Il 15 agosto è caduto il 60° anniversario del concerto dei Beatles allo Shea Stadium di New York, un evento da cui il mondo intero non si è mai ripreso. È stata la deflagrazione pop più clamorosa della storia, con 56 mila ragazzi e ragazze che urlavano per John, Paul, George e Ringo. È il concerto più famoso che i quattro hanno fatto, anzi, è il concerto più famoso di sempre… anche se nessuno riusciva a sentire una nota. Altri concerti hanno attirato un pubblico più numeroso e incassato molto di più, ma quello allo Shea Stadium restituisce al meglio il concetto di isteria dei fan, una sera di estasi collettiva per i Beatlemaniaci uniti dalla musica e dalle canzoni urlate a squarciagola. Il toppermost of the poppermost. Lo “yeah yeah yeah” degli dei. Il Twist & Shout col twist più grande e lo shout più forte.
«Era la prima volta che qualcuno suonava in uno stadio del genere», ricordava Paul McCartney nel 2003. «Per gente come i Pink Floyd sarebbe poi diventata una cosa normale, ma noi usavamo gli altoparlanti del campo da baseball e non si sentiva nulla, se non le urla del pubblico». Non significa che Paul non si sia goduto ogni istante. «Eravamo elettrizzati, ci sembrava incredibile essere lì e vedere quel che stava succedendo. Non riuscivamo a sentire un bel niente, però pensavamo: non sarà granché, ma sta andando alla grande. È stato fantastico».
Non è stato solamente il primo grande concerto in uno stadio. Ha anche dimostrato quanto potesse essere enorme, ingestibile e folle la musica pop. Ha polverizzato le speranze di tutti quelli che ancora pensavano che i Beatles (e il loro giovane pubblico femminile) fossero una moda passeggera. A quel punto non si potevano più ignorare né i Fab Four, né le ragazze che li seguivano. Il concerto ha infranto tutti i cliché su come dovrebbe funzionare lo show business. Mai prima di allora si erano riunite così tante persone in un unico luogo per celebrare la musica e, a un livello più profondo, per celebrarsi a vicenda. Ecco perché lo Shea Stadium è ancora oggi l’apice dei sogni pop più esagerati, eccitanti, spaventosi e folli.
Le immagini dello Shea sono ancora scioccanti, indipendentemente da quanti concerti in uno stadio avete visto, sia dal vivo che su uno schermo. I quattro salgono per le scale (il camerino era lo spogliatoio degli arbitri) accolti da un’esplosione sonora pari a quella del vulcano Krakatoa: un urlo diverso da qualsiasi altro rumore mai sentito lì dentro. Un poliziotto in preda al dolore si copre le orecchie con le mani. I musicisti sono storditi, camminano barcollando e guardandosi attorno scioccati. A sorpresa, Paul cammina più veloce degli altri: non vede l’ora di arrivare, inizia a correre, saltella, «forza ragazzi!», allora anche John inizia a correre, «andiamo». Sta succedendo tutto troppo in fretta, ma non abbastanza per loro. Una scena buffa: i poliziotti terrorizzati si allontanano dalla band. Non hanno mai visto o sentito qualcosa del genere, perché nessuno l’ha mai vista o sentita. John è il primo a salire le scale che portano sul palco. Prima di salutare il pubblico si salutano l’un l’altro: «Ciao, Paul!», «Ciao, John!».
Pare tutto molto approssimativo: lo stadio non è stato costruito per un pandemonio del genere. I ragazzi sembrano piccoli, la folla enorme e scatenata. Tutti qui stasera, tranne i poliziotti, hanno sognato questo momento per mesi, eppure nessuno è riuscito a immaginare anche solo lontanamente come sarebbe stato davvero. Nessuno era in grado di sognare abbastanza in grande.
