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Ha ragione James Blake, la musica di oggi è una grande #ADVentura

Da quando abbiamo smesso di comprare dischi, le canzoni sono diventate come i figli dei Ferragnez, l’esca per farti seguire il profilo Instagram coi consigli per gli acquisti. Ma i cantanti penseranno mai: sono nato nell’epoca sbagliata? E noi pensiamo mai: è anche colpa nostra?

Foto: Patrick Perkins/Unsplash

La mia preferita è la cantautrice di lotta e d’adv che ci fa sapere su Instagram che è stata al Pride. Non da sola, però. C’è andata col brand che rende la pelle stupenda e si fa portavoce di messaggi inclusivi. Del resto, che alleata sei se non hai il giusto contorno occhi e il link in bio? Uno invece fa il carosello col riassunto del suo mese e ci piazza dentro il cappellino col logo, lo zainetto griffato, le scarpe bene in vista manco fosse John Travolta. Un’altra scrive «son capricciosa» e generosamente aggiunge la marca dei trattamenti per i capelli ricci. Vedeste che grinta quand’è bardata dai brand, la borsa di quello, il corpetto dell’altra.

Che strana musica fanno i commerci dei cantanti italiani e che strani commerci fa la loro musica. Abbiamo smesso di comprare i dischi e a loro non resta che pubblicizzare e sponsorizzare cose, oltre a fare accordi coi brand, tenere esibizioni private, cercare sincronizzazioni, piazzare prodotti nei videoclip, andare là dove ci sono i soldi e cioè ovunque tranne che nei sempre più tristi e vecchi negozi di dischi. Simpatizzo con loro e anzi dico che ce lo meritiamo perché abbiamo fatto sì che accadesse. Noi pubblico non-più-pagante siamo parte del problema. È una cosa che la gente non vuol sentirsi dire, obiettando «ma come, io sborso 10 euro al mese!», come se quel deca dato a Spotify bastasse a rimunerare le decine d’artisti che ascoltiamo, oppure «a me sembra che i concerti siano pieni», come se l’industria non premiasse i giganti, lasciando fuori una fetta importante di musicisti che quando va bene se la cavicchiano. E poi, chi vuol sentirsi dire «sei parte del problema» da uno (ci arriverò) che ha 10 milioni di ascoltatori mensili su Spotify e va in giro di Prada vestito?

Sento già un’altra obiezione: è il mercato bellezza, se non ce la fai, vuol dire che la tua musica non piace al pubblico, vai a fare un altro mestiere. C’è del vero. Qualcuno ha calcolato che ogni giorno vengono caricate sulle varie piattaforme 100 mila canzoni. Lo riscrivo perché non ci si crede: 100 mila canzoni al giorno. Se anche fossero 60 mila, una vecchia stima di Spotify, sarebbe ridicolo. La piattaforma svedese dice che 80 milioni di canzoni vengono ascoltate meno di 10 volte nell’arco di un anno. E quindi sì, il mercato non è sovraffolato, è folle. E però, pensando a quelli bravi, un tempo con la nicchia ci campavano, oggi meno. Le nicchie poi crescevano, diversificavano il panorama, diventavano i Nirvana, i Massive Attack, i White Stripes. Poi s’è creata una frattura come ha raccontato benissimo una decina d’anni fa Stephen Witt nel libro Free. Il sottotitolo dice tutto: cosa succede quando un’intera generazione commette lo stesso crimine? Gli autoriduttori, quelli che negli anni ’70 dicevano che la musica doveva essere gratis e perciò se la prendevano entrando con la forza ai concerti erano dilettanti rispetto a noi modernissimi utenti digitali che a milioni abbiamo iniziato a scaricare musica gratuitamente, contribuendo a creare il pop in cui viviamo, e senza il bisogno di lanciare molotov ai pulotti, ma anzi sentendoci moralmente autorizzati a farlo.

Per cercare di trasformare in un business il mercato clandestino, sono arrivate le piattaforme di download e streaming – no amici, checché ne pensiate, non sono nate per fregare gli artisti. In parte ha funzionato, giacché il mercato è in crescita costante anche in Italia grazie allo streaming. E in parte no, perché la grande promessa di Spotify – quando una certa massa di persone sceglierà di pagare per ascoltare musica in streaming, tutti verranno rimunerati il giusto – non s’è ancora realizzata e chissà se mai ci arriveremo. Nel frattempo ci siamo abituati all’idea che la musica debba esserci data gratuitamente e ci siamo arrabbiati quando un milionario come il non tecnicissimo batterista dei Metallica ci ha detto che non è così, lui élite e noi popolo di autoriduttori digitali. È cambiato anche il rapporto con le merci, facendo cadere molti tabù sulla sovrapposizione fra arte (ehm) e commercio. E ci siamo assuefatti all’idea che un musicista in fondo sia un creator come un altro, uno che ci dà contenuti in cambio di like, commenti ed engagement qualche volta nei palazzetti, qualche volta online. Per non dire del fatto che ci siamo fatti prendere dall’eventismo (chiedo scusa per la parola) spendendo cifre assurde per i grandi concerti, pagando artisti già premiati dal mercato e schifando tutti gli altri considerati poveri sfigati.

