Gli uomini preferiscono le bionde, chiedete a Quincy Jones | Rolling Stone Italia
Il talento di Mr. Q

Gli uomini preferiscono le bionde, chiedete a Quincy Jones

Beppe Cantarelli, che ci ha suonato assieme, racconta nel suo libro il tempo passato col maestro, che compie oggi 90 anni. Un ritratto fuori dal mito: l'incontro, le prove, Miles Davis portato via di peso dal palco, le donne. Un estratto

Gli uomini preferiscono le bionde, chiedete a Quincy Jones

Quincy Jones e Beppe Cantarelli

Foto gentile concessione di Beppe Cantarelli

Così come Mina era – ed è – la mia più grande interprete, Quincy Jones era il mio idolo come arrangiatore e produttore. Quando, nell’anno del Signore 1981, a Milano ho conosciuto la sua cantante di allora, Patti Austin, e il suo business affairs manager, Pam McDowell Crocetti, fu l’occasione perfetta che aspettavo o, meglio, “sognavo” da anni, per conoscerlo di persona. Andai a Los Angeles, nel settembre di quell’anno e, dopo averlo incontrato a casa sua, nella sua villa a Bel Air, mi invita, molto gentilmente, a seguirlo nei mitici Westlake Audio Studios, durante i mixaggi di un album della Austin che stava producendo. Dopo avergli fatto ascoltare, mi ricordo in auto mentre andavamo da casa sua in studio, alcuni brani di Mina che avevo composto, arrangiato e prodotto, il suo feedback fu molto semplice, forse laconico, ma senz’altro chiaro e pragmaticamente assai down-to-the-point: «Beppe (gli americani dicono “Beppi”) quello che mi hai appena fatto sentire non è male. Se però vuoi far successo e avere riconoscimenti nel music business americano, devi muovere il tuo culetto e venire qui! L’Italia è stupenda, specialmente quando si tratta di vacanze e divertimento, ma il centro mondiale del nostro business è da queste parti».

E così, valigie alla mano e legate per bene col famoso spago-dell’emigrante-ricolmo-di-speranze, ad aprile dell’anno del Signore successivo, 1982, sono emigrato a tempo pieno nella City of Angels dove, pochi mesi appresso, il buon Quincy mi invita a partecipare al suo tour statunitense come chitarrista solista. Sarà stato il mio solerte e sempre generoso bagnino-Aladino, saranno state le canzoni di Mina, saranno forse state le risate che ci siamo fatti io e Mister Jones nel suo palchetto all’Hollywood Bowl dove, quella sera stessa dopo averlo appena conosciuto, mi invita a cena a vedere un concerto di Miles Davis – che, “fuori” di testa… e quant’altro… ancor più dei miei “balconcini” – quella notte si presenta sul palco solo a metà concerto, letteralmente portato a braccetto e di peso da due suoi collaboratori; suona solo quattro note di numero, quindi, viene riportato fuori e il suo concerto è terminato dai suoi musicisti – sarà stato quel che sarà stato… sta di fatto che Mr. Jones mi prende letteralmente sotto-la-sua-ala e mi offre una chance che nemmeno nei miei sogni più audaci e inverosimili avrei mai osato, men che meno sperato di avere una volta nella mia vita.

E a proposito di sogni ad occhi aperti, ho rivisto ultimamente un video amatoriale che fece Pat McDowell, il fratello di Pam Crocetti, alla prima delle due prove-audizioni che feci con e per Quincy Jones (le prove furono solo due, in quanto tutta la sua stellare band di musicisti erano reduci da un suo tour in Giappone e Sud Asia di alcuni mesi prima, quindi, l’unica new-entry-senza-familiarità-con-il-repertorio ero io… che mi leggevo, a prima vista, le partiture del Maestro Jones). Iniziamo la prova con il primo brano, The Dude, che oltre ad essere il titolo del suo corrente album che ha appena vinto ben sette Grammy Awards, dà anche il titolo al suo tour. L’introduzione è costituita da alcune battute di chitarra distorta che inizio a suonare e sul cui riff si sovrappone un fraseggio di fiati e orchestrazione ritmica di ouverture che crea una preparazione e attesa adrenalinatissima all’inizio del brano; a quel punto, il tutto sfoga in un ritmo funky e, prepotentemente, groovy portato, dapprima, dalla batteria di J.R. Robinson e dal basso-slap di Louis Johnson e, dopo le loro prime quattro battute, incalzato da una chitarrina funk-rock che avrebbe dovuto eseguire il sottoscritto. Dal momento che a battuta numero 5, il sottoscritto non entra, lo zio Quincy blocca tutti e, fra i pronti risolini divertiti e maliziosi degli altri musicisti primi-della-classe-numero-uno-al-mondo, mi si avvicina per controllare la mia partitura dicendomi: «Ehi, ragazzo, cos’è successo? Perché non suoni? Questa introduzione non dovrebbe essere diversa dalla registrazione del disco; dovrebbe esserci tutto scritto. Fammi vedere la tua partitura… non mi ricordo di aver apportato modifiche rispetto alle parti originali come, invece, ho fatto in altre canzoni dove ho scritto dei cambiamenti qua e là, specificatamente per le performance dal vivo, sai com’è…».

