«Hanno sparato a Tupac!» | Rolling Stone Italia
Thug Life

«Hanno sparato a Tupac!»

In un estratto dalla biografia autorizzata la storia della rapina che è quasi costata la vita al rapper, la visita del vero padre («Sono in paradiso? Sono morto?»), la fuga rocambolesca dall’ospedale

«Hanno sparato a Tupac!»

Tupac

Foto per gentile concessione di Il Castello

Il 30 novembre, mentre il processo volgeva al termine e iniziavano le deliberazioni della giuria, Tupac, l’amico di famiglia Zayd, Stretch e un altro amico, Freddie “Nickels” Moore, si recarono nello studio di Harlem del DJ Ron G per registrare una canzone dal titolo Deadly Combination per il rapper di Harlem Big L. Durante quella sessione, Tupac ricevette una telefonata da Jimmy Henchman della Henchmen Entertainment, che aveva conosciuto tramite Jacques Agnant. Henchman, noto come “Booker”, chiese a Tupac se voleva registrare una strofa per uno dei suoi clienti, Little Shawn, un artista sotto contratto con la Bad Boy Records. Tupac negoziò un compenso di 7.000 dollari e si recò ai Quad Studios di Times Square per incidere la strofa.

Quando lui e la sua crew arrivarono al Quad, una voce familiare lo salutò dalla finestra. Era il rapper Lil’ Cease, un amico intimo di Biggie. Mentre entrava, Tupac, sempre all’erta, notò un uomo dall’aria sospetta appoggiato accanto alla porta. «Quando ci siamo avvicinati, non ha alzato lo sguardo», ha raccontato. «Non ho mai visto un nero non riconoscermi, in un modo o nell’altro, mostrando invidia o rispetto. Ma questo tizio alzò lo sguardo solo per un momento e poi riabbassò il capo. Non mi ha allarmato più di tanto perché avevo appena fumato un po’ di erba. Non pensavo che mi sarebbe successo qualcosa nell’atrio di uno studio».

Una volta entrati, superarono la postazione della guardia di sicurezza e si infilarono nello stretto passaggio davanti all’ascensore. All’improvviso, due giovani neri arrivarono alle loro spalle urlando: «Niggas, sdraiatevi a terra!». Puntarono le canne delle pistole direttamente su Tupac, Freddie, Zayd e Stretch e poi gridarono: «Toglietevi i gioielli!».

Tupac non si sdraiò. Si voltò di scatto per affrontare gli uomini. Uno di loro cercò di afferrargli il braccio, Tupac lo respinse. «Non c’era traccia di paura nei suoi occhi», ha ricordato Zayd.
Mentre Tupac cercava di afferrare la pistola puntata contro di lui, mise mano alla sua.
Uno dei rapinatori urlò: «PISTOLA!».

L’assalitore premette il grilletto e sparò una raffica di colpi. Zayd ricorda di aver sentito sbattere gli stivali di Tupac mentre cadeva a terra. «Era stato colpito da due proiettili», ha ricordato Zayd. «Si vedevano i fori di entrata. E poi si vedevano due linee parallele, dietro la testa, dove i proiettili erano passati sopra al cuoio capelluto. L’avevano colpito alla testa e alla mano, cazzo… Il fatto che gli avessero sparato alla testa lo spinse a premere il grilletto».

Sebbene fosse stato colpito in vari punti del corpo, la domanda su quale pistola abbia sparato quale proiettile non ha mai trovato risposta. Tupac era convinto di essere stato colpito cinque volte dagli aggressori.
«Mi schiacciavano la testa contro il pavimento», ha ricordato Tupac. «Vedevo bianco, solo bianco».

Uno degli assalitori teneva la pistola puntata contro Stretch, Zayd e Freddie sdraiati a terra, mentre l’altro prendeva a Tupac una delle sue due pistole e circa 40.000 dollari in gioielli d’oro e diamanti. Prima di andarsene, gli uomini colpirono Tupac alla testa con il calcio della pistola e lo presero a calci.

Tupac giaceva sul pavimento, Zayd lo chiamò: «Yo, stai bene?».«Sono stato colpito», riuscì a dire.
Zayd afferrò la pistola rimasta e corse fuori per seguire gli uomini.
Tupac si alzò, ferito e sanguinante, e lo raggiunse fuori. Cercarono di ritrovare i due tizi che li avevano derubati, ma senza successo. Pochi istanti dopo, presero l’ascensore per arrivare all’ottavo piano. Tupac entrò in studio zoppicando, con il sangue che colava dalla testa e dal corpo. Erano presenti dozzine di persone, tra cui Biggie, Puffy e il presidente della Uptown Records Andre Harrell.
Tupac trovò un telefono e chiamò Keisha, in modo che potesse informare sua madre dell’accaduto. Poi chiamò il 911.

