Eroi underground nella terra dei giganti: la recensione originale di ‘Nevermind’ | Rolling Stone Italia
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Eroi underground nella terra dei giganti: la recensione originale di ‘Nevermind’

Nel 1991, prima che i Nirvana arrivassero al successo globale, Rolling Stone US parlava del loro secondo album come di un bel passo in avanti rispetto all’esordio, un gran disco rock dal cuore pop

Eroi underground nella terra dei giganti: la recensione originale di ‘Nevermind’

I Nirvana nel 1991

Foto: Niels van Iperen/Getty Images

Ogni volta che un eroe del rock indipendente firma un contratto con una major i fanzinari tremano, eppure molti gruppi post punk, dagli Hüsker Dü ai Soundgarden, hanno debuttato nel mondo corporate senza svilire la propria musica. Le band più ambiziose lasciate indietro dalle major s’aggrappano ai propri principi e intanto cadono nelle profondità del fallimento commerciale. L’integrità è un fardello pesante per chi cerca di scalare le classifiche.

Guidati dal cantante e chitarrista Kurt Cobain, i Nirvana sono gli ultimi figli dell’underground chiamati a testare la tolleranza del mainstream per la musica alternativa. Sono in tre, vengono dallo Stato di Washington e hanno i mezzi per imporsi nella nicchia che il guitar rock, tolto il metal, occupa nel mercato contemporaneo. Fra power chords roventi ed energia furiosa, i Nirvana costruiscono strutture melodiche robuste, è hard rock da cantare in coro sul modello di Replacements, Pixies e Sonic Youth, melodie che poi distruggono con urla forsennate e suoni caotici di chitarra.

Quando Cobain passa alla modalità punk, trasformando la sua voce da una morbida carezza a un urlo furioso, l’unica cosa che impedisce alle canzoni di sprofondare nel caos è la sezione ritmica del bassista Chris Novoselic e del batterista Dave Grohl. I Nirvana non sembrano alla ricerca di qualcosa di nuovo, però Nevermind ha le canzoni, il carattere e lo spirito giusto per essere qualcosa in più di una semplice riproposizione delle hit delle radio del college.

Il loro debutto del 1989, l’anonimo Bleach, si basava su una versione addolcita dei riff metal anni ’70. Nevermind invece ha un cuore pop traboccante di adrenalina e materiale incredibilmente migliore, registrato con nitidezza dal co-produttore Butch Vig. Nonostante le (probabilmente volute) sporcature, la band dimostra d’essere in grado di grandi sottigliezze anche facendo rock denso e rumoroso, come in On a Plain, Come As You Are e Territorial Pissings. Da una parte c’è Something in the Way che galleggia su una nuvola traslucida di chitarre acustiche e violoncello, dall’altra ci sono Breed e Stay Away in cui il gruppo va a tutta manetta, con la seconda che si chiude nel caos.

Succede che i musicisti underground si gettano a capofitto in dischi che non sono pronti a registrare, per poi consumarsi in un tour dietro l’altro. I Nirvana di Nevermind si trovano di fronte a un bivio, sono eroi underground che s’incamminano nella terra dei giganti.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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