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Glenn Hughes, come James Brown che canta coi Metallica

Ha fatto parte di Deep Purple e Black Sabbath, ha convissuto con David Bowie ed era molto amico di John Bonham. Il soulman prestato al rock ripercorre con noi le tappe fondamentali della sua carriera

Foto: Eric Duvet

Lo chiamano The Voice of Rock, ma lui preferisce definirsi The Voice of Soul perché dietro ai riff duri e alle urla c’è sempre stata un’anima funk e rhythm & blues, più Detroit che Birmingham. Glenn Hughes, tuttavia, non è semplicemente una delle voci più riconoscibili di sempre. È stato un collante, un ponte tra epoche e generi, tra giganti del soul, del funk e del rock duro. Spesso presente nei crocevia della storia del rock, ha tenuto insieme universi diversi: il cantante capace di portare il groove di Detroit dentro i Deep Purple, l’anima soul che ha dato profondità ai Black Sabbath di Tony Iommi, l’amico che scriveva con David Bowie e improvvisava con John Bonham, passando per la stagione sottovalutata ma straordinaria dei Trapeze. O ancora il cantante che un giorno ti trovi accanto a Robbie Williams e il giorno dopo in un’arena piena di fan del metal.

Hughes ha attraversato ogni epoca senza mai smettere di reinventarsi. Dalla Black Country, cuore industriale dell’Inghilterra, fino ai palchi più grandi del mondo, è stato ovunque ci fosse qualcosa di importante da vivere. Non sempre al centro dell’attenzione, ma sempre nel posto giusto: come se la storia del rock non potesse prescindere dalla sua presenza. Sopravvissuto agli eccessi, rinato spiritualmente, Hughes oggi porta sulle spalle una carriera che è più di una discografia: è un mosaico fatto di incontri, di riscatti e di reinvenzioni. L’abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo nuovo album solista Chosen, a nove anni da Resonate, e ne è venuto fuori un viaggio attraverso ricordi, amicizie leggendarie e riflessioni di un uomo che, ogni volta, era esattamente dove bisognava essere e che ha saputo trasformare la sua voce in un’arma di redenzione.

Il nuovo album, racconta Hughes, nasce da un’urgenza interiore. «È il riflesso di chi sono oggi. Ho voluto parlare di spiritualità, di vivere il presente, di affrontare la paura senza restare prigioniero del passato o del futuro. Il mondo è incerto, a volte spaventoso. Ho sentito il bisogno di rispondere con la pace nei testi e l’energia nella musica. Per me ogni album è un diario: questo racconta la mia serenità interiore». Sono passati ben nove anni dall’ultimo lavoro solista, così viene da chiedergli perché un’attesa tanto lunga. «Sono stato assorbito da tanti progetti, tour, collaborazioni. Non mi sono mai fermato un attimo. Ma a un certo punto ho capito che avevo bisogno di tornare a raccontare la mia storia». E se oggi torna con un album solista, non significa che metterà da parte gli altri progetti, anzi. «Con i Black Country Communion stiamo preparando il sesto album, che uscirà l’anno prossimo. Abbiamo appena registrato un live in Europa che vedrà la luce a breve. Con Joe Bonamassa, Jason Bonham e Derek Sherinian c’è un’intesa unica, e non vedo l’ora di portare nuova musica sul palco».

Ogni suo disco, dice spesso, è un capitolo di una sua biografia mai scritta. «È così. Da 15 anni studio buddismo, lavoro molto sulla mia crescita spirituale. Trent’anni fa ho cambiato vita, ho scelto la calma, la serenità. Questo album racconta proprio questo: la scelta di vivere il presente». Cresciuto nel cuore industriale dell’Inghilterra, Hughes ricorda l’atmosfera di Birmingham come una Detroit europea. «Era una zona operaia, piena di musica. Trapeze, Sabbath, Judas Priest, metà dei Led Zeppelin… Era nell’aria. C’era qualcosa di speciale in quel posto».

Con i Trapeze, fondati a 17 anni, ha scoperto chi era davvero. «All’inizio suonavamo per cinque persone a sera, poi siamo arrivati a 10 mila. Resta il successo più grande della mia vita: ho capito che volevo solo cantare, suonare e scrivere». Poi sono arrivati i Deep Purple, all’apice del successo e alla ricerca di un nuovo bassista e di un cantante. «Con me hanno trovato entrambi, anche se sono entrato quando alla voce c’era David Coverdale. Mi sono ritrovato ad essere un cantante soul in una band hard rock, la prima di innumerevoli volte. Mi hanno messo sotto osservazione per un anno prima di chiedermi di entrare, sapevano chi ero. Ho portato nei Purple groove, blues, soul. Non ero un cantante metal, e non lo sono neanche oggi. Eppure la gente mi conosce come la voce del rock».

Con Coverdale com’erano i rapporti? «Con Ritchie Blackmore era una lotta, io e David invece non eravamo soltanto due cantanti chiamati a dividere lo stesso palco: eravamo amici veri. Cantare insieme era una gioia, non una lotta tra ego. Eravamo giovani, affamati, e in quel periodo difficile dei Purple – segnato dall’uscita di Blackmore e da tensioni interne – il nostro legame umano ha fatto la differenza. Ci sostenevamo a vicenda, dentro e fuori dallo studio, e credo che quella intesa si senta ancora oggi nei dischi. Non a caso, siamo rimasti legati: ci sentiamo ancora e il rispetto reciproco è immutato».