I paramedici e la polizia arrivarono in fretta. Tupac notò che gli agenti erano gli stessi che si erano presentati sulla scena di Parker Meridien, la sera in cui era stato arrestato. Uno di loro aveva appena testimoniato contro di lui a processo. I paramedici medicarono le sue ferite, lo legarono a una barella e lo portarono fuori dall’edificio attraversando una folla di fotografi che accolsero la sua comparsa con frenesia. Indignato, Tupac alzò il medio ai reporter mentre veniva caricato sull’ambulanza. «Non posso credere che mi stiate fotografando su una barella!». Mentre lo caricavano in ambulanza, i poliziotti si avvicinarono. Notarono che i paramedici gli stavano medicando la zona dell’inguine. Tupac in seguito ha ricordato che uno di loro «aveva un mezzo sorriso sulla faccia e mi guardava le palle. Mi disse: “Come va, Tupac? Come butta?”».

Proprio in quel momento arrivò Man-Man, avvisato sul cerca persone dell’accaduto. Salì sull’ambulanza con Tupac. Mentre i due si dirigevano verso l’ospedale, Keisha prese un taxi e si precipitò nel Bronx a casa della cugina di Tupac, Jamala, dove alloggiavano Afeni e la zia Glo mentre erano in città per il processo. Keisha conosceva solo l’indirizzo, non il numero dell’appartamento, e Jamala non aveva il telefono. Non avendo alternative, Keisha si piazzò davanti all’edificio e si mise a urlare: «Jamala! Hanno sparato a Tupac! Hanno sparato a Tupac!».Fortunatamente Glo la sentì e si affacciò alla finestra.
«È al Bellevue!», gridò loro.

Afeni, zia Jean e Keisha si precipitarono al Bellevue Hospital, dove il personale medico le aggiornò sulle condizioni di Tupac: era ancora in sala operatoria. Dopo ore di attesa, i medici spiegarono che si stava riprendendo. Ma pochi istanti dopo venne riportato in sala operatoria, per intervenire su un vaso sanguigno nella gamba che non smetteva di sanguinare.

Alle quattro del pomeriggio del giorno successivo, la stampa e i fan cominciarono a presentarsi in ospedale: il mondo aveva scoperto che avevano sparato a Tupac Shakur. Quando si svegliò dall’anestesia, ancora intontito e coperto di bende, Afeni entrò per prima a vederlo, seguita da Glo. Tupac si girò verso di loro dicendo: «Guardate cosa mi hanno fatto». Afeni cercò di reprimere le proprie emozioni, tornò nella sala d’attesa e iniziò a occuparsi della folla crescente di visitatori. Watani pensò alla logistica, ordinando un ulteriore livello di sicurezza: le guardie private della X-Men Security Company, formate da ex membri della Nation of Islam.

In mezzo al caos e al chiacchiericcio incessante della sala d’attesa, Glo notò Biggie da solo in un angolo, isolato dalla folla. «Sembrava triste», ha raccontato. «Non era in piedi con le altre persone che speravano di vedere Tupac. Se ne stava per conto suo, appoggiato al muro».

Poi Afeni notò che era arrivato Billy Garland, l’uomo che sapeva essere il padre biologico di Tupac. All’improvviso, dopo molti anni, gli era venuta voglia di vedere suo figlio.
Era lei a decidere chi poteva superare la sala d’attesa ed entrare a vedere il figlio: Afeni doveva scegliere in fretta. «Era sopraffatta», ha ricordato Glo. «Quel giorno in ospedale c’era il caos e lei cercava di capire quale fosse la cosa giusta da fare in quel momento». Che si fosse trattato di una decisione emotiva o razionale, Afeni accettò di lasciarlo passare.

