Frankindeed, il lavoro di sound engineer mi fa impazzire (semicit.) | Rolling Stone Italia
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Frankindeed, il lavoro di sound engineer mi fa impazzire (semicit.)

Il suo nome potrebbe non dirvi niente, ma ha messo le mani su canzoni da oltre 3 miliardi di stream complessivi, da Sfera Ebbasta a Blanco. Ecco la sua storia e i suoi piccoli segreti. Il più importante: vai a cercarti le occasioni

Frankindeed, il lavoro di sound engineer mi fa impazzire (semicit.)

Francesco Di Giovanni in arte Frankindeed

Foto: Alessandro Pierro

«Secondo me le persone si fanno troppi problemi»: una chiacchierata piacevole e a suo modo assai istruttiva, quella con Francesco Di Giovanni in arte Frankindeed. E se vi stiate chiedendo chi diavolo sia mo’ questo qua, ché non l’avete mai sentito nominare prima, sappiate che ci sta, è più che comprensibile. Uno resta infatti sulla superficie dei Blanco, degli Sfera, dei cantanti, dei rapper, di chi sgomita per apparire, di quella gente lì; si concentra sui look, sui movimenti, sulle parole, si concentra sugli esempi più o meno cattivi e sulle storie più o meno trucide che si mettono a raccontare. Guarda a quelli, discute su quelli. Ma uno dei motivi per cui la trap e i suoi derivati – mettiamo tutto nella comoda definizione di urban – ha preso militarmente possesso degli ascolti non solo dei teenager ma ormai pure di una fascia di pubblico amplissima sta, fidatevi, nel suono. Sta cioè nel grado di perfezione (rispetto ai canoni dominanti, rispetto alle aspettative, rispetto ai device di fruizione…) che certi prodotti che entrano nel giro dei grandi numeri hanno in quanto a qualità sonora, al modo in cui sono gestiti mixaggi, mastering e frequenze. E lì conta la conoscenza tecnica, non l’arte. O non solo l’arte.

Fare pop sembra facile, sembra ogni tanto proprio una gara al ribasso artistico, o al cercare di rendere le cose più banali/commestibili possibile: ok. Ma ciò che spesso e volentieri fa la differenza tra ciò che funziona e ciò che scompare senza lasciar traccia è il modo in cui certa musica riesce a risplendere e a suonare giusta come qualità audio, come impatto, come autorevolezza, come urgenza e disponibilità al pronto-uso. L’ascoltatore medio, anche quello più appassionato, è abituato al prodotto finito. Solo chi è addetto al settore ha la fortuna di poter sentire ogni tanto canzoni e dischi in versione demo, non lavorata insomma, e caspita se la differenza si sente. Ecco, senza il lavorìo sull’ingegneria del suono un sacco di musica oggi macina-stream non starebbe in piedi.

«Il punto è che io quando sento una canzone invece di concentrarmi su parole, melodia e accordi sono attento a cose tipo la pulizia del transiente, come sono state gestite le frequenze basse, quanto è grossa la voce… Un fonico credo che ascolti la musica in maniera proprio diversa». Frankindeed, appunto, è uno di questa schiatta. Un fonico. Uno di quelli bravi a fare mix & master, a far suonare le cose. A lungo braccio destro di Charlie Charles, forse il produttore più iconico dell’ultima generazione di musica urban, quella per intenderci degli Sfera, della wave del 2016. Se con Charlie oggi magari i rapporti sono più laschi, anche se assolutamente non interrotti, ciò che è un dato di fatto è che Francesco si è trovato a mettere le mani come ingegnere del suono su dischi che complessivamente sono arrivati a 66 ori, a 56 platini, ad oltre 3 miliardi di stream complessivi. Mi fai impazzire di Blanco, Bottiglie privé di Sfera, Pensando a lei di Shiva, Nuovo range di Rkomi, giusto per dirne qualcuna: tracce che volenti o nolenti saranno per forza finite nei vostri ascolti e sì, in un modo o nell’altro dietro c’è anche la mano e il lavoro da studio di ‘sto Francesco-comesichiama. Se i numeri parlano, quelli di Frankindeed da ingegnere del suono addirittura urlano: con volumi che lo pongono, nel settore, aritmetica alla mano, nell’eccellenza globale.

Eppure a vederlo non diresti che è uno così potente, così decisivo. Né, a dire il vero, lui si sente tale. «Non mi reputo uno particolarmente bravo, non penso di essere uno dei migliori. Davvero. Ma un merito me lo do: sono uno che è andato a cercarsi le occasioni». E qui torniamo alla frase con cui abbiamo aperto questa intervista, ossia quel «secondo me le persone si fanno troppi problemi».

