Enrico Ruggeri racconta gli Sparks: «Sono forse l’unica band che non assomiglia a nessun’altra» | Rolling Stone Italia
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Enrico Ruggeri racconta gli Sparks: «Sono forse l’unica band che non assomiglia a nessun’altra»

Il gruppo dei fratelli Mael sta per arrivare per la prima volta in Italia. Chi li conosce li adora. Abbiamo chiesto a un fan eccellente di spiegare a tutti gli altri perché dovrebbero ascoltarli. «Con loro il rock è diventato dadaismo, ironia, eleganza e soprattutto personalità»

Enrico Ruggeri racconta gli Sparks: «Sono forse l’unica band che non assomiglia a nessun’altra»

Enrico Ruggeri e gli Sparks

Foto: Angelo Trani (1), Munachi Osegbu (2)

Un piccolo aneddoto per iniziare. Alla fine del 2014 gli Sparks si sono esibiti a Londra per festeggiare i 40 anni del loro album più celebre, Kimono My House. A vederli c’erano Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio. Quel concerto è stata la scintilla, anzi l’incendio della reunion dei Decibel: i tre non facevano un disco assieme dal 1980.

«Il modo migliore per descrivere gli Sparks è dire che non ci puoi descrivere», ci ha detto Ron Mael quando lo abbiamo intervistato un paio di mesi fa. Noi ci abbiamo provato lo stesso, a descriverli, chiedendo a Enrico Ruggeri di spiegare chi sono a chi non li conosce. L’occasione è il primissimo concerto italiano del gruppo, l’8 luglio al Teatro Arcimboldi di Milano. Si sono già esibiti sui palchi italiani una decina d’anni fa col progetto FFS, che metteva assieme il duo e i Franz Ferdinand, mai come Sparks.

Nella storia della grande musica abbiamo avuto musicisti straordinari, rivoluzionari, che ci hanno esaltato e commosso fino a diventare la colonna sonora delle nostre vite. Tutti questi giganti avevano comunque un punto in comune, l’aver metabolizzato chi li aveva preceduti spingendosi oltre: perfino i Beatles erano partiti dal vecchio rock’n’roll rendendo le sue radici un albero rigoglioso grondante creatività.

Bene, gli Sparks sono forse l’unico caso di band che non assomiglia a nessuno.

Possiamo cercare le loro ispirazioni nel cabaret tedesco, risalire a musiche di tempi lontani, archetipi sepolti nella memoria come poesie dimenticate: niente “padri spirituali”. Due californiani affascinati dalla Vecchia Europa, che dopo due album già maturi e interessanti varcano l’oceano alla conquista degli spiriti più elevati.

Le loro caratteristiche e la loro raffinatezza precluderanno ai fratelli Mael il grande successo al quale probabilmente non aspiravano: l’eccezione fu This Town Ain’t Big Enough for Both of Us, una stilettata mozzafiato con la quale scalarono le classifiche di mezza Europa, trascinando in alto il loro primo album europeo, Kimono My House, dieci canzoni alle quali a 50 anni di distanza non riesco ancora a trovare un difetto.

Con gli Sparks il rock diventò dadaismo, ironia, eleganza e soprattutto personalità.

Per quanto mi riguarda sono tra i pochi musicisti ai quali devo tributare un ringraziamento: hanno influenzato molto una parte del mio stile compositivo, a partire da Contessa (i Decibel li adoravano quanto me) per proseguire con molte canzoni scritte pensando a loro, al loro modo di coniugare hard rock e vaudeville, alla loro ironia, alla loro composizione asciutta e insieme roboante.

Per me rimangono una delle pietre angolari sulle quali il rock ha costruito il suo impero: non finirò mai di ringraziarli, aggiungendo sempre un tocco di snobistica compassione per chi non li ha mai conosciuti.

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