di cancro alla felicità», come ci ha raccontato nella cover story a lui dedicata. Il primo avvicendamento era avvenuto qualche mese prima nel 2024, in Fogliemorte con Fabri Fibra, ma è proprio dopo Sanremo che il cantante è uscito allo scoperto annunciando Canerandagio Pt.1, il vero ritorno del guaglione sulla traccia dai tempi dell’EP Chicopisco del 1999. E poteva questo disco non rifarsi in qualche modo alla nostalgia? Eccoci allora servito Hype (nuoveindagini) con Fabri Fibra, che chiude un cerchio aperto nel 2002 con Turbe giovanili, il primo album solista del Fibroga. Backstory: Neffa dopo Chicopisco decide di chiudere la sua parentesi con l’hip hop, lasciando in omaggio a Tarducci i beat che daranno forma alla sua prima avventura solista. Turbe giovanili apre Scattano le indagini, il cui sample è riutilizzato da Neffa proprio per la produzione di Hype (nuoveindagini), come parentesi vuole sottolineare.
Passano meno di due mesi e questa volta è proprio Fibra a ripescare dal proprio passato. Per il suo ultimo disco, Mentre Los Angeles brucia, il rapper decide di affidare la chiusura – la oramai celebre traccia n. 17 – al remake di uno dei suoi più grandi successi periodo Uomini di Mare, Verso altri lidi. Già re-inserita nella scaletta live da qualche anno, Fibra porta sulle piattaforme di streaming una versione riarrangiata del brano che, nella sua versione originale – costruita attorno al sample di Is There Anybody Out There? dei Pink Floyd – non potrà mai vedere la luce per problemi di copyright. «Mi andava di rifarla perché alla fine il pezzo è mio e lo rifaccio come cazzo voglio» ci raccontava qualche giorno fa nella nostra cover story appena prima della release. È dovuto arrivare a quasi 50 anni Fibra per decidere di ritrovarsi con questo successo dell’underground uscito nel lontano 1999: e pensare che ai tempi di Mr. Simpatia, nel 2004, rappava “ho avuto pure un figlio ma l’ho fatto ammazzare / perché sperava che facessi un altro Uomini di Mare”. Dopo l’abbandono della scena di pessimi massimi come Neffa, Fede e Fritz Da Cat di inizio millennio, nel rap italiano del 2006 non c’è tempo di guardare al passato: bisogna avere coraggio, e riconquistare il mercato da un punto morto. Il rap, in quel momento storico, deve inventarsi il proprio futuro.
Non c’è Fabri Fibra, ma c’è Neffa, e pure Ghemon e Tormento, nel team di rapper che DJ Shocca ha voluto per 60 Hz II, il seguito del suo storico album del 2004, un faro che ha tenuto in vita l’hip hop italiano in un’epoca storica definita dallo stesso Fibra «il vuoto totale dopo la golden age». Già dal titolo, 60 Hz II è un’operazione nostalgia. Sfogliando la tracklist si percepisce infatti la volontà sfaccia di RocBeats di riportare in auge un proprio passato. Il disco, infatti, è colmo di parti due, ovvero di brani che ripartono dal beat originale dell’epoca per darne una nuova versione contemporanea. Per i fan della doppia H sentire titoli come 60 Hz II, Rendez vous col delirio II (coi Club Dogo), Notte blu II (nell’originale del solo Frank Siciliano, qui con Gemitaiz e Ernia), Ghettoblaster II (con Stokka e Madbuddy oggi raggiunti da Jake La Furia e Izi) e Sempre grezzo II (del compianto Primo, rivisitata qua da Tormento e Egreen) farà scorrere un brivido lunghissimo a metà tra il dolce ricordo giovanile e il terrore adulto di veder disonorata la storia.
L’esercizio stilistico di Shocca è riplasmare il (suo) passato del rap italiano creando un dialogo diretto con ciò che fu, trasformando vecchie strofe in scratch (come nel finale di Rendez vous col delirio II e Notte blu II), interludi in pezzi veri e propri pezzi (“Roc ti giuro ti ringrazio / rappo su sto interludio dal 2004 / 20 anni dopo sono in studio per firmarti un classico” come fa notare Ensi in How We Roc, facendo riferimento a Quattro, interludio strumentale nel primo episodio di 60 Hz) e portando i rapper a boxare con l’ombra del proprio passato tra strofe e ritornelli ripresi alla lettera dalle versioni originali (accade in tutte le versioni II). E fa strano in apertura del disco sentire Madbuddy lanciarsi in “Odio i rapper bloccati nel passato perché i ricordi sono come un sentiero di vetri rotti”.
Simon Reynolds ha spiegato molto bene questa tendenza contemporanea coniando il termine retromania, ovvero l’idea che la cultura pop – tramite remix, ristampe, sampling e revival – sia ossessionata dal proprio passato al punto da diventare incapace di produrre qualcosa di davvero nuovo. «Viviamo in un’epoca pop impazzita per il rétro e ossessionata dalla commemorazione. […] Il pericolo è che potremmo esaurire il passato stesso», scrive nel suo celebre saggio Retromania del 2011, in cui la nostalgia diventa qualcosa che paralizza e la retromania è il sintomo della difficoltà della modernità nel pensare il futuro. Se per gli Uomini di Mare nel 1999 Il domani è oggi, per il rap italiano il passato è oggi.
E se anche le nuove generazioni – vedi Santana Money Gang di Sfera Ebbasta e Shiva con le continue citazioni a Club Dogo (Guè inoltre ha di recente pubblicato KG Anthem con Rasty Kilo, una riedizione di Zona Uno Anthem del 2010) e Marracash – iniziano a ripescare dal passato perdendo il furente approccio iconoclasta, rifacendosi direttamente ai padri (vedi che anche la volontà di Salmo di avere una figura storica come Kaos come unico featuring nel suo ultimo disco Ranch), forse l’idea di futuro portata avanti dal rap si è inceppata. Non è un caso che oggi molti della next gen – Ele A, Nerissima Serpe, Kid Yugi – abbiamo lasciato da parte la trap per tornare proprio a rappare, come si faceva una volta, rima su rima, barra dopo barra.
Se questa nostalgia sarà solamente una fase ciclica, una moda che ritorna a 20 anni dagli originali, o qualcosa che si è inserito in modo metastatico nello strato sottocutaneo del rap italiano lo scopriremo ben presto. Nel primo caso parleremo di un omaggio ai sopravvissuti alla storia gloriosa della golden age. Nel secondo della fine della spinta propulsoria di quella che sempre Fibra ha definito «l’unica rivoluzione musica italiana». La sensazione, se dovessimo scommettere i celebri due centesimi, è che anche il suono della strada è stato inghiottito dal suo stesso passato.