Foto: Alessandro Pierro

Dopo un annetto speso a Londra non per questioni di musica ma per mera voglia di andare a vedere come fosse il mondo fuori all’Italia, facendo i classici lavori da expat temporaneo, ciò che il nostro ingegnere del suono non-ancora-tale si è portato dietro tornando è stata proprio l’inizio della passione per la musica: musica però intesa come suono, non come voglia di mettersi in mostra quanto invece proprio come cultore e scultore di tutto ciò che è audio, che è nerdismo da studio. «Ancora oggi, non sono uno che si sveglia tutte le mattine con un’idea o due e vuole svilupparle, uno che vuole cioè creare, comporre. Mi capita magari di farlo, negli ultimi anni sono figurato come additional production su un pugno di tracce perché effettivamente c’erano anche dei miei contributi creativi, quello sì, ma sono abbastanza onesto da capire che mi è pure successo che un giorno avessi sì l’ispirazione per fare qualcosa di mio – e già questo non succede così spesso, non potrebbe mai essere un task quotidiano per me, non è il mio – però alla fine ciò che veniva fuori, beh, capitava fosse pure bruttissimo. Certo, magari con le mie conoscenze tecniche sul mixaggio potevo migliorarle un po’, farle stare in piedi, ma essere un artista è un’altra cosa».

Dicevamo, Londra. A fare tutt’altro. Poi dopo qualche mese il ritorno in Italia, e la voglia di buttarsi in questa cosa della musica – non da artista, non da leader, nemmeno da producer che ci mette la firma. Gli studi in SAE, ad affinare le conoscenze tecniche su ciò che è registrare e lucidare musica più ancora che farla. E lì che succede? «Succede che fin dall’inizio mi do da fare. A studi ancora in corso, perché sentivo l’esigenza di mettermi subito alla prova, ho iniziato a scrivere a chiunque, per farmi prendere in prova». A chiunque? «A tappeto. Anche scrivendo più volte, se vedevo che dopo un po’ non mi avevano ancora risposto…». Molestia, praticamente. «Eh». A cedere per sfinimento è l’Indiehub, a Milano, in Via Paolo Sarpi, uno studio anche abbastanza storico. «Quando ci sono finito io, lì si incideva soprattutto jazz; poi progressivamente si è aperto al pop, ma solo più tardi. Ho passato comunque il mio primo anno a fare proprio l’assistente base: a cablare, a mettere i microfoni. E a fare il caffè, ovviamente. In Italia girano meno soldi, le realtà sono più piccole. Nei grandi studi inglesi avevo capito che c’erano molte figure distinte, il runner faceva il runner, l’assistente faceva l’assistente, il fonico il fonico, il tutto con una gerarchia precisa. Da noi invece tutto questo è abbastanza impossibile».

Finiti gli studi, la decisione di aprire un piccolo studio proprio. «Ho lavorato con Axis, con Dani Faiv, con la cricca di Machete proprio quando iniziava ad esplodere», inizia a raccontare. E qui lo interrompiamo subito: ehi ehi ehi, la stai facendo troppo semplice. Non è uno che uno appena uscito dalla SAE apre uno studio, e subito iniziano ad arrivargli nomi già un minimo quotati… «Perché io ho sempre l’arte di rompere le scatole. Ma davvero, secondo me le persone si fanno troppi problemi: io invece ci penso zero a scrivere alla gente. Mi interessa qualcuno, gli scrivo. Mi piacerebbe lavorare con qualcuno, gli scrivo. Tanto alla peggio cosa può succedere? Che non mi arriva una risposta? E che problema c’è?».

Questo metodo diventa seriale, per Frankindeed. Inizia a portarselo sempre dietro. «Vero. Perché pur con questi primi passi comunque discreti, mi rendevo conto che c’era qualcosa che non andava in quello che veniva fuori dal mio studio, non era abbastanza d’impatto. Ascoltavo i dischi forti che c’erano in giro e mi dicevo: ecco, io non sono all’altezza di questo. Piano piano è diventato un tarlo. Tant’è che quando mi sono ritrovato a un certo punto momentaneamente a Los Angeles, ho ritirato fuori il provarci, il provarci sempre: ho scritto cioè a un po’ di produttori grossi, L.A. ne è piena, così, dal nulla, e incredibilmente Jeff Ellis mi ha risposto».