«Se guardi il filmato, puoi vedere la nostra reazione al luogo», ha ricordato Ringo nel documentario Anthology. «Era molto grande e strano». Osservate il povero Ringo mentre si dirige verso il palco: alza lo sguardo e gli si piegano le ginocchia. George sorride così tanto da far temere che gli si possa spezzare a metà la mascella. Due delle fan urlanti in mezzo al pubblico sarebbero poi diventate mogli di due Beatles: Linda Eastman McCartney e Barbara Bach. Olivia Arias Harrison invece ha urlato qualche giorno dopo, all’Hollywood Bowl. Allo Shea Stadium c’erano anche Mick Jagger e Keith Richards e probabilmente erano le due persone più gelose fra i presenti.
Ma a rendere leggendario lo Shea, più di ogni altra cosa, è quell’urlo: le ragazze si amplificano a vicenda, così il loro «yeeeaaaaah!» collettivo diventa più potente di quanto 100 mila polmoni potrebbero mai essere. Tante volte, durante i concerti da solista, Paul ha chiesto alle donne presenti: «Fatemi un grande urlo alla Beatles!». Una cosa è dirlo in uno stadio, ma gliel’ho visto fare anche all’inizio di quest’anno al Bowery Ballroom di New York, un bar che può ospitare solo poche centinaia di persone. Non importa. Ovunque degli sconosciuti si riuniscano insieme per urlare per la musica, è come essere allo Shea Stadium.
Questo tipo di rumore festoso non era una cosa consueta allo Shea Stadium, casa dei New York Mets, che allora erano notoriamente la squadra peggiore nella storia del baseball. Durante quella stagione avevano totalizzato 50 vittorie e 112 sconfitte. Ma i Beatles, che non erano mai stati appassionati di sport nemmeno da ragazzi, non ne sapevano nulla e non erano affatto interessati al passatempo nazionale americano. La prima volta che hanno suonato in uno stadio da baseball, a Kansas City nel 1964, in conferenza stampa si sono presi gioco di quello sport. Paul ha detto ridacchiando: «Ma che bel gioco!». Ringo lo ha spiegato così: «Lanci la palla, oi ti fumi una sigaretta e dopo 10 minuti tiri un’altra palla».
I Mets il 15 agosto hanno festeggiato l’anniversario distribuendo ai tifosi repliche in miniatura dello Shea Stadium al Citi Field, dove hanno giocato contro i Mariners. Prima della partita si è esibita anche una tribute band dei Beatles. Lo Shea è stato demolito nel 2009 e, come era giusto che fosse, Paul McCartney ci ha suonato per ultimo, unendosi a Billy Joel per due canzoni: I Saw Her Standing There e Let It Be. Con un tocco alla Macca, ha usato lo stesso basso Hofner che aveva suonato lì nel 1965.
Allo Shea Stadium i Beatles sono stati presentati da un Ed Sullivan che dava l’impressione di essere tristemente fuori luogo, come se lo avessero tirato fuori dal dimenticatoio per l’occasione. Paul è stato l’unico a salutarlo e a stringergli la mano. I ragazzi sono saliti sul palco alle 21:16, dopo una serie di artisti di apertura di secondo piano: la cantante soul della Motown Brenda Holloway, la leggenda del sassofono King Curtis, Cannibal & the Headhunters, Sounds Incorporated, i Young Rascals prima della fama (mancavano sei mesi al loro primo grande successo Good Lovin’). Era il primo concerto dal vivo della loro breve ma intensa tournée negli Stati Uniti: nelle due settimane successive hanno poi incontrato il loro idolo Elvis Presley a Beverly Hills e si sono fatti di LSD durante una festa in piscina con i Byrds e Peter Fonda (John ha raccontato l’esperienza in She Said She Said).
Hanno fatto un set bizzarro di mezz’ora, tralasciando i loro brani più amati dal pubblico: niente She Loves You, I Want to Hold Your Hand, I Saw Her Standing There. Stranamente, ma è stata una bellissima sorpresa, hanno fatto Baby’s in Black, una canzone che a John e Paul è sempre piaciuto cantare insieme, condividendo il microfono e duettando guardandosi negli occhi. Hanno voluto tenerla in scaletta fino al loro ultimo concerto, anche se non è mai stata una hit e nemmeno è uscita come singolo: era solo una canzoncina che nessuno amava quanto loro due, per ragioni che non hanno mai rivelato. La scaletta completa è questa: Twist and Shout, She’s a Woman, I Feel Fine, Dizzy Miss Lizzy, Ticket to Ride, il momento di George Everybody’s Trying to Be My Baby, Can’t Buy Me Love, Baby’s In Black, Act Naturally cantata da Ringo, A Hard Day’s Night, Help! e la B side urlata I’m Down.
