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I 20 minuti più lunghi nella vita di George Harrison

In un estratto dalla biografia che esce oggi ‘George Harrison: Behind the Locked Door’, il racconto dettagliato dell’aggressione del 1999, quando un uomo armato di coltello entrò nella casa del Beatle per ucciderlo. «Non si è mai ripreso del tutto»

I 20 minuti più lunghi nella vita di George Harrison

George Harrison

Foto: Aaron Rapoport/Corbis via Getty Images

Harrison sopportava sempre meno le invasioni della sua privacy da parte del mondo esterno. Dopo le cause a Maui e i problemi a Hamilton Island, ci furono altre intrusioni. Nel 1998 i ladri entrarono a Friar Park e rubarono dai giardini due busti di bronzo di monaci dal valore di 50.000 sterline. Nel 1999, mentre era a Henley, venne a sapere che una stalker aveva fatto irruzione nella sua casa di Hana. Cristin Kelleher, una donna di 27 anni con problemi mentali, era entrata in casa, aveva preso una pizza dal freezer, l’aveva cucinata e mangiata. La polizia era arrivata sul posto mentre stava ripulendo. Lei spiegò di avere una “connessione psichica con George”.

Ma queste erano cose da niente, se paragonate all’aggressione brutale e terrificante che ebbe luogo a Friar Park la notte del 31 dicembre 1999. Dopo aver guardato un film in televisione, Harrison e sua moglie erano andati a letto verso le due del mattino. Dhani e un suo amico erano in una delle casette indipendenti, mentre la madre di Olivia dormiva da qualche altra parte nell’edificio principale. La maggior parte del personale era tornato a casa per le vacanze.

Verso le tre del mattino, Michael Abram riuscì a entrare nella proprietà da uno dei punti in cui la staccionata era rotta, senza essere inquadrato dalle telecamere di sorveglianza. Abram era un trentaquattrenne con problemi di schizofrenia, originario di Liverpool e con una storia di tossicodipendenza alle spalle: si era convinto che i Beatles fossero “streghe”. Di recente era stato diverse volte a Henley-On-Thames per indagare sulla casa di Harrison e giovedì 30 dicembre scese da Liverpool per l’ultima volta.

Una volta entrato a Friar Park si diresse verso la casa e usò una statua di San Giorgio e il Drago per sfasciare la porta del patio, che dava sulla cucina. Il sistema antifurto non scattò, ma Olivia Harrison sentì il rumore e svegliò il marito, che si alzò per andare a controllare. Dalla cima delle scale del primo piano, Harrison vide Abram in ingresso, armato della lancia della statua e di un coltello nell’altra mano. Cercò di tornare verso la camera da letto ma la chiave era inceppata, quindi Harrison decise di affrontare l’uomo. Si mise a cantilenare Hare Krishna nel tentativo di calmare Abram, ma servì solo a irritarlo ancora di più: l’aggressore iniziò a urlare e si lanciò su per le scale. Saltò sopra a Harrison e lo colpì, entrambi erano sul pavimento.

Seguì una lotta di venti minuti nella galleria del primo piano. Abram continuava a colpire, Harrison cercava di difendersi. Dopo aver chiamato aiuto al telefono, Olivia emerse dalla camera da letto, afferrò un pesante attizzatoio in ottone e iniziò a colpire l’aggressore sulla testa, al ché Abram attaccò lei. Harrison, che aveva diverse ferite da coltello, sanguinando copiosamente si alzò con difficoltà per difendere la moglie. Ancora una volta, venne sopraffatto, e accoltellato sul lato sinistro del petto, stavolta in profondità. In seguito, mentre era ricoverato in ospedale, confessò a Olivia Harrison che il suo pensiero ricorrente in quei momenti era: “Non riesco a credere che dopo tutto quello che mi è successo sto per venire assassinato a casa mia”. Mentre lottava per salvare sé stesso e la moglie, cercava di prepararsi mentalmente al momento su cui aveva riflettuto negli ultimi trent’anni: quello in cui l’anima lascia il corpo.

Olivia Harrison colpì Abram con una lampada ma non fu particolarmente utile. L’assalitore gliela prese e si lanciò di nuovo su Harrison, prima di rivolgersi ancora a Olivia. Quando sembrava che non ci fosse più via di scampo, apparvero due poliziotti e riuscirono a bloccare Abram. Dhani arrivò alla casa poco dopo e si convinse che il padre, coperto di sangue, sul punto di perdere conoscenza e che faticava a respirare, stesse per morire. I paramedici arrivarono alle quattro del mattino e passarono venti minuti a medicare le sue ferite, fermare il sanguinamento e attaccargli la flebo di soluzione salina. Harrison e sua moglie vennero portati in sedia a rotelle all’ospedale più vicino, il Royal Berkshire di Reading.