In piedi al capezzale di Tupac, Keisha gli diede la notizia. «C’è un uomo in sala d’attesa che dice di essere tuo padre».
«Cosa?».
«E ti assomiglia molto».
Pochi istanti dopo, un volto stranamente familiare apparve accanto a lui. «Stai bene, amico?».
Tupac fissò Billy Garland. Aveva già incontrato Billy in passato: Afeni glielo aveva portato in visita da bambino. Ma Billy aveva una famiglia sua e non sembrava intenzionato a portare avanti un rapporto padre-figlio. Quindi Afeni aveva cambiato idea e aveva lasciato che fosse Legs, l’uomo che rivendicava con passione Tupac come figlio suo, a ricoprire quel ruolo. Il giorno in cui Legs si era affacciato sopra la culla di Tupac e aveva detto: «Sì, è mio», per Afeni era stato decisivo. Legs voleva che Tupac fosse suo figlio ed era entusiasta all’idea di essere padre, anche se non era esattamente un padre presente. Dopo la morte di Legs, Tupac non aveva mai superato il lutto.

E ora, nove anni dopo, l’uomo che gli stava di fronte era solo un estraneo. Quella dichiarazione di paternità si aggiungeva al trauma di tutto ciò che aveva appena subito. Ma la somiglianza era surreale. Glo ha ricordato: «Ci ha detto che quando ha alzato lo sguardo ha pensato di essere morto, perché si è trovato davanti qualcuno che gli assomigliava in modo impressionante. Pensava: Sono in paradiso? Sono morto?».
Anche con una squadra di guardie di sicurezza private che vigilavano fuori dalla porta della sua stanza d’ospedale, per Tupac era impossibile rilassarsi. La visita dell’uomo che affermava di essere suo padre aggravò i timori di un’altra imboscata. La mente di Tupac era un groviglio di paranoia, dolore e confusione. I suoi livelli di stress raggiunsero il punto di ebollizione. Aveva bisogno di uscire da quel letto. Aveva bisogno di fumarsi un cannone. O una sigaretta. Qualcosa, qualsiasi cosa per schiarirsi le idee.
Ancora sotto sedazione parziale, si alzò e uscì dalla stanza. Una delle guardie di sicurezza doveva aver percepito la sua disperazione, invece di cercare di riportarlo a letto lo aiutò a scendere con l’ascensore fino alla sala d’attesa per vedere sua madre.

Meno di tre ore dopo essere uscito dalla sala operatoria, alimentato dall’adrenalina e dall’ansia, Tupac entrò nella sala d’attesa con il camice dell’ospedale, un cappotto e le scarpe. La testa, il braccio e la gamba erano avvolti da garze e si trascinava dietro l’asta della flebo. Afeni stava parlando con Jamal Joseph, che era appena arrivato, quando alzò lo sguardo e lo vide.
«Dove pensi di andare?», chiese a Tupac con calma.
Cominciò a supplicarla, convinto che se non avesse lasciato l’ospedale in quell’istante la sua vita sarebbe stata in pericolo. «Fammi uscire subito da qui». I suoi occhi erano sbarrati dalla paura.

Senza fare altre domande, Glo corse fuori dall’ospedale a prendere la macchina, mentre Afeni trovò una sedia a rotelle. Prima che potessero uscire dalla porta, intervenne una guardia di sicurezza dell’ospedale. «Non potete andarvene», disse.

Jamal sapeva che nessuno avrebbe fatto cambiare idea a Tupac. Prese da parte la guardia di sicurezza e parlò a bassa voce, per non farsi sentire dal resto della sala. «Si guardi intorno», disse. «Qui ci sono una decina di soldati di strada. Ci sono ex-Pantere, persone della Nation of Islam. Le consiglio di mostrarci non solo i documenti da firmare, ma anche l’uscita posteriore».

Afeni era spaventata dalla decisione avventata appena presa dal figlio, ma sentiva anche che era importante sostenerlo in quel momento di paura e incertezza. Portò Tupac fuori dall’ospedale in sedia a rotelle. Erano le 18:45. Non erano passate nemmeno ventiquattro ore dalla sparatoria.

Quando lasciarono l’ospedale, furono travolti da giornalisti, fan e fotografi che avevano trovato l’uscita sul retro. A farsi strada tra la folla c’era anche Mickey Rourke, che era saltato su un aereo da Miami nel momento in cui aveva saputo della sparatoria, e aveva raggiunto l’ospedale proprio mentre Tupac stava uscendo. Mentre si dirigevano verso l’appartamento di Keisha ad Harlem, il dottor Pachter, traumatologo dell’ospedale, apprese che Tupac si era fatto dimettere. Disse ai giornalisti: «In venticinque anni di carriera non ho mai visto nessuno lasciare l’ospedale in questo modo».

Da Tupac Shakur – La biografia autorizzata di Staci Robinson (Il Castello)

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