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I Red Hot Chili Peppers sono ancora i più fighi di tutti

Nel nuovo ‘Unlimited Love’ non c’è la nuova ‘Scar Tissue’ e neanche i pezzi tiratissimi per compiacere i vecchi fan. È il disco di una band sempre più malinconica ma fedele alla sua identità, mai patetica o derivativa

Foto press

Quando venne ufficializzato l’ennesimo ritorno di John Frusciante nei Red Hot Chili Peppers, pensai che questa volta i rischi avrebbero potuto essere potenzialmente essere superiori ai benefici. Così, in mezzo all’euforia generale di amici e colleghi, mi ritrovai a pensare: Ma davvero ci stiamo entusiasmando così tanto per una cosa già avvenuta una volta e che, probabilmente, aveva già esaurito in quell’occasione gli ultimi lampi di genialità? Ci è rimasto così poco, da esultare per la riproposizione di uno schema già visto alla fine dello scorso millennio?.

Sì perché a gioire così non potevano che essere gli stessi che l’avevano fatto più di vent’anni fa o, al massimo, la loro casa discografica. Una cosa solo ed esclusivamente per nostalgici. Insomma, temevo che i miei quattro disadattati preferiti potessero finire per scimmiottare semplicemente sé stessi, con l’aggravante di non avere più una quarantina d’anni, ma ormai sessanta. Per altro, pur essendo un estimatore assoluto di Frusciante, devo ammettere di aver sempre apprezzato gli album dei Red Hot senza di lui. Al di là di One Hot Minute, finalmente riconosciuto come uno dei loro grandi lavori, ho sempre pensato che anche il lungo periodo con Josh Klinghoffer fosse servito non poco alla band. Innanzitutto a sopravvivere, ma non solo. Se col senno di poi, I’m With You appare oggi come il tentativo di rimanere attaccati alla vita facendo leva sulle proprie certezze, il successivo The Getaway aveva aperto nuove vie, mostrato una maturità e una voglia di andare un po’ oltre i cliché musicali e di produzione cui eravamo abituati. E quello mi era piaciuto molto. Ecco il perché delle mia paure.

Perché ritornare indietro proprio ora? Persino le interviste e le dichiarazioni che avevano preceduto la nuova uscita mi erano sembrate troppo belle per non apparire come ennesimi cliché da volemose bene e amore senza limiti. «Prima di tutto ci siamo messi a jammare su vecchi pezzi, anche precedenti all’entrata di John nel gruppo. Oltre a tante cover, dal blues ai New York Dolls», hanno raccontato. «Quando io e Anthony abbiamo iniziato parlare di un ritorno di John in gruppo, anche lui a distanza stava pensando le stesse cose». Tutto bellissimo, ma continuavo a leggerlo nello stesso modo. Anche il ritorno di Rick Rubin mi preoccupava, perché un po’ come lo stesso Frusciante, pensavo che Stadium Arcadium avesse sancito in qualche modo la fine di quei Red Hot: troppo materiale, troppa poca omogeneità, troppo tutto. Proprio per questo, quando ho sentito Kiedis parlare di cento brani registrati per Unlimited Love ho tremato. Invece, mi sono bastate metà delle tracce del disco per capire che i Red Hot mi avevano fottuto nuovamente. Io che partivo con tutto quello scetticismo mi sono sciolto quasi subito, gettando al rogo i miei pregiudizi. Mi sono reso conto che questa band è riuscita in dove la maggior parte dei loro coetanei ha fallito: restare sé stessi senza diventare patetici o ultra derivativi.

Soprattutto, però, ho compreso perché non ci può essere altra formazione se non questa. E non si tratta di sound, di singoli o di retromania. Qui parliamo di qualcosa di più alto. Non servono nemmeno più i singoloni ai Red Hot, infatti nelle 17 tracce di Unlimited Love non c’è la nuova Under The Bridge, non troverete una Scar Tissue o il pezzone tiratissimo utile ai vecchissimi fan per dire: Quando facevano ste cose erano proprio fighi.

C’è un gruppo di amici, in cui l’elemento malinconico è sempre più presente, a cui leggi in faccia ogni cazzo di stronzata fatta e di dramma vissuto, ma che non ha nulla di posticcio. Una band che ora, non mi vergogno a dirlo, ha più tenerezza che cazzimma. Una band che però poche volte mi è sembrata così sincera. Un gruppo che per evocare quello che ha sempre evocato non ha più bisogno di stupire. Deve solo riunirsi. Che poi, se vogliamo, questo è il più grande lascito della filosofia di Rick Rubin: fai ciò che vuoi, sarà l’unica legge, parafrasando il buon Aleister Crowley. E quello che hanno fatto ancora una volta i Red Hot è stato proprio quello di riportaci a casa, questa volta però senza farci sentire giovani. Non ci sentiamo più come a quindici anni. Quello sarebbe stato illusorio e gratificante solo per qualche ora, poi sarebbe sopraggiunta la desolazione. Un po’ come quando i tre Beatles si ritrovarono per lavorare alla Anthology. Su YouTube è facile recuperare il video in cui George, Paul e Ringo jammano dopo una vita nella stessa stanza. Non pensi al fatto che siano invecchiati, al fatto che John non ci sia o a qualsiasi cosa dettata dalla ragione o dalla deformazione professionale. Pensi solo a quanto diavolo siano simbiotici. Ecco, questo penso sia successo ai Peppers dopo essersi ritrovati ancora una volta. Quella sensazione che le cose in qualche modo possano solo andare così. Lì ho capito che la cosa innaturale e forzata non era quella di tornare a suonare insieme, ma quella di restare separati.

Dopo l’esperimento con Johnny Cash, Rubin ha provato a riaccendere la stessa magia con altri grandi vecchi, sperando di poter replicare la formula. Dal fallimento del progetto con Crosby, Stills & Nash, a quello con Donovan, passando per i Black Sabbath. Poi deve aver capito che un’altra band a cui far fare il miglior finale di carriera di sempre ce l’aveva a pochi isolati da casa. Magari ha pure ripensato a quel punkabbestia di Flea che suonava per Cash in uno dei capitoli delle American Recordings. Per questo anche claudicanti, segnati e invecchiati, i Red Hot restano i più fighi di tutti e, oggi, anche i più teneri.

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