Never Enough dei Turnstile è uscito venerdì dopo mesi di attesa, chiacchiere e gossip sulla possibilità o meno che questo disco, il quarto per la band di Baltimora, rappresentasse il momento in cui l’hardcore diventasse — ahem — mainstream. In un’epoca in cui anche l’urgenza è strategia di comunicazione e i breakdown possono finire nei reel con i sottotitoli motivazionali, Never Enough è arrivato con la forza di uno slogan generazionale e la fragilità di una strategia fatta per esplodere nell’istante, consapevoli ormai che il difficile arriva dopo.
La strategia di costruzione di questo “inevitabile grande salto” ha interessato gli appassionati da mesi. I titoli qui e là hanno tracciato il percorso. I Turnstile sarebbero stati il gruppo su cui puntare nel 2025, riportando concetti come sincerità, emozione, urgenza dentro un contenitore inedito oltre la cerchia degli appassionati. In una parola hardcore. Poi certo il discorso è più complesso di così, ma iniziamo da qui così ci capiamo.
Prima di tutto il contesto. I Turnstile vengono da Baltimora, una città che dista 60 chilometri da Washington D.C. e che secondo le logiche degli americani, ne fanno un’unica area urbana. La band si inserisce quindi in un contesto che l’hardcore punk non solo ce l’ha nel DNA, ma lo ha visto nascere e quindi chi arriva da lì deve fare giocoforza i conti con una storia che include gente come Fugazi e Bad Brains. Dopo una gavetta fatta di tanti concerti che li hanno portati a essere una sorta di bandiera locale (in un recente video che hanno pubblicato su YouTube li si vede suonare davanti a una folla in un parco della loro città natale), i Turnstile hanno iniziato a far parte del giro grosso.
Never Enough da questo punto di vista prosegue il lavoro iniziato con Glow On del 2021. Dischi dove le connotazioni di genere servono come punti di partenza e i dischi diventano anche lavori di sperimentazione in salsa “pop”. Per alcuni è un male, soprattutto se si fa riferimento a concetti di ortodossia punk e cose del genere. Il disco però funziona benissimo, pure troppo. Ogni secondo sembra voler comunicare perfettamente quello che vuole dire. No seconde letture. No significati nascosti. No stratificazione. In più una produzione che sembra più vicina agli M83 che non, tipo, ai Refused (per dire di un gruppo hardcore che flirtava con più generi). Parti mosse, riff molto puliti, aperture melodiche da pop-punk terapeutico, e quella voglia di dire “ce la possiamo fare” anche quando l’unica cosa sensata sarebbe arrendersi.
C’è un’idea epica dentro questo disco e non è la prima volta ovviamente che il genere si avvicina all’epica. Prendere, se vogliamo essere bravi, gli …And You Will Know Us by the Trail of Dead oppure, se vogliamo essere meno bravi, i My Chemical Romance. Più di tutto, in Never Enough c’è quella fame di totalità che appartiene a questi anni: un disco come moodboard, come archivio aperto di riferimenti, senza gerarchie. Hardcore, emo, ambient, featuring giusti (da Shabaka a Hayley Williams dei Paramore), passaggi che potrebbero piacere agli ascoltatori dei 1975 con la maglietta degli Slayer presa da Primark.
La sensazione strisciante è che dietro i motivi del funzionamento di Never Enough ci sia proprio questa aderenza al “gesto”, alla “stilizzazione” che in sé racchiude un po’ tutto il discorso. Funziona perché arriva a chi non sa e forse non vuole sapere. E qui entra il punto per cui a molti questa operazione non andrà giù: nessuno si farà una cultura ascoltando i Turnstile. Nessuno finirà a recuperare i Fugazi o gli Hüsker Dü. E forse è proprio questo il motivo del successo: non c’è bisogno di sapere niente. Non c’è un prima. Non c’è un dopo. C’è solo adesso.
In un certo senso, Never Enough è un disco perfetto per l’epoca. Non perché sia epocale, ma perché riflette l’impossibilità di scegliere cosa lasciare fuori. È un frullatore sonico, abbastanza energico e grandemente impaziente, che prende tutto quello che può e lo restituisce a raffiche. Nessuna sintesi. Nessun rigore. Un bombardamento estetico a bassa intensità. Ma in un’epoca dove la coerenza viene vissuta come rigidità, questo caos funziona come segnale di vitalità, freschezza e ambizione. Non è necessariamente un male. Ma è il segno che le vecchie lenti – storiche, critiche, persino affettive – stanno diventando inadatte a leggere il presente.
E allora sì, prepariamoci: li vedremo ovunque. Festival, pubblicità, palchi grossi. Diventeranno la band hardcore per chi l’hardcore l’ha solo sentito nominare. E al recente Primavera Sound nonostante un set piazzato alle 3 del mattino (forse per permettere loro di arrivare direttamente da New York dove avevano la conferenza stampa di presentazione del disco) hanno attirato un sacco di gente che pogava come se stessimo effettivamente vedendo filmati d’epoca dei Black Flag. Segno che la cosa funziona ed è anche sentita.
I Turnstile non vengono dal passato. Non parlano al futuro. Parlano a una timeline senza memoria e senza direzione. Forse sarà la band di questi anni, forse è tutta una gigantesca presa in giro e tutto si sgonfierà. Sta di fatto che chi li vede dal vivo resta impressionato dalla potenza, dall’intensità e dalla fisicità che trasmettono. Qualcosa che è sì retaggio di una storia, ma che comunica ben oltre il contenitore-disco anche e soprattutto a chi questa storia non la conosce e non l’ha mai intercettata. Considerando il bisogno che abbiamo di luoghi fisici, spazi di incontro e una musica che comunichi anche a questo livello, potrebbe essere questo l’elemento aggiunto che portano i Turnstile, quel ritorno a una togetherness di cui c’è un disperato bisogno.