Aspetta: Jeff Ellis, quello che fra le altre cose ha lavorato con Frank Ocean, vincendo due Grammy? «Lui. E la risposta era “Ah, sei qua di passaggio? Vuoi incontrarmi? Va bene. Vieni in studio e fammi vedere che sai fare”». Paura, zero? «Non devi dubitare di te stesso. E non devi avere paura di un no: per questo io non mi faccio problemi a contattare chiunque – e infatti come vedi ogni tanto funziona». Con Ellis alla fine come è andata? «Sono arrivato da lui. Mi ha messo davanti a una sessione aperta di ProTools dicendo “Ok, ora importa le tracce e fammi il routing”, ‘ste cose da noi fonici, hai presente, e poi se ne è uscito: non voleva mettermi pressione, fare l’avvoltoio che ti guarda sarcastico in attesa di vedere se fai qualche cazzata. Voleva giusto capire cosa ero in grado di fare. Dopo tre quarti d’ora circa è rientrato in studio, ha valutato quello che avevo portato a termine e mi ha detto “Ok, resta qui qualche giorno a vedere come funziona”». E sei restato qualche giorno. «Ho imparato tantissimo».

Imparato tantissimo: bene. Ma imparato cosa, nello specifico? «Che prima stavo sbagliando approccio, quando mixavo. Per la voglia di far vedere quanto fossi bravo e competente usavo mille cose, cercavo mille soluzioni. Invece l’essenzialità, anche e soprattutto nel workflow, è la chiave». L’essenzialità ma, immagino, anche la strumentazione che si ha sottomano, dai. «Non credere. Si parla ancora tanto di hardware, parlando di registrazione, ma in realtà è più un ostacolo che altro oggi. Cioè, se ce l’hai e ti piace usarlo va benissimo, ci mancherebbe, ma soprattutto per un certo tipo di musica la velocità è essenziale oggi e l’hardware invece è fatto apposta per rallentarti tantissimo: se devi fare un export, ad esempio, devi aspettare che tutta la traccia passi attraverso la macchina, quindi come minimo devi aspettare i tre minuti della canzone in questione. Lo stesso processo, in digitale, impiega invece 30 secondi. Capisci?».

Foto: Alessandro Pierro

Forte di questa acquisita essenzialità, che succede? Quand’è che inizia ad arrivare il salto di qualità definitivo? «Finita la vacanza da Ellis torno in Italia, e torno a fare quello che mi viene meglio: mandare mail. Mandarle a chiunque. Produttori, artisti, chiunque. E sai chi mi ha risposto?». Charlie Charles. «Esattamente». Non vi conoscevate prima? «Zero. Mai visti. Me la ricordo ancora, la sua risposta: “È incredibile, sai, perché proprio oggi pensavo che magari avrei bisogno di prendere con me un fonico”. La cosa divertente è che gli avevo mandato un direct su Instagram, neanche una mail, quella mica ce l’avevo, e lui Instagram non lo ha manco installato sul telefono, lo apre giusto una volta alla settimana dal computer fisso. “La prima cosa che ho visto, aprendo i messaggi, era stato quello che mi avevi scritto tu, di come ti offrissi come fonico. E allora, ti ho risposto”». Mica male. «Mica male per niente. Arrivo lì, conosco anche il suo socio Daves The Kid, ci troviamo subito bene umanamente, e di lì a breve ecco il primo lavoro che mi ritrovo fra le mani: stavano preparando Famoso di Sfera».

Com’è andata? «È andata che abbiamo lavorato per 34 giorni di fila. Praticamente non abbiamo mai visto la luce. Charlie, quando si mette in testa un obiettivo, va dritto su quello. Costi quel che costi. Io non ero così, e per certi versi ancora adesso non voglio esserlo, voglio trovare il giusto equilibrio tra vita e lavoro, tra stare rintanato in studio e uscire magari fuori a correre un po’, bere qualcosa – infatti nei rari momenti che uscivamo per mangiare io, Charlie e un altro suo socio loro mi prendevano in giro perché io alla fine un grappino lo prendevo e loro invece zero, concentratissimi sul lavoro, a me davano ridendo dell’ubriacone – però ecco, sono convinto che almeno per me essere troppo focalizzati su una cosa sola non sia un bene, Almeno, non lo è per me».

Ecco, noialtri con Charlie Charles c’abbiamo parlato, in una intervista non banale in cui ha confessato di aver avuto una fase di rigetto e difficoltà molto pesante. «Ho letto l’intervista, certo che l’ho letta… Io c’ero, durante quella fase. Ero lì accanto a lui, in studio». E? «Ovviamente, il primo pensiero è stato essergli anche amico e non solo collaboratore, in questa fase non semplice, non leggera. Ma il punto è che vediamo il mondo in maniera diversa io e lui, non so quanto gli sia stato realmente d’aiuto. Lui deve ancora digerire il successo enorme che gli è piovuto addosso, questa cosa lo ha schiacciato, credo la stia superando solo adesso. Quello che ho potuto fare io in quei momenti lì è stato essere me stesso». Cioè? «Sdrammatizzare, fargli capire che le cose si potevano prendere anche con più leggerezza, ma al tempo stesso rendere ben evidente che io ero al suo fianco al 100%, con tutto me stesso, e se c’era da buttarsi sul lavoro non mi tiravo certo indietro».

