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I ragazzi indossano le magliette dei Ramones, però poi comprano i dischi dei Pink Floyd

Il gruppo di ‘Dark Side’ è sempre in classifica pur non potendo contare su un frontman carismatico o su una iconografia cool. Ecco le ragioni di un fenomeno che sfida le leggi della discografia

Foto di Michael Ochs Archives/Getty Images

Non fa più notizia, ma continua a sorprendere il fatto che nelle classifiche settimanali Top of the Music pubblicate dalla federazione dell’industria discografica italiana FIMI The Dark Side Of The Moon veleggi tuttora tranquillo in 54esima posizione. Un altro album dei Pink Floyd, The Wall, è risalito al numero 71 dopo essere uscito temporaneamente di scena con l’inizio del lockdown. I due dischi sono sempre richiestissimi sotto forma di vinile, rispettivamente al numero 3 e 7, in una graduatoria in cui compare anche Wish You Were Here (n. 19) e che Dark Side, neanche a dirlo, ha dominato a mani basse nell’arco di tutto il 2019. Attenzione: nessun altro classico del rock sopravvive oggi nella Top 100 degli album più venduti in Italia. Di Beatles e Led Zeppelin, di Bowie e Queen, di Genesis e Rolling Stones neanche l’ombra. Perché tutto passa e si affievolisce nella memoria, ma non i Pink Floyd. Amati dal pubblico italiano di un amore eterno, viscerale e incondizionato.

«È vero», conferma Patrizio Romano, che in qualità di Catalog & Strategic Director di Warner Music ne cura oggi il repertorio discografico in Italia. «Eppure, a differenza degli Zeppelin e di altri artisti storici, attorno a loro non è sorta un’industria del merchandising particolarmente sviluppata. Non hanno un logo inconfondibile come la lingua dei Rolling Stones. E in giro è molto più facile vedere ragazzini con le magliette dei Ramones che dei Pink Floyd». A chi amministra il catalogo della band inglese non serve neppure abbassare i prezzi dei dischi, come si fa normalmente con gran parte dei titoli storici, per cercare di smuovere il mercato e di stimolare la domanda. «D’accordo col management, mettiamo i titoli in promozione una volta all’anno e per due mesi soltanto», spiega Romano, confermando che tra il gruppo e l’Italia esiste un rapporto univoco, speciale. «I Led Zeppelin, per esempio, vendono meno qui che oltralpe. Mentre in nessun altro mercato europeo, Inghilterra esclusa, i Pink Floyd hanno un successo paragonabile a quello che hanno in Italia. Qui il loro catalogo si vende in media il 20% in più che in Germania e in Francia, i principali mercati continentali, mentre rispetto al Regno Unito siamo più o meno al 90%».

Chi frequenta regolarmente i negozi di dischi specializzati può confermarlo. Gli album dei Pink Floyd – cd, vinili, ristampe, confezioni deluxe, usati e bootleg – non restano a lungo in vetrina o sugli scaffali. A ricercarli spasmodicamente non sono soltanto vecchi nostalgici, collezionisti o acquirenti compulsivi di ogni riedizione messa in commercio. I Pink Floyd – o almeno, certi Pink Floyd – piacciono a tutti. Alle ragazze che odiano il prog, ai ragazzi che ascoltano musica sullo smartphone o su YouTube e che magari passano oltre Sgt. Pepper e Sticky Fingers.

Dark Side, The Wall e Wish You Were Here sono feticci da mostrare con orgoglio agli amici, tanto più oggi che il vinile è tornato a essere uno status symbol per una frangia di adolescenti e giovani adulti, e che quelle leggendarie copertine (il prisma, il muro, la mucca, l’uomo in fiamme, le ciminiere della Battersea Power Station) recuperano, con il grande formato per cui erano state concepite e realizzate, tutto il fascino e la suggestione di un tempo lontano tornando a essere non solo contenitori di musica, ma pezzi d’arredamento, modernariato pop che simboleggia un’epoca vissuta o agognata.

Ma perché i Pink Floyd, e loro soltanto? Qui si entra, inesorabilmente, sul terreno scivoloso delle congetture. Gioca forse a vantaggio del gruppo di Roger Waters e di David Gilmour il fatto di essere sempre stato estraneo al culto della personalità e alla mitologia della rock star. Potrebbe essere uno dei segreti della loro immortalità. Non avendo un frontman con il carisma di Mick Jagger, Robert Plant o Freddie Mercury, i Pink Floyd si nascondevano dietro alla musica e alle scenografie degli spettacoli dal vivo. Tanto che anni dopo il leggendario dj John Peel, ricordando le loro prime esibizioni, osservò che avrebbero potuto unirsi al pubblico in uno dei loro concerti senza essere riconosciuti.