Riesco a farmi capire alla bell’e meglio con il mio limitatissimo inglese di allora: «No, Quincy, non preoccuparti! La partitura è giusta e non ci sono discrepanze: sono io che non sono entrato affatto. Devi sapere che questa tua musica l’ho suonicchiata e scimmiottata in Italia per anni e l’ho pure sognata. Sentirla, adesso, eseguita come Cristo comanda da ‘sti musicisti che si può dire l’abbiano inventato questo sound mi ha catapultato letteralmente in estasi. Mi sembrava di sognare e godevo talmente tanto che mi son dimenticato di entrare a battuta 5 come da partitura. No, problem, non preoccuparti, nessuna discrepanza con la partitura… ti prometto che sarò più concentrato!».

La mia infantile sincerità fa sorridere di cuore il mio idolo lasciando, però, a bocca aperta alcuni degli invidiosi e “territoriali” musicisti come Jerry Hey, il famoso trombettista-arrangiatore di Quincy, probabilmente impreparato a cotanta genuina umiltà e entusiasmo made-in-Padus-amoenus abituato, com’è, alla asettica giungla di Hollywood. La prima prova è anche una audizione a tutti gli effetti. Quando Quincy mi invita, mi dice subito e senza mezzi termini: «Ehi Beppe, vieni alla prima prova. Se funzioni nel groove-ritmo-delle-cose (tradotto = se sfagioli giusto), sei parte del gruppo e ti fai il tour con noi!»).

L’audizione-prima-prova con Quincy e la sua super-duper-band, alla fine, si rivela un successo! Mi accerto di iniziare a suonare, come da partitura, e cerco di non farmi più distrarre dal sound e dalla performance di quei formidabili musicisti… Anzi, una volta superato lo shock iniziale, suonare a quei livelli diventa, per me, ancor più facile! Con un sound e un groove a quei livelli, non si può sbagliare, men che meno non dare il massimo! Te lo tirano fuori, il massimo!… Adrenalina pura! Beh, inutile dirlo, quel tour, quell’esperienza fu talmente extra-terrestre-extra-galattica-extra-ordinaria-extra-tutto che potrei scriverci un libro… anche perché ne ricordo i momenti in modo così chiaro e sorprendentemente dettagliato che potrei star qui e scrivere pagine e pagine! Anche se, adesso, mi sovviene di un momento troppo simpatico da essere tralasciato! Siamo all’aeroporto di Dallas, dopo il concerto…

Dal momento che l’aereo, per rientrare a Los Angeles, è in forte ritardo, decidiamo di cenare in loco… Quincy, dopo un buon rosso italiano, mi confida che lui, insomma, ama le bionde! Dal momento che il mio inglese non è affatto fluente (anzi…), subito capisco che ami la birra “bionda”, ma lui, ridendo divertito, mi spiega che no, ama proprio le bionde, bionde… le donne bionde! Tant’è vero che la sua attuale moglie che ho conosciuto alle prove, l’attrice Peggy Lipton – sì, avete pensato giusto, quella della dinastia del famoso tè – è biondissima.

«Caro Quincy, come ti capisco… la mia seconda moglie è bionda come lo era la prima!».
«Beh, questo è già un buon segno, caro mio! Vedo che anche tu prometti bene!».
«Come “prometti bene”? Mi sono appena risposato e già mi vuoi dare per disperso?!».
«Ma, io, vedi… le bionde son sempre stata la mia passione… non ho paura ad ammettere che la mia è quasi un’ossessione, una malattia! Non mi ricordo più quante me ne sono sposate in giro per il mondo! Senza contare, poi, i figli che ho sacrosantamente procreato con ognuna di loro!».

Avevo allora trent’anni e, accanto a lui, ero un pischello… ciononostante resto allibito assai e decisamente spiazzato dalla sua affermazione. Lui intuisce la mia esitazione, questa volta non causata solamente dalla mia mancanza di padronanza della lingua inglese, quindi affonda, incalzando…

«A un certo punto della mia vita… per togliermi la voglia di bionde…».
«No, scusa Quincy… ma mi stai prendendo per i fondelli?!».