Un anno dopo, nell’agosto del 1966, sono tornati a suonare allo Shea Stadium, ma ormai non si divertivano più. La carriera da live band dei Fab Four era agli sgoccioli e meno di una settimana dopo avrebbero tenuto il loro ultimo concerto. Incredibilmente, lo show allo Shea del 1966 non andò neppure lontanamente sold out. Ma quando parliamo dello Shea Stadium, ci riferiamo a quel giorno dell’agosto 1965 e al modo in cui ha segnato la cultura popolare. Rappresenta ancora oggi lo standard a cui ogni popstar aspira. «Adesso è un cosa abbastanza comune suonare allo Shea Stadium o al Giants Stadium e in quei posti enormi, ma quella era la prima volta che succedeva», dice Paul in Anthology. «Sembrava che ci fossero milioni di persone, ma noi eravamo preparati. Evidentemente avevano valutato che fossimo abbastanza famosi per farlo. Quando sali sul palco e sei conscio di aver riempito un posto di quelle dimensioni, è magico. Vedi solo muri di persone».
Una sera, durante uno di quei grandi concerti negli Stati Uniti, il loro manager Brian Epstein ha realizzato un sogno che segretamente aveva coltivato: si è mischiato col pubblico senza farsi notare e ha urlato a squarciagola, come aveva sempre desiderato fare. Guardando lo Shea Stadium o ascoltando il caos che si era scatenato ci si sente travolti da quella frenesia orgiastica. «Metà del divertimento consisteva nel partecipare a questo evento gigantesco», ha detto McCartney. «Non credo che il pubblico sentisse granché. Il normale impianto di amplificazione dello stadio di baseball serviva solo a dire cose tipo: “Signore e signori, il prossimo giocatore è…”. Ma giocava a nostro favore, perché se stonavamo un po’ o non suonavamo la nota giusta, nessuno se ne accorgeva. Contava solo lo spirito. Abbiamo fatto semplicemente il nostro lavoro, leggeri e allegri, poi siamo corsi in una limousine che ci aspettava e siamo partiti a tutta velocità».
Ora la dirò tutta: una volta avevo una psichiatra che era stata allo Shea. Era uscito fuori per caso durante una seduta e io non potevo certo lasciarle cambiare argomento e tornare a discutere dei miei problemi, no? L’ho tempestata di domande su ogni minimo dettaglio. Era una fan di Paul, ovviamente. I Beatles erano quattro puntini marroni sul manto erboso. Non riusciva a sentire una nota, non sapeva il titolo di nessuna delle canzoni che suonavano. Non riusciva a vedere i loro volti. Ma sapeva che uno di quei quattro puntini era Paul. Forse è stato stupido sprecare un’intera seduta per sentire quelle storie, eppure sospetto che sia stata una delle sedute terapeutiche più produttive che abbia mai fatto.
È proprio per questo che quello allo Shea Stadium rimane il concerto più emblematico di sempre: è la rappresentazione definitiva delle emozioni pop nella loro forma più enorme, assurdamente esagerata. Supera di gran lunga qualsiasi successo che i Beatles potessero immaginare di avere quando erano a Liverpool. Va ben oltre i sogni dei fan su quanto potesse essere scatenato ed esaltante un concerto. I Fab Four guardano quella massa di persone come i marinai olandesi descritti da F. Scott Fitzgerald di fronte all’America, alla fine del Grande Gatsby: affrontano per l’ultima volta nella storia qualcosa di adeguato alla loro possibilità di meraviglia. E il pubblico guarda i Beatles allo stesso modo. A 60 anni di distanza, quella notte folle allo Shea Stadium definisce ancora la musica pop nella sua forma più scandalosamente vitale.