È dunque il suono della band l’elemento chiave e impersonale del loro fascino senza tempo. Quel suono stereofonico, quando non surround in anticipo sui tempi, che ancora oggi fa dei loro dischi un test esemplare per gli impianti hi-fi: Dark Side in particolare, che nel 1973, all’epoca della pubblicazione, sbalordì anche chi lo ascoltava su un umile giradischi portatile a valigetta con due piccoli e gracchianti altoparlanti incorporati. Un suono sperimentale e avventuroso il giusto, per chi concepisce il rock come forma d’arte di pari dignità a quella che veniva definita per antitesi musica ‘seria’, ma anche piuttosto semplice nella costruzione melodica e nello sviluppo armonico, morbido per le orecchie, sognante e piacevole all’ascolto grazie a una pulizia, a una corposità e a una cura del dettaglio ricercati in modo maniacale (elemento distintivo l’inclusione di voci, di frammenti di conversazioni e di rumori che evocano la vita quotidiana: una tecnica mutuata dalla musica concreta e contemporanea). In perfetto equilibrio tra ambizione di ricerca e volontà di raggiungere le masse, profondità dell’esperienza di ascolto e accessibilità.

Ma c’è dell’altro. Come scrive Nick Mason nell’autobiografia Inside Out, non c’è bisogno di conoscere bene l’inglese per sapere di cosa trattano The Dark Side Of The Moon e The Wall, per identificarsi con quelle canzoni e con quei testi che ci parlano dello stress della vita moderna e denunciano le barriere che separano gli esseri umani. Classici temi da album, nel periodo in cui il supporto a lunga durata, il 33 giri, aveva preso definitivamente il sopravvento sul singolo da tre minuti, simbolo dei più frivoli, veloci e spensierati anni ’60. E quando il concept – idea cara al pubblico e alla critica italiana anni ’70, che con evidente forzatura affiliarono i Pink Floyd al filone progressive – era spesso il trait d’union tra brani musicali che sembrava un delitto estrapolare dal contesto e consumare separatamente (Money e Another Brick in the Wall sono tra le pochissime eccezioni).

Sorprende che su quelle lunghezze d’onda dilatate e rallentate sappiano oggi sintonizzarsi anche millennial e post millennial della generazione Z cresciuti con Spotify e i social media, ragazzi abituati ad ascolti distratti e frammentati e con una soglia d’attenzione molto più ridotta: eppure ben disposti, nel loro caso, ad accogliere l’invito a un viaggio immersivo che coinvolge senza distrazioni per i 40, 80 minuti di un disco singolo o doppio. A farsi coinvolgere dalla narrazione, a farsi avvincere da una trama che va seguita dall’inizio alla fine senza interruzioni.

Chi, come il pubblico francese e tedesco, ha sempre amato il rock stradaiolo e preferito linguaggi musicali più sanguigni e meno cerebrali (l’hard rock e il punk, il soul e l’r&b), non ha probabilmente la stessa nostra propensione a una musica così concettuale, di testa più che di cuore e di pancia, creata da ex studenti di architettura che usavano il pentagramma come un foglio sul tavolo da disegno spalancando le porte dell’immaginazione e facendo volare la fantasia. Frutto di un’epoca in cui, come osserva Romano, «agli artisti era permesso di restare in studio mesi e mesi per registrare i dischi» prendendosi tutto il tempo necessario per portare a compimento la loro visione, e di cui i Pink Floyd, con la loro assidua ricerca della perfezione sonora, sono stati tra i migliori interpreti.

A dispetto della loro antipatia per il termine space rock, la loro è musica che induce una sorta di stato trance, una sospensione spazio-temporale che tutti, più o meno consciamente, ricerchiamo. Musica perfetta per rilassarsi, per staccare dalla realtà quotidiana e per ‘viaggiare’ anche senza l’aiuto di sostanze psichedeliche (di cui gli stessi membri del gruppo, Syd Barrett a parte, hanno fatto uso saltuario e casuale). Tuttora circondata da un velo di mistero e da un’aura mistica che ha dato origine, da noi più che altrove, a un culto quasi religioso che ancora si tramanda di generazione in generazione.

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