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Harry, ti presento Rob…

Harry Connick Jr racconta quando Rob Reiner ha affidato proprio a lui, musicista 21enne, la colonna sonora di ‘Harry, ti presento Sally…’. «Chi era mai quest’uomo che mi lasciava suonare tutto quello che volevo?»

Foto: Getty Images

Era il 1988, avevo 21 anni e mi ero trasferito a New York due anni prima. Mi piaceva tornare a New Orleans per andare a trovare mio padre nella sua casa ad uptown.

«June! C’è Meathead al telefono», ha gridato dall’altra stanza. Gli piaceva prendermi in giro.

«Ehi, Meathead», ho detto dopo aver preso la cornetta.

«Harry? Sono Rob Reiner».

Non ricordo con precisione quel che mi ha detto, in testa mi giravano le immagini del Mike Stivic di Arcibaldo. Ricordo però che mi ha parlato del film a cui stava lavorando e che a quel punto si intitiolava Harry, This Is Sally. Mi sono precipitato nell’altra stanza per dire a mio padre che ero appena stato invitato a Los Angeles per accompagnare le scene del film al pianoforte. Non avevo la minima idea di che diavolo volesse dire, ma non vedevo l’ora di farlo.

Lo studio era gigantesco, il classico soundstage di Los Angeles grande quanto se non più di un intero isolato. Uno schermo enorme pendeva dal soffitto, ma a parte quello l’unica altra cosa presente era lo Steinway a coda da concerto che dominava il centro della sala.

«Tu guarda lo schermo», mi ha detto Reiner mentre mi sedevo al pianoforte. «Quando inizierà la scena, vedrai una striscia verde. Ecco, è in quel momento che devi cominciare».

«Ma cominciare cosa? Che cos’è che devo suonare?».

«Quello che vuoi».

«E come faccio a sapere quando fermarmi?».

«Quando la striscia rossa arriva alla fine dello schermo».

Si è eclissato nella control room lasciandomi da solo al pianoforte. «Ok», ha detto al microfono, «cominciamo».

Mi sono messo le cuffie. Quando sullo schermo è apparsa una scena con Billy Crystal e Meg Ryan mi è sembrata disadorna. Loro due erano magnifici, sì, ma mancava qualcosa. Quando la striscia verde ha iniziato a scorrere sui loro volti, ho capito: mancava qualcosa perché non c’era la musica. E porca miseria, quella ce la dovevo mettere io.

Ho messo le dita sui tasti e ho aspettato che arrivasse la striscia. Saranno stati due secondi, ma mi sono sembrati un’eternità mentre stavo lì a decidere che cosa avrei suonato. Non ricordo di preciso il dialogo tra Billy e Meg, so che all’improvviso mi sono ritrovato ad accompagnare la conversazione con la musica.

La striscia rossa è apparsa al momento giusto, mentre Billy e Meg chiudevano la scena e io suonavo le ultime note e gli ultimi accordi. Come faceva Reiner a sapere che avrebbe funzionato? Come faceva a sapere che io avrei funzionato?

Ho improvvisato musica una scena dopo l’altra con Reiner che mi dava istruzioni per creare una connessione con quel che accadeva sullo schermo. Mi faceva paura perché aveva una visione incredibilmente precisa, ma era anche gentile, paziente, chiaro.

Poi c’è stato da cantare con l’orchestra. In principio mi era stato chiesto di fare una sola canzone, It Had to Be You, ma per via di alcuni intoppi contrattuali alla fine ho cantato e suonato in tutti i brani presenti nel film. Ricordo Winter Wonderland. Nel film si ascolta la versione di Ray Charles, ma Reiner voleva che nell’album della colonna sonora la facessi io.

Gli ho chiesto come la voleva. E ancora una volta mi ha risposto: «Come vuoi». L’ho suonata in stile New Orleans e mi sono fermato per vedere la sua reazione. «Perfetto. Andiamo avanti».

Chi era mai quest’uomo che mi lasciava cantare e suonare qualunque cosa volessi? Era una cosa normale, succedeva con tutti i film? Tutti i registi lavoravano in quel modo? A quanto pare no. Lui era una rarità.

È arrivato poi il momento di cantare It Had to Be You. Avevamo registrato a inizio giornata la parte dell’orchestra e così mi sono ritrovato da solo di fronte al microfono al centro della sala ripresa. Mentre cantavo vedeva Reiner al di là del vetro della control room.

Alla fine della canzone mi ha detto una cosa in cuffia: «Puoi finire sulla nota alta?». È un fa alto, ma davvero alto per me, eppure gli ho risposto «Certo, nessun problema».

Ho registrato un’altra versione, questa volta ho riempito i polmoni di quanta più aria possibile prima dell’ultima nota. L’ho visto sorridere mentre premeva il pulsante del talkback. «È quella! È quella giusta!».

Quella sera ho chiamato mio padre dalla stanza che occupavo al Sunset Marquis. Ho appoggiato un lato delle cuffie del mio Walkman al telefono per fargli sentire qualcosa. Ha apprezzato. «E cosa ha detto Reiner?». «Penso gli sia piaciuta». Ero al settimo cielo.

Rob Reiner era un gentiluomo brillante e generoso. Lo ricorderò per sempre in quello studio, quel giorno: rumoroso e forte, preciso e cauto.

Ricordo le sue parole: «Se vuoi riuscire in questo mestiere, devi cavartela da solo. Non aspettarti che qualcuno faccia qualcosa per te».

Vero, a meno che quel qualcuno non fosse Rob Reiner. Lui ha fatto qualcosa per me: mi ha cambiato la vita e gliene sarò per sempre grato.

Grazie, Mr. Reiner. Sarà sempre nel mio cuore.

Con affetto, Harry
18 dicembre 2025

Da Rolling Stone US.

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