Ed eccoci a sguazzare quasi felici e forse inconsapevoli in questo mare di merci che fluttua liquido come la musica su Spotify. Sotto ai post dei cantanti turned into influencer scriviamo eccitati: che divinità, stunning, fantastica, mi rispondi in DM? Imprenditori e imprenditrici presso sé stessi, ma non popolari a tal punto da lanciare o diventare essi stessi brand, i nostri cantanti pop devono pur campare in quest’economia digitale che prevede che la gente spenda generosamente aggettivi mentre scrolla lo smartphone, ma non soldi per ascoltare musica. E allora via a indossare il completo del marchio sportivo e a sollecitare un commento: ragazzi, come mi sta?

In molti casi non è nemmeno una necessità, qualcuno la chiama avidità, qualcun altro una assicurazione a fronte d’un futuro incerto, forse è semplicemente perché i soldi sono lì e sarebbe un peccato lasciarli sul tavolo. In un mondo in cui una divinità come Mina ha il coraggio di pubblicare una canzone intitolata Questa è TIM (non è una battuta, sta nel disco dell’anno scorso Dilettevoli eccedenze 2), ci sta che un ventenne qualunque porti a casa qualche decina di migliaia di euro facendosi fotografare con l’orologio piazzato sotto al naso. Va detto che i nostri cantanti sono per lo più corretti, mettono l’hashtag #adv come prescrive la legge. Qualche volta eccedono negli abbinamenti tra prodotti e didascalie, «la perfezione nell’incompletezza» per il gioiello, «la vita che va tenuta sulle spalle» per la borsetta, roba degna delle tizie che accompagnano foto scosciate con citazioni di Umberto Eco.

E intanto si fa musica, sì, ma come? Pochi giorni fa James Blake, eccolo qua l’artista con 10 milioni di ascoltatori mensili, ne ha scritto su X dicendo in buona sostanza che «il lavaggio del cervello ha funzionato e oggi la gente pensa che la musica sia gratis». La prima parte ha la vis polemica d’un Dibba dell’annata 2014, anche meno James, ma la seconda è perfetta. Se vogliamo musica di qualità, qualcuno deve pagarla. Il prossimo step, assicura Blake, saranno le canzoni prodotte dall’intelligenza artificiale e allora addio musicisti. Sullo sfondo, una gigantesca riallocazione di risorse economiche dai creativi ai giganti di Internet. Non c’è bisogno d’immaginare il futuro, soffre già oggi la qualità del nostro pop in un’economia dove la canzone rischia di non essere più lo scopo ultimo e il patrimonio più caro d’un artista, ma un contenuto per acchiappare follower a cui vendere cose per conto terzi oppure (chiedo di nuovo scusa) per diventare virali. Chi te lo fa fare di investire fatica, studio, soldi in un disco quando sai che, conti alla mano, guadagnerai più da una foto con in mano il cioccolato che regala dolcezza dal 1954 che da una canzone ascoltata da milioni (non migliaia, ma milioni) di persone?

La presenza dei musicisti deve essere alimentata continuamente sia per avere un numero di follower attrattivo per l’adv, sia per alimentare la macchina mangianovità di Spotify. L’ha detto molto chiaramente tempo fa il boss delle cerimonie musicali Daniel Ek. Parafraso: cari artisti, toglietevi dalla testa di fare un disco ogni tre anni come quando la gente spendeva 20 euro per il vostro pezzetto di plastica, affinché la vostra carriera funzioni nel nuovo sistema vi tocca pubblicare canzoni ogni poche settimane, dovete esserci di continuo. Produci tanto, investi poco, incassa altrove. Sono solo canzonette, ma c’è modo e modo.

È un dibattito che va avanti da talmente tanto tempo che persino i duri e puri si stanno stancando. Mat Dryhurst, artista, musicista, ricercatore e marito di Holly Herndon, uno di quelli che dicono da un pezzo che lo streaming è uno schema piramidale in cui più larga è la base e più ricco è il vertice, ha scritto dopo i tweet di Blake che le lamentele non bastano più, che ci vogliono soluzioni. E l’ha scritto, mi pare, con una certa amarezza. Di soluzioni pronte all’uso in giro non se ne vedono, nemmeno nei tentativi di costruire piattaforme di streaming orientate all’artista, ovvero che non distribuiscono i ricavi in base al numero complessivo di stream realizzati da tutti gli artisti (e quindi soprattutto dai ricchi e famosi), ma a quel che un utente effettivamente ascolta.