E lui, ridendo divertito… «Non son mai stato più serio in vita mia! Le bionde mi fanno impazzire! Io, appena vedo una bionda… mi puoi mettere nell’arena con il torero!».
E mi gesticola il movimento del torero che fa passare il toro… mentre io comincio a preoccuparmi… anche perché… «Cazzo, Quincy, cos’è, mi devo preoccupare qui?! Sai com’è… anche mia moglie è bionda, dopotutto!».
«No, no! Le bionde, lasciatelo dire da un esperto in materia… le bionde sono molto meglio quando non sono sposate!».
«Beh, questo mi rincuora un attimino! Eh, giusto… mi dimenticavo… a te piacciono sì bionde ma, come dicevi poc’anzi, te le vuoi anche sempre sposare e farci figli… cascasse il mondo!».
«Ecco, pensa che ad un certo punto, ero più giovane e di lavoro ne avevo di meno! A un certo punto, sono andato a vivere in Svezia! Lì, di bionde, ti ci puoi togliere la voglia o no?!».
«Ma dai, mi stai prendendo per il culo!»
«No, no, ti giuro, Beppi! Vivevo a Parigi da un paio d’anni e a un certo punto ho deciso di trasferirmi a Stoccolma apposta e squisitamente ed esclusivamente per quello!». Non è esattamente la cosiddetta sindrome di Stoccolma… ma una fattispecie-variante decisamente molto simile!

Lasciatemene raccontare un’ultima con Michael Jackson e Quincy Jones. Ve lo prometto, non sarò prolisso. Agosto dell’anno del Signore 1982. Hotel Beverly Hilton a Beverly Hills. Tributo a Quincy Jones. La crème de la crème di Hollywood è presente, seduta negli enormi tavoli rotondi imbanditi a festa nel famoso salone dei congressi dell’hotel, dove si tengono alcune delle manifestazioni più altisonanti dello show business statunitense e internazionale. Fra le centinaia di volti noti, Steven Spielberg, Jack Nicholson, Harrison Ford, Michelle Pfeiffer, tanto per citarne alcuni. Presentatori della serata sono Jane Fonda e Michael Jackson. La super band di Quincy Jones, da lui diretta, esegue un paio di pezzi appena prima della solenne premiazione (come vedete, sono telegraficissimo e conciso al massimo, così non vi meno il can per l’aia più di tanto). Dopo l’ultimo brano – una volta ancora quello Stuff Like That dove Michael si unisce a noi a cantare e dove io, alla fine, uscendo di scena e danzando le coreografie di Michael assieme agli altri musicisti e assieme a Michael stesso, vedo di non cannare troppi passi – Quincy presenta tutti i musicisti della band che rientrano sul palcoscenico. Né più né meno come fa sempre alla fine dei concerti…

Come in tutti i concerti di quel tour, io uso due amplificatori, prototipi non ancora in commercio (collegati fra di loro in stereofonia) che un mio sponsor di allora, la Peavey Electronics, dalla remota Meridian nel Mississippi, mi ha costruito ad hoc per quel tour e per il sound richiesto per quel genere musicale (la Peavey era rinomata nell’ambito della musica country e non, certamente, r&b). Me li procura su ogni palcoscenico e in ogni location al mondo mi trovassi a suonare ‘ste cazzo di chitarre con Quincy Jones. Il nome di quegli amplificatori era Bandit (molto probabilmente, molti voi lettori, soprattutto se siete chitarristi e/o musicisti, riconoscerete o vi ricorderete questo modello della Peavey che ha poi iniziato a circolare, in regolare produzione, negli anni ’80).

«E alle chitarre, direttamente, fresco fresco dall’Italia… Beppi F. Cantarelli e i suoi Banditi! Senza connessioni strane, qui!».

E aveva ragionissima! Quando alcuni anni dopo, un certo John Gambino (sì, avete collegato giusto, quello della arcinota famiglia newyorkese) mi rivolge – tramite comuni amici – un cordiale invito a cena che minchia non posso rifiutare e mi chiede papale papale, dopo che il mio nome – a parte il tour con Quincy Jones – aveva già fatto le sue prime apparizioni nelle altisonanti e ambite classifiche discografiche statunitensi: «Ma a tia… chi tti protegge?». La mia risposta fu alquanto semplice e, probabilmente visto il contesto, innocua e assai deludente: «Per strano e unglamorous che ti possa sembrare…» puntando timidamente il mio ditino indice verso l’alto (il cielo, per l’esattezza) «qualcuno, upstairs… al piano di sopra… No strings attached, though! Senza particolari legami né obbligazioni di sorta sottoscritti, però!».

E quando, tornando una volta ancora al tributo a Quincy Jones nella calda estate dell’82, finito lo spettacolo, mentre mi sto cambiando nei camerini del backstage e entra un trafelato-eccitato-meravigliatissimo nonché balbuziente più del solito Tony Renis e mi spiaccica, fra mille sillabe incrociate e appiccicate alla cazzo: «M-m-m-a B-b-eppino?!… C-c-he ‘c-c-c-cazzo ci fai… t-t-tu qui?!». Quincy, che pure conosce da lunga data lo zio Tony, sorridendo fra il meravigliato e il sornione… da vecchio volpone di Holly-wood-Holly-weird gli risponde: «Ehi, ragazzo… ma non ho appena detto, pubblicamente e ufficialmente, “Beppi F. Cantarelli e i suoi Banditi! Senza connessioni strane, qui?”, o mi sto ricordando male?!»). E la mia rettifica non si fece attendere: «Avevi…e hai… disgustosamente ragione!».

Da Mina canta Cantarelli, Cantarelli canta Mina di Beppe Cantarelli (Teorema Edizioni).

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