Rotters significa mascalzoni, malandrini. Per l’edizione italiana del libro di Jonathan Coe si è scelto invece brocchi e The Rotters’ Club, il best seller che descrive la vita di un gruppo di adolescenti nella Birmingham degli anni ’70, è diventato La banda dei brocchi. Quel Rotters’ Club può essere inteso come Club degli sfigati e simpaticamente sfigati sono il protagonista del libro Benjamin Trotter (occhio al gioco di parole) e i suoi. Un po’ sfigatelli sono anche Richard Sinclair, Dave Stewart, Pyp Pyle e Phil Miller, nel senso che purtroppo la musica degli Hatfield and the North non è andata oltre la cerchia degli appassionati, nemmeno in un’epoca nella quale in classifica ci finivano pipponi come Tales from Topographic Oceans. Ma quel momento stava per finire e Sinclair e i suoi si sono ritrovati a patire la fame per un paio d’anni prima di mollare il colpo e scegliere altre strade per sopravvivere.
Il titolo scelto per il secondo album della band che avevano formato nel 1973, era quindi eloquente: quello da rotters era il loro destino, non sarebbe andata diversamente. Eppure, vendite o non vendite, The Rotters’ Club è pieno di gusto, originalità e raffinatezza, ed è uno dei grandi capolavori inglesi degli anni ’70, nonché punta di diamante di quella che è chiamata scuola di Canterbury.
Pyle (batteria) viene dai Gong, Stewart (tastiere) dagli Egg, Miller (chitarra) dai Delivery e dai Matching Mole, Sinclair (basso e voce) dai Caravan. Per una serie di giochi del destino i quattro si ritrovano assieme dopo avere concluso le esperienze con i gruppi citati. Ognuno ha una sua particolarità: Pyle un drumming aereo e fantasioso, Stewart ha fatto sua la lezione di Jarrett, Hancock e Corea alla corte di Re Davis, Miller è un Fripp ancora più immaginativo e Sinclair porta in dotazione le sue canzoni pop-jazz stralunate e ironiche, insieme a un suono di basso gommoso e lirico.
Messe insieme teste e mani, si decide il nome del gruppo, qualcuno dice suggerito da Mike Patto della band omonima, altri da Barbara Gaskin, compagna di Dave Stewart e, lo vedremo, parte attiva nella nuova formazione. Sia come sia, guidando sulla M1, subito fuori Londra, il cartello balza all’occhio: “Hatfield and the North”, ovvero verso la cittadina dell’Hertfordshire e lande più o meno sconosciute, più o meno evocative, per un tranquillo abitante della Canterbury negli anni ’70, come si crede siano i quattro Hatfield. In realtà l’unico a provenire da lì è Richard Sinclair, uno dei fautori del blasonato Canterbury sound, insieme ai suoi Caravan, a Robert Wyatt e ai Soft Machine, un perfetto amalgama di jazz, pop e psichedelia dalle tinte pastello e dalla sempre riconoscibile ironia sonnacchiosa-fumata. Con un suono immediatamente riconoscibile, soprattutto grazie a un fuzz applicato all’Hammond, idea semplice ma d’effetto da parte del compianto Mike Ratledge che tutti i canterburiani faranno loro. Da lì ramificazioni a iosa e proposte che, pur rispettando determinati parametri, si faranno sempre più eterogenee.
Prova ne è il primo album Hatfield and the North. L’impianto jazz-rock si ispessisce, qua e là echi avantgarde-minimalisti e, come ciliegina sulla torta, il canto sornione di Sinclair a condensare il tutto in un amalgama di gioiosa malinconia. I tetti al tramonto (o all’alba) in copertina del primo album omonimo, sormontati da figure pittoriche, dicono già tutto. C’è la voglia di elevarsi con la ricchezza di una musica al tempo stesso familiare e avventurosa, con i quattro accompagnati da un Robert Wyatt reduce dall’incidente che lo ha privato dell’uso delle gambe e da un coro femminile, le Northettes, composto da Gaskin, Amanda Parsons e Ann Rosenthal. Le tre forniscono un apporto determinante quando si tratta di ammantare il sound cangiante della band di toni soffusi, con armonie particolareggiate che, anni dopo, influenzeranno l’impianto vocale di band come Stereolab.
Il primo album fa sperare in bene, pochi però si aspettano l’eccellenza assoluta del secondo, pubblicato il 7 marzo di 50 anni fa, con una copertina ispirata a una foto di Joan Crawford con una diva d’altri tempi mentre autografa una foto che ritrae un’umanità varia, un proletariato non ancora toccato dal progresso, i rotters del titolo. L’eleganza jazz di Dave Stewart è trasfigurata nelle pop song di Richard Sinclair. Esemplare è Share it, la voce sorniona che accompagna un solo di sintetizzatore alla Herbie Hancock a scheggiare la forma canzone, salvo poi immergersi nella concatenazione (occhio ai titoli) Lounging There Trying / (Big) John Wayne Socks Psychology on the Jaw / Chaos at the Greasy Spoon / The Yes No Interlude. Strumentali con incastri Zappa-dadaisti, i fiati di Jimmy Hastings (Caravan), Mont Campbell (Egg), Lindsay Cooper e Tim Hodgkinson (Henry Cow) e folate di contemporanea che vira in una straniante chiave pop, nel senso che è musica difficile ma arriva, cavolo se arriva, con la sua aria di qualcuno che ti sta dicendo una cosa importante, ma non si prende del tutto sul serio.
Poi due Sinclair top songs come Fitter Stroke Has a Bath – un testo che l’autore descrive come un fumetto di Robert Crumb che prende vita – e Didn’t Matter Anyway, che è una delle cose più belle uscite da Canterbury, dolcezza sospesa virata Mellotron e Richard nostalgicio di un amore (“You’ll be in my dreams, goodnight, goodbye, bye for now…”). The Rotters’ Club si chiude col tour de force di Mumps, oltre 20 minuti in quattro sezioni, con le Northettes a sospirar bellezza e un amalgama musicale in piena libertà, seppur costruito, battuta dopo battuta, con rigore matematico, spaziando a destra e manca tra tempi dispari, armonie prima dodecafoniche, poi di dolce-amara malinconia, sprazzi melodici, chitarra e piano elettrico in un puzzle tra terra e cielo.
Tanta roba, forse troppa per un disco che, da vero manifesto nerd quale è, arriva solo a un misero quarantatreesimo posto in classifica nel Regno Unito. E dire che per pubblicarlo si è scomodata la Virgin, con un Richard Branson in piena scoperta dei migliori talenti in circolazione. Ma non c’è verso, è musica troppo raffinata per colpire nel profondo gli ascoltatori nel 1975, in piena febbre glam e, da lì a breve, in delirio punk.
Dopo una manciata di concerti gli Hatfield si ritrovano con le pezze al culo e le famiglie da mantenere. Richard Sinclair si reinventa falegname (salvo poi tornare a calcare i palchi con i Camel), gli altri non demordono cambiando ragione sociale in National Health. Tre album sempre più spinti verso il jazz-rock, ottimi anche se orfani della leggiadria di Sinclair. Ma The Rotters’ Club non se ne andrà via dal cuore degli appassionati e quando nel 2001 Jonathan Coe decide di rendergli omaggio, a suo modo, si capisce ancora di più che razza di pezzo di storia sublime è il secondo album degli Hatfield and the North. In poche parole, musica che evoca un languore nostalgico per qualcosa che non è mai avvenuta, ma di cui si sente la mancanza.