Quando Blackmore ha lasciato i Deep Purple, la band è andata avanti con Tommy Bolin. «Era un chitarrista completamente diverso, un’anima libera. Capisco perché quel disco è stato frainteso: la gente vedeva il nome Deep Purple sulla copertina, ma senza Blackmore non sembrava lo stesso gruppo. È come se Jimmy Page avesse lasciato i Led Zeppelin e fosse arrivato Joe Walsh: gran musicista, ma è un’altra cosa». Eppure Hughes difende ancora oggi Come Taste the Band: «Per me resta un album fantastico, pieno di energia e di idee nuove. È stato giudicato male solo perché uscito a nome Purple, ma se fosse uscito come progetto diverso sarebbe stato considerato un capolavoro. Tommy aveva un talento straordinario e una sensibilità unica. È una delle pagine più sottovalutate della storia della band, ma io ne vado fiero».

Hughes è stato anche nei Black Sabbath. «Era come immaginare James Brown nei Metallica», dice ridendo. «Amo Tony Iommi, è un fratello, ma non ero un cantante metal. Quando abbiamo registrato Seventh Star doveva essere il suo album solista, solo all’ultimo l’etichetta ha deciso di farlo uscire a nome Black Sabbath. Non era un disco tipicamente Sabbath, ma rimane speciale».

Ancora più speciale per Hughes è Fused, inciso con Iommi a metà anni 2000. «Lo considero uno dei migliori album di quel decennio. Tony ed io ne siamo fieri, ma non abbiamo mai potuto portarlo in tour: proprio quando è uscito, Sharon Osbourne ha chiamto Tony per riformare i Sabbath, e così la promozione è stata azzerata. È una delle cose che ancora oggi mi fanno arrabbiare: Fused meritava molto di più».

La conversazione si sposta inevitabilmente su Ozzy: «Stavo facendo un’intervista quando mi è arrivata la notizia che era morto. È stato uno shock: sapevamo che non stava bene, ma quando perdi qualcuno così vicino non sei mai davvero pronto. Era un grande amico, che ha segnato la storia del rock, ma soprattutto la mia vita». La mancata presenza al tributo di Birmingham è una ferita aperta. «Tony mi aveva invitato, ma proprio quel giorno stavo tornando a casa dal tour. Non ce l’ho fatta a esserci, e mi è dispiaciuto tantissimo».

Glenn ha vissuto a stretto contatto con due giganti: David Bowie e John Bonham. «Bowie ha vissuto a casa mia nel 1975. Stavo per lasciare i Deep Purple dopo l’uscita di Ritchie Blackmore, è stato David a convincermi a restare. Mi ha influenzato profondamente: mi ha cambiato il look, abbiamo scritto insieme, eravamo legatissimi. Voleva persino che cantassi su Young Americans, ma non è stato possibile. Amava il mio lato soul, e io adoravo il suo». Con John Bonham il legame era altrettanto profondo. «Era uno dei miei migliori amici. Veniva a suonare con i Trapeze, lo faceva appena aveva un day off. Ho conosciuto suo figlio Jason quando aveva 3 anni. Fuori dal palco John era un uomo generoso, divertente. C’erano Bonzo e John: io li conoscevo entrambi».

Negli anni ’80, Hughes ha rischiato di perdersi. «Non ricordo molto di quel periodo, bevevo troppo, facevo cose sbagliate. Nel 1991 ho avuto un infarto la notte di Natale: ho quasi perso la vita. Da allora ho cambiato tutto». Ha continuato a cercare sfide, senza rimanere legato all’immaginario che lo voleva a cantare per sempre vecchie hit. «Amo collaborare con artisti diversi, non solo rock. Come Robbie Williams: era un fan di una canzone che avevo fatto con i KLF, mi ha chiamato e abbiamo registrato insieme. Mi piace correre rischi, uscire dalla comfort zone. La mia voce mi permette di farlo».

Alla domanda su cosa significhi oggi il rock, Glenn è netto: «Vengo dagli anni ’70, da un’epoca senza laser o playback. Jeans, piedi scalzi, canzoni vere. Vorrei rivedere quella sincerità, tre minuti di chitarra acustica e anima, niente Auto-Tune». E se dovesse riassumere la sua carriera in una frase? «È difficile incasellarmi. Sono partito dall’R&B e dal funk, ho vissuto il rock classico con i Deep Purple, ho esplorato con progetti avventurosi come Hughes/Thrall o Black Country Communion. Ma sotto c’è sempre il groove, c’è sempre il soul. La gente mi vede come un rocker, ma io sono la voce del soul».

Quando gli chiedo cosa canti sotto la doccia, ride: «Qualsiasi cosa mi venga in mente. Forse Bohemian Rhapsody, ma anche cose da Broadway o i T. Rex. Ecco i T. Rex sono perfetti mentre ti lavi. Ma davvero, non penso mai: lascio che accada». Prima di salutarci, Glenn si lascia andare a un ricordo dell’Italia («Ho vissuto a Roma negli anni ’70, vicino a Piazza Navona, amo l’Italia e gli italiani») per poi aggiunge una frase su quello che vorrebbe fare con la sua musica: «Riuscire ad aiutare qualcuno».

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