Alla fine fu fortunato. Le ferite più serie erano un polmone perforato e una profonda pugnalata subito sotto la clavicola, per cui gli misero dodici punti. Se lo avesse colpito un centimetro più in là, avrebbe rotto il vaso sanguigno che collegava il cuore al cervello e Harrison sarebbe morto nel giro di pochi minuti. Ma era andata bene: Mark Gritten, primario al Royal Berkshire, rassicurò il pubblico sul fatto che Harrison non era in pericolo di vita. Medicarono anche i tagli e le ferite di Olivia Harrison. Più tardi Harrison venne trasferito all’Harefield Hospital di Uxbridge, e la sera del primo giorno del Millennio era di nuovo a casa.

Mentre in tutto il mondo i giornali pubblicavano titolo preoccupanti, gli amici si precipitavano al suo capezzale. Eric Idle prese immediatamente un volo dagli Stati Uniti per raggiungerlo a Friar Park. Starr e McCartney gli mandarono messaggi di sostegno. Tom Petty gli spedì un fax: “Non sei felice di aver sposato una ragazza messicana?”. Harrison scherzò con Mark Gritten: chiunque fosse l’intruso, “non era un ladro d’appartamenti, e certo non voleva fare un provino per i Traveling Wilburys”. Ma chi era davvero Abram, e cosa lo aveva spinto a quel gesto? In un’intervista rilasciata al Liverpool Echo poco tempo dopo l’aggressione, sua madre spiegò che il figlio era stato dipendente dall’eroina e soffriva di numerosi disturbi mentali. Abram era stato curato in terapia psichiatrica ma poi era stato lasciato a sé stesso. Di recente si era ossessionato alla musica dei Beatles. Raccontava la madre: “Entrava nei pub urlando frasi sui Beatles. Iniziò ad andare in giro con un walkman per sentire la musica e mettere a tacere le voci nella sua testa. Parlava più di Paul McCartney, che di George Harrison”.

Abram venne imputato per il duplice tentato omicidio. Quando il caso arrivò a processo alla Oxford Crown Court, il 14 novembre 2000, Harrison venne esonerato dal partecipare. Mandò invece un resoconto scritto dell’aggressione. Olivia Harrison, che si presentò in tribunale con Dhani, fornì una testimonianza cruda e potente degli eventi di quella notte e dell’effetto che avevano avuto sulla sua famiglia. Il secondo giorno di processo, la giuria decretò Abram non colpevole perché incapace di intendere. Il giudice stabilì che venisse ricoverato per un tempo indefinito in una casa di cura psichiatrica e finì alla Scott Clinic di Rainhill, vicino a Liverpool. Geoffrey Robertson, il legale degli Harrison, chiese che la famiglia venisse avvisata in caso di ipotesi di rilascio di Abram, ma il giudice lo informò che non aveva alcun potere in tal senso. Dopo il processo Dhani Harrison, che aveva ventidue anni e per la prima volta parlava in pubblico, si fermò fuori dal tribunale ed espresse con passione e grande eloquenza la rabbia della sua famiglia per il verdetto. “La prospettiva che quell’uomo possa essere rimesso in libertà è abominevole”, disse. Nel giro di trenta mesi i loro timori si avverarono e Abram, apparentemente guarito, uscì dalla casa di cura.

Dentro di sé Harrison aveva sempre sospettato che le alte onde del karma create dalla fama dei Beatles un giorno gli si sarebbero ritorte contro. Tutti quei momenti di panico in tour, le fan urlanti, le minacce di morte, le intrusioni e la paranoia, secondo la moglie lo avevano già “traumatizzato” a vita. E adesso, a 56 anni, aveva visto la sua paura peggiore materializzarsi tra le mura di casa sua. “Ci hanno usati come scusa per impazzire, lo ha fatto il mondo intero”, dichiarò in Anthology. Alcune persone continuavano a farlo. Iniziò a lasciare sempre meno Friar Park e cercò di non farsi sopraffare dal trauma dell’orribile aggressione, ma molti amici ritengono che quell’evento gli abbia accorciato la vita – soprattutto visto che era successo in un momento in cui la sua salute era particolarmente fragile. Commenta Geoff Wonfor: “Il trauma subito da George, l’aggressione in casa… nessuno sa quanto abbia influito. Fu un momento davvero terribile. Non si riprese mai del tutto”.

Tratto da George Harrison: Behind the Locked Door – La biografia di Graeme Thomson (Il Castello/Chinaski).

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