Lo so che la mediocrità non è un’invenzione dell’era digitale. Geni e schiappe ci son sempre stati, più schiappe che geni, è nella natura delle cose. Musica e commercio si sono sempre intrecciati com’è normale che sia. Ma il modo in cui la musica viene prodotta e commercializzata influisce sulla natura della musica stessa: più la deprezzi, meno ci investi. Ha quindi ragione James Blake quando suggerisce che ci siamo fregati con le nostre stesse mani pensando che la musica fosse gratis? Di sicuro c’è qualcosa di perverso in un sistema in cui io compro un energy drink dando soldi all’azienda che lo produce e che ne dà a sua volta una parte a un cantante che pubblicizza quella stessa bevanda. Non era più semplice e virtuoso per il sistema-musica darli direttamente al cantante in cambio della musica? In queste condizioni gli artisti sono incentivati a fare canzoni migliori del mercato in cui si muovono? Che canzoni possono venire fuori quando l’obiettivo (o uno degli obiettivi) è lanciare un trend su TikTok? Ne soffre anche la capacità del pubblico di distinguere la musica fatta bene da quella fatta male? Anzi, a forza di sentire questa musica non è forse cambiato il modo in cui la ascoltiamo e quindi i parametri in base ai quali la giudichiamo?

Siamo talmente assuefatti al dominio delle merci nella musica che non ci disturba più l’idea che anche i cantanti si mettano a vendere pandori. Mi viene in mente un’intervista che ho fatto cent’anni fa a Jovanotti. Si parlava di musica e commerci, lui tirò fuori le mele. In buona sostanza (vado a memoria) disse una cosa che mi parve saggissima, ma si era negli anni ’90 e c’era l’idea oggi naïf che a mischiarsi troppo col mercato l’artista in definitiva ci rimettesse. Jovanotti disse questo: io non mi chiamo fuori dal mercato, non pretendo che la mia musica sia diversa da questa mela, la vendo né più né meno come il fruttivendolo vende la sua merce, però non uso la mia musica, la mia immagine, il mio capitale di credibilità (ok, questa cosa del capitale di credibilità è mia) per vendere altro. Come dire: se tu ascoltatore fai un investimento emotivo nella mia musica, io poi non cerco di rifilarti la felpa griffata.

È cambiato qualcosa dal tempo in cui cantanti si limitavano a vendere le canzoni per gli spot pubblicitari, a intonare gli slogan del salame, a comparire nelle réclame. Facevano pubblicità per fare i dischi, oggi (esagero) fanno i dischi per fare pubblicità. E poi, all’epoca i messaggi musicali e pubblicitari viaggiavano su canali differenti. È possibile che non abbiate approvato lo spot di Victoria’s Secret di Bob Dylan, ma quando è uscito il disco successivo del cantante è probabile che l’abbiate ascoltato né più né meno come i precedenti, mettendo da parte ogni giudizio sull’opportunità di fare quello spot. Oggi, invece, l’identità degli artisti passa anzitutto dal social delle immagini: è lì che andiamo per sapere chi sono, che fanno, cosa pensano, qual è il loro posto nel mondo. E oggi su Instagram tutto si mescola, lo scatto privato, l’attivismo digitale, l’annuncio del nuovo videoclip, l’#adv. Una cosa rinforza l’altra, una cosa si mischia con l’altra. Col risultato che oggi le canzoni rischiano di avere lo stesso ruolo dei figli dei Ferragnez, sono l’esca per farti seguire il profilo Instagram coi consigli per gli acquisti.

So che non si torna indietro, ma ripenso alle parole di Jovanotti quando vedo l’occhio della cantante far capolino fra le due metà d’un telefonino pieghevole, quando m’imbatto nel rapper col maglioncino firmato, quando vedo la rappresentante canterina di cosmetici. E mi chiedo: ma a questi piacerà fare gli influencer part-time? Non si scocceranno a forza di posare col profumo e la catenina? Sono dentro a quella grande #adventura delle merci e delle identità che è Instagram da troppo tempo per pensare altrimenti? Non avranno voglia di fare musica e basta? E così ogni tanto mi scopro a fantasticare su un piccolo moto di ribellione, su una cantante che molla la borsetta colorata e dice: ora basta, sono un’artista, voglio far musica, ridatemi un pubblico pagante, ridatemi il Novecento.

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