«Io sono perfettamente consapevole che per me però è molto più facile: io non sono esposto, non mi è mai interessato esserlo – mi hanno anche cazziato in tanti perché ad esempio trascuro Instagram, ma io voglio che la gente mi cerchi perché sono bravo a lavorare, non perché sono bravo a postare – lui invece a un certo punto ha subito una pressione enorme. Ma anche se sei nella condizione di essere parecchio sotto i riflettori, devi capire che non puoi sempre andare in overhinking. Però ecco, la cosa buona è che Charlie ha usato tutto questo periodo, tutta questa pressione per metterlo in qualcosa di cui però non ti posso parlare…». Eddai, su. «No. Ti prego. Per favore…». Mmmmh. «Mettiamola così: ti posso dire che questo malessere lui lo ha affrontato e lo ha affrontato con la musica, buttandocisi dentro ancora di più, esplorando nuove strade, nuovi generi, anche cose in teoria prima non gli piacevano, così come altre che gli sono sempre piaciute. Sta per tirare fuori qualcosa di veramente importante, secondo me. Lui è una persona rara, sai? Non ne ho conosciute tante nell’ambiente come lui. Uno sempre pronto a darti una mano, ad ascoltarti. E che ama valorizzare chi ha attorno a sé. Da lui ho imparato l’importanza del fattore umano».

Questo discorso ci fa scivolare sulle questioni di ego. Perché tanti nomi, tanti numeri, tanti stream equivalgono, spesso e volentieri, a tanto ego. A partire dagli artisti che ci mettono la faccia in primis. Trucchi per gestire questa cosa? «Un paio. Quando si sta lavorando, non sono uno che vuole fare l’amicone con gli artisti. Non do troppa confidenza insomma. Faccio capire che io sono lì non per creare a ruota libera, ma per fare cose ben precise: il mix, il mastering, eccetera. Ognuno col suo ruolo». Questo il primo trucco. Il secondo? «Ovviamente non tutte le tracce a cui lavori ti piacciono, no? Ci sono quelle che ti piacciono di più, quelle che ti piacciono di meno; quelle che funzionano fin da subito, quelle che non ti convincono. Ecco, io mi concentro su queste ultime. E provo a dire la mia – ma stando sempre sul tecnico, senza mai pretendere di avere ragione al 100%. Se un artista mi dice una cosa secondo me completamente sbagliata, io non gli dico “No, guarda, così no”; gli rispondo semmai “Ok, ma che ne dici di provare a fare anche in un’altra maniera, ora ti faccio sentire quale così ti fai un’idea?”. Non bisogna mai arrivare allo scontro. E bisogna rispettare la visione d’artista, che resta il fuoco principale. È quella che fa progredire le cose. In teoria, gente come Kanye o XXXTentacion sbagliava tutto, come mix, invece proprio sbagliando hanno rivoluzionato la musica. Io al massimo posso essere un traduttore: io ho il dovere di capire il pensiero di un artista, e di renderlo disponibile per tutti».

Foto: Alessandro Pierro

Hai ancora l’urgenza di continuare a mandare delle mail? «Sì». Come mai? «Voglio tornare in America. Un po’ perché è stata una esperienza troppo bella, vorrei approfondirla; e un po’ perché vorrei produrre cose un po’ più di nicchia». Prego? Pensavo il contrario, pensavo mirassi al bersaglio grossi, ai mega-nomi mainstream, all’infilarti in quei giri lì. «Negli Stati Uniti il mercato è più grande, girano più soldi. La conseguenza è che anche cose un po’ più di nicchia possono alla fine contare su dei budget decenti, quindi ci puoi lavorare bene. Per dire in questa fase sto riscoprendo tantissimo le robe di Beck, non riesco a smettere di ascoltarle, e lui non era certo uno mainstream come sonorità, come scelte di mixaggio, no? Tra l’altro quando ho iniziato a fare questo lavoro ero talmente focalizzato sul crescere professionalmente che, alle fine, le uniche robe che ascoltavo erano quelle che dovevo mixare o masterizzare in studio. Negli ultimi tempi, proprio perché ho capito l’importanza di un bilanciamento tra vita e lavoro, ho iniziato invece a scoprire e riscoprire delle cose: e, credimi, è una sensazione davvero bella. Oggi si tende a pensare che si faccia musica solo per i soldi, solo per i numeri. Non è vero. Non è così. Non deve diventare così».

Detto da uno che si è visto passare fra le mani, tra mix e master, più di un centinaia di dischi d’oro e di platino, non è male. La prossima intervista la faremo dagli Stati Uniti, non qui a Milano? «Chissà. Quello che faccio io, posso farlo ovunque. Il mix non ha nazionalità. Non è come cantare in una lingua, o scegliere determinati generi musicali. Perché non approfittarne?».