Sabato scorso sotto una pioggerella che ha raffreddato un settembre insolitamente caldo, il Museum of Pop Culture di Seattle, o MoPop come lo chiamano da queste parti, ha aperto le porte per l’ultimo giorno della mostra sui Nirvana Taking Punk to the Masses. Dopo 14 anni di successi, il museo ha annunciato un mese fa la chiusura dell’esposizione e un gala d’addio.
Migliaia di fan hanno colto l’occasione per un pellegrinaggio finale fra le opere di Kurt Cobain, chitarre distrutte e intatte, abiti di scena, fotografie rare, lettere personali, la scaletta di MTV Unplugged e molto altro, disposti in ordine cronologico per raccontare la parabola della band dagli inizi punk-rock ad Aberdeen fino all’ascesa fulminea e alla tragica e improvvisa fine.
La mostra, che ha anche puntato i riflettori sul la scena grunge orbitava attorno ai Nirvana – pensiamo a Screaming Trees, Tad, Mudhoney, ecc – è stata ospitata dall’Experience Music Project, poi rinominato MoPop, in varie forme per quasi 15 anni. Era un’attrazione turistica a Seattle, allettando i visitatori del vicino Space Needle. A più di 30 anni dalla morte di Cobain, i Nirvana sono ancora popolari e sono anzi diventati non solo la rock band simbolo di queste zone, ma forse di tutta l’America. E allora come mai la mostra chiude proprio adesso?
«È un insieme di cose», spiega Jacob McMurray, curatore del MoPop e ideatore della mostra. «Un’esposizione è un organismo vivente in costante evoluzione. Volevo che fosse orientata alla comunità e che fossero le persone che hanno fornito gli oggetti a raccontare la storia. Oltre 20 soggetti ci hanno fornito pezzi e in più ci sono quelli della nostra collezione permanente. Ora ci sono prestatori che vogliono indietro le loro cose perché ne sentono la mancanza o perché vogliono venderle all’asta oppure pensano a una diversa destinazione».
In ogni caso, nota McMurray, «la mostra sui Nirvana è rimasta aperta più a lungo di qualsiasi altra, qui. Usiamola come un’opportunità per riscrivere il nostro racconto sulla musica di Seattle facendo una mostra che includa ancora i Nirvana e tutte queste altre band, ma anche storie più ampie e inclusive». Ovvero storie che trascendono il grunge e hanno a che fare con l’hip hop in città, col glam rock degli Ze Whiz Kidz, coi Kingsmen da Portland, quelli di Louie Louie, e con molti altri artisti che hanno giocato un ruolo cruciale nella storia musicale della zona.
«E se creassimo una mostra» si chiede McMurray «che racconti da 15 a 20 storie tratte da varie poche e generi, includendo sempre il grunge, che è in fin dei conti la cosa che i turisti vogliono vedere e la prima che viene in mente quando si pensa alla musica di Seattle, ma in cui possiamo mettere in luce storie importanti che magari non hanno la stessa visibilità? I Nirvana fanno parte del dna del MoPop e ci saranno sempre, ma come museo vogliamo continuare sempre a raccontare storie diverse».
I pezzi preferiti di McMurray sono la lettera scritta a mano da Buzz Osborne dei Melvins al suo amico Krist Novoselic in cui prevede che «quel ragazzo, Cobain, potrebbe avere un qualche futuro nella musica», e i resti riasssemblati di una chitarra che Cobain ha fatto a pezzi in un dormitorio dell’Evergreen State College nel 1988.
«Forse c’erano 50 persone nel pubblico e lui probabilmente non aveva abbastanza soldi per pagare l’affitto, figuriamoci per comprare un’altra chitarra, ma per qualche ragione l’ha comunque distrutta: puro nichilismo punk», racconta McMurray. «È incredibile che: 1) lui l’abbia fatto e 2) tra il pubblico ci fosse qualcuno talmente esaltato da prendere i resti di quella chitarra e conservarla per altri dieci anni prima che la acquisissimo noi». Anche per la guida del museo Neal Kosaly-Meyer quella lettera e quel passaggio «bello e profetico» sono speciali (i pezzi preferiti da chi scrive: il sacro testo della scaletta stampata di MTV Unplugged custodita dietro a una teca in plexiglass e le prime prove fotografiche del bambino nudo sulla copertina di Nevermind, con la nota scritta a mano: «Se qualcuno ha un problema col suo pisello, possiamo rimuoverlo»).
Oltre a un ultimo giro per la mostra, la cerimonia di chiusura di sabato ha proposto attività e ospiti. Non era annunciata la sorpresa più grande, ovvero l’apparizione di Krist Novoselic, che ha tenuto un discorso prima del panel. «Ho iniziato a essere coinvolto con l’allora Experience Music Project, era semplicemente un gran posto per conservare la mia roba. Tipo: perché questa chitarra è sotto il mio letto? Perché sto usando questa chitarra a un concerto quando rischio di perderla e che venga rubata? Stiamo parlando dei bassi che ho suonato coi Nirvana”. Così li ho donati al museo. E alla gente sono piaciuti. È stato lungimirante pensare: il basso che ho comprato per 300 dollari ora è un pezzo da museo e deve stare in un luogo a temperatura controllata e con le appropriate misure antincendio».
Dopo il panel, Novoselic è rimasto a chiacchierare e a farsi fotografare con qualunque adulto o adolescente si avvicinasse, con o senza t-shirt dei Nirvana addosso. Gli ho chiesto come si sentiva per la chiusura della mostra. «Grato», ha detto e non perché si sta riappropriando delle sue cose. «Sono grato perché tutto questo», ha spiegato indicando il posto ancora affollato, le decine di fan in attesa di incontrarlo, le persone in coda da ore per l’ultima visita, «dimostra quel che abbiamo significato per la gente».
La mostra copre solo sette anni, dal 1988 al 1994. Solo per meno della metà di quel tempo la band è stata mainstream. La mostra riportava una citazione di Cobain sul perché ha scelto il nome Nirvana: «Secondo il dizionario Webster, “nirvana” significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno, e si avvicina alla mia definizione di punk-rock». Durante la sua visita guidata, a proposito del nome Kosaly-Meyer ha citato vari testi buddhisti. L’astrofisico Michio Kaku lo ha detto con poche parole: «Che non finisce mai, senza inizio, né fine».
