Cresciuti a Milano quando la metropolitana era solo rossa e verde, qualche taxi era ancora giallo e il colore di fondo era quel grigio che stava bene su tutto e poco ti faceva notare una città che non sentiva il bisogno di piacere a tutti i costi. La gente correva anche allora ma nella fretta ci si accorgeva del prossimo. Oggi no, i marciapiedi sono corsie a senso unico in cui gli sguardi altrui non ci riguardano, le certezze sono diminuite, le paure, soprattutto verso ciò che è “diverso”, aumentate.
Panta rei insomma. Tutto cambia costantemente e alcune cose, alcuni luoghi anche più velocemente di altri. Come il profilo dei quartieri che a Milano si modifica in continuazione e dove i cantieri si danno il cambio come in una staffetta, che ci sono case di due piani da abbattere per costruire palazzine che ne hanno dieci; negozi o magazzini da chiudere e sostituire con loft esclusivi che magari però hanno due bocche di lupo come finestre. Però vuoi mettere? Oggi grazie al city branding puoi permetterti di abitare in quartieri dai nomi superfighi come NoLo, SouPra, NaPa e GiaLo per bilocali che in altre città pagheresti tranquillamente meno della metà. Milano è diventata una vetrina scintillante e lussuosa, ma senza un’anima, senza una vera identità. Una città che non appartiene più a nessuno, che si specchia in sé stessa e non nelle persone.
E poi la musica. Quella che suonavi in studi che oggi non ci sono più, che andavi a vedere in club che non ci sono più o anche solo che compravi in negozi che non ci sono più. I costi insostenibili, un mercato via via sempre più asfittico, probabilmente anche una diversa “visione” della musica che negli ultimi 20 anni ha visto cambiare le coordinate e le ambizioni di tanti tra i più giovani che oggi, manco a dirlo, cercano una vetrina e una ribalta più che uno sfogo per il loro istinto.
La maggior parte dei luoghi “musicali” di Milano è scomparsa: dall’Odissea al Rolling Stone, da Affori a Porta Romana i club che conoscevamo sono stati sostituiti da complessi residenziali, supermercati, paninerie e ristoranti. E oggi quando ci passi davanti ti viene da dire: «Oh ma lì ci ho visto Tricky nel 1996!» o «Ti ricordi quando Iggy Pop ha quasi spaccato la faccia al bassista tirando l’asta del microfono senza guardarsi alle spalle?».
Al posto del teatro dove ha suonato Bowie coi suoi Tin Machine ora puoi comprare cibi gourmet mentre praticamente tutti i locali dove abbiamo suonato con i Delta V oggi sono chiusi (dal Propaganda al Binario Zero, dal Sorpasso alle Scimmie, da Le Cinéma al Rolling). Al Jungle Sound andavamo a provare, al Bips e al Logic a registrare provini e dischi, da New Kary e da Buscemi a comprare dischi. Niente, il calendario oggi recita “game over”.
Il “progresso” sovente non fa prigionieri, si fa spazio, s’insinua e abbatte tutto quello che è poco produttivo, e quando va bene relega i giovani musicisti nelle loro camerette a smanettare su un pc magari illudendoli e vendendogli il sogno di un passaggio in un talent.
Milano non è solo più Milano, è il paradigma di una società intera, un modello aspirazionale, un modo di vivere in cui, giorno dopo giorno, siamo stati risucchiati con la promessa, anzi la certezza, di vivere meglio salvo poi ritrovarsi a fare i conti con giornate in cui le cose che mancano valgono più dei “benefit” che questa città così smart ti ha portato in dote. Oggi parliamo per stereotipi e per capire cosa dobbiamo fare organizziamo meeting e call, identifichiamo target e skills, facciamo recap e ci diamo una mission… Gli yuppies di Vanzina erano più simpatici.
Il rischio è quello di cadere nella trappola del «si stava meglio quando si stava peggio», mentre in realtà ci sarebbe da fare un discorso di mille pagine, un momento di autocritica dolorosa perché il fatto che ci sia successo è perché in qualche modo lo abbiamo lasciato succedere. Diceva De André in una canzone del 1973 “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”. La verità è che chi questa città l’ha conosciuta e amata oggi non la riconosce quasi più e sempre più spesso pensa ad andar via, magari smenandoci economicamente, sicuramente lasciando degli affetti.
Ecco, probabilmente quello che più manca a questa città è l’affetto. Non sappiamo se esista una cura per questa mancanza, un antidoto forse ce l’hanno i ragazzi che per studiare qui fanno i salti mortali insieme ai loro genitori che si indebitano per farli arrivare alla laurea. Oppure le giovani coppie che mettono al mondo figli anche se mancano gli asili. Oppure ancora quelli che vengono da molto lontano e per cui Milano può rappresentare tuttora una sorta di terra promessa, una speranza di riscatto.
Forse una terapia la si potrebbe trovare con l’impegno e la partecipazione, con la volontà di trovare soluzioni reali e non accontentarsi solo di compiacere quelle di facciata o il politicamente corretto, con il ritrovare una coscienza politica e andando a votare, smettendola di astenersi a priori, perché sennò alla fine vinceranno sempre gli “altri”. Che questa città, nonostante tutto, la si potrebbe ancora tornare ad amare.








