«Fedele fino alla fine all’estetica DIY»: Butch Vig racconta il quasi rivale Steve Albini | Rolling Stone Italia
Quella volta in studio

«Fedele fino alla fine all’estetica DIY»: Butch Vig racconta il quasi rivale Steve Albini

C’è stato un periodo in cui lavoravano con gruppi simili, uno più vicino al pop, l’altro al punk, uno ha fatto ‘Nevermind’, l’altro ‘In Utero’. «Si metteva lì e ti fissava come se ti stesse analizzando»

«Fedele fino alla fine all’estetica DIY»: Butch Vig racconta il quasi rivale Steve Albini

Steve Albini e Butch Vig

Foto: Jim Bennett/WireImage (1), Axelle/Bauer-Griffin/FilmMagic (2)

È una storia curiosa di quand’ero a New York a lavorare coi Sonic Youth a Dirty. Cercando di contenere i costi, ho trovato un appartamento non lontano da dove vivevano Kim Gordon e Thurston Moore. Era d’un loro amico che in quel momento stava in Europa, l’ho preso in affitto per un paio di mesi. Era in una palazzina a tre piani e la prima volta che sono entrato ho visto una grande foto di Steve Albini sorridente, con un coltello in bocca che gli usciva dalla guancia. Era amico del proprietario dell’appartamento, andavano assieme ai concerti punk, cose del genere. E quindi ogni sera, quando tornavo dallo studio, ad accogliermi c’era Steve. Metteva paura.

L’ho conosciuto grazie a Corey Rusk dell’etichetta Touch and Go alla fine degli anni ’80 o forse era l’inizio dei ’90. Entrambi registravamo dischi punk e lavoravamo suppergiù con le stesse band tipo Urge Overkill e Tad. Avevo visto i Big Black dal vivo a Chicago. Il volume era pazzesco e io me ne stavo lì cercando di fare il figo senza tapparmi le orecchie in un angolo dove mi sembrava la musica fosse un filo meno forte. Era roba decisamente intensa, clangori di lamiera metallica, ma era anche catartica.

Conoscevo il lavoro di Steve come fonico. Non la chiamerei competizione quella che c’era fra di noi, ma quando sentivo i suoi dischi mi chiedevo che microfoni usasse per la grancassa o cose del genere. Era stato un artista del fotoritocco, uno che toglieva le imperfezioni dai visi della gente. Non penso gli piacesse cercare di alterare la realtà per migliorarla e credo che questa estetica l’abbia portata anche nel mondo in cui registrava musica. Non gli interessava tirarla a lucido per trasformarla in quel che non era.

La prima volta che l’ho incontrato di persona è stato quando è venuto nello studio dove stavo lavorando a 8 Way Santa dei Tad. Ti fissava come se ti stesse analizzando. Jonathan Poneman della Sub Pop aveva detto che Tad aveva una bella voce e quindi bisognava convincerlo a cantare sul serio, non solo a urlare. E quindi l’ho incoraggiato a cantare in modo più melodico rispetto al disco (Salt Lick, ndr) che la band aveva fatto con Steve. Quando Steve è venuto in studio, ha sentito un paio di pezzi e m’ha detto: «Perché cerchi di far cantare Tad? Mica è un cantante». Mi lanciava frecciatine di questo tipo.

Ma è stato bello, ho sempre pensato che facesse grandi dischi. Adoro quello di PJ Harvey (Rid of Me, ndr). La prima volta che l’ho sentito l’ho invidiato per le dinamiche che riusciva a creare con voce e chitarre, era roba esplosiva. Ha colto quel che PJ Harvey era in quel momento. È il disco che me l’ha fatta conoscere, ha fatto un gran lavoro.

Mi faceva sentire dischi strani, tipo gruppi punk con una vena comica. Il pop non gli piaceva, qualunque cosa contenesse della melodia, nella voce o nella chitarra, non faceva per lui. Forse associava le parole pop e business. Era lontano anni luce dal mondo dei dischi di successo e delle radio mainstream. È stato fedele fino alla fine all’estetica DIY.

Negli anni ’80 e ’90, quando si cominciava a leggere il nome nelle fanzine, ha concesso interviste folli in cui era acido e provocatore, a volte persino con gli artisti coi quali aveva lavorato e che non gli piacevano particolarmente. Io questa cosa la trovavo scioccante. Quando lavoro con qualcuno si crea un rapporto, fai il tuo lavoro in sala d’incisione, non è che devi per forza dire che quel qualcuno ha fatto schifo. Chiaramente da parte sua c’era del senso dell’umorismo. Com’è noto, ha dissato anche me. Una volta ha detto una cosa tipo «Butch Vig vuole far suonare tutte le band come i Beatles». Io l’ho lo preso come un complimento… più o meno.

Più spesso, ce l’aveva con le stronzate che vedeva nel music business. Quel che diceva in quel famoso articolo (“The problem with music”, ndr) è vero. Andava così con quasi tutte le band che conoscevo e che lavoravano con le major. È successo anche al gruppo con cui suonavo, i Fire Town: firmando il contratto ci siamo ritrovati con 500 mila dollari di debiti e senza vendere dischi. La band è finita lì.

Mi è dispiaciuto quando i Nirvana non hanno voluto lavorare con me (dopo Nevermind, ndr). Col senno di poi, e ho parlato di questa cosa con Dave Grohl, era giusto che cambiassero. Non puoi essere un purista punk come Kurt e fare un disco d’immenso successo. Così hanno scelto Steve, che ha fatto un album dal suono decisamente più crudo. Kurt ne aveva bisogno e Steve l’ha fatto. Si sa che ha negoziato con la loro etichetta, la Geffen, e ha poi messo il carteggio su Internet. L’ho trovato divertente, non aveva paura di pubblicare roba del genere.

Un’altra cosa: non era uno con cui giocare a poker. Era bravissimo. Ha partecipato a tornei anche nazionali. Ci faceva un sacco di soldi, le vincite lo aiutavano a tenere aperto lo studio. Mi diceva che devi essere molto disciplinato per giocare a poker, devi conoscere bene le probabilità che hai.

Col tempo s’è un po’ addolcito. Quando stavamo facendo Sonic Highways dei Foo Fighters, siamo andati nel suo studio a Chicago per lavorare alla prima traccia. È stato gentilissimo. Il primo giorno sono arrivato con Taylor Hawkins per montare lo strumento. Steve m’ha spiegato come aveva costruito la cabina di ripresa della batteria andando nel New Mexico dove c’era un tipo particolare di pietra usata nel muro che era riflettente, ma anche porosa, in modo da rendere il suono più morbido. Era assolutamente perfetto. Anche Taylor ha detto che era il miglior suono di batteria che avesse mai sentito.

È stata in quell’occasione che ho scoperto che Steve era anche un intenditore di cibo. Il primo giorno ci ha servito del caffè, «il migliore che abbiate mai bevuto», disse. I chicchi venivano in qualche modo dalle feci delle scimmie, così ci ha detto. Passano dall’apparato digerente  perdono di acidità. Era effettivamente delizioso.

L’ultima volta che ci siamo scritti è stato poco prima di Covid. Volevo comprare un po’ di quel caffè per il mio studio, ma bisognava ordinarlo su Internet. Costava un botto, una trentina di dollari al chilo, ma aveva un gusto molto morbido e poco acido. Aveva ragione Steve.

Da Rolling Stone US.