Nel 2008 l’allora giovane scrittrice musicale di Paste Amanda Petrusich apriva il suo It Still Moves, libro fondamentale per capire lo spirito della musica americana lungo le linee parallele e le strade non ufficiali tra una metropoli e l’altra, raccontando come la Americana, che più che un genere potremmo definire un feeling, ha sempre avuto il compito di restituire in tempo reale l’evoluzione del Paese. Una brillante intuizione si è dimostrata quasi una profezia: quella musica non va intesa come espressione di un genere, ma come un fantasma, una vibrazione che sale dai sotterranei dei musei, dai margini dei libri di storia, e ogni tanto riemerge per raccontare quello che gli Stati Uniti sono diventati.
Oggi Amanda Petrusich scrive per il New Yorker, è considerata tra le principali voci critiche della musica contemporanea mentre gli Stati Uniti sembrano sul punto di collassare tra crisi climatica, violenza endemica, democrazia ridotta a caricatura, economia che espelle chiunque non stia in cima alla piramide. Una condotta che tra l’altro sta rischiando di trascinare con sé nel buco nero l’intero Occidente. In mezzo a tutto questo, gente cresciuta tra pandemia, overdose di notizie, precarietà e collasso ha ancora bisogno di dare un suono al proprio disagio e tanto per cambiare la cara, vecchia, vituperata e ormai ridotta a commodity musica diventa il mezzo espressivo per eccellenza.
Ormai una decina di anni fa ho avuto la possibilità di intervistare Mac McCaughan dei Superchunk il quale, a una stupida domanda sul futuro del rock’n’roll che un me più giovane e ingenuo gli ha posto in totale buona fede, rispose – vado a memoria – «fino a quando ci sarà un garage con dei giovani disposti a farci casino dentro io non perderò la speranza». I Superchunk vengono da Chapel Hill, North Carolina. A tre ore di macchina, sempre in North Carolina, c’è una cittadina di 75 mila abitanti che si chiama Asheville, dalla quale viene una delle band più interessanti dell’indie contemporaneo: i Wednesday che, con il loro nuovo disco Bleeds vedono il presente come una ferita che non si rimargina e dimostrano come la vibrazione che restituisce l’evoluzione del Paese è tutta qui in modo vivo, doloroso, acuminato.
La loro storia non è lunghissima ma è già densa. Nati nel 2017, hanno iniziato nel rumore scheggiato di Twin Plagues, sono maturati con la potenza di Rat Saw God (2023) e oggi con Bleeds hanno consegnato il loro disco più feroce e più coeso. La band è guidata da Karly Hartzman, cantante e autrice che raccoglie immagini dalla quotidianità più sporca e le trasforma in visioni Southern gothic tra pitbull che pisciano da un balcone, erbacce che crescono tra le molle arrugginite di un trampolino, cicatrici e coltelli, feste di provincia finite male. Più il gotico alla rust never sleeps di scrittori come Stephen Markley e Philipp Meyer. Accanto a lei, per anni, c’è stato MJ Lenderman, chitarrista, songwriter e compagno di vita ma ora i due si sono lasciati, lui continua a suonare nei dischi ma non più dal vivo, impegnato nella sua carriera solista anche grazie a un disco, Manning Fireworks, entrato di diritto tra i lavori più importanti dell’anno scorso e anche tra le colonne portanti del nuovo canone americano. È un dettaglio biografico, certo, ma come accade in ogni grande disco, la vita finisce dentro le canzoni e Bleeds è il suono anche di una frattura.
La prima strofa di Carolina Murder Suicide è pura True Detective: “La polizia parla al telefono con tuo marito mentre spegne l’incendio che ha distrutto la casa dei tuoi vicini”. Non c’è ironia, solo la consapevolezza che la morte è onnipresente, che la violenza domestica è una verità strutturale dell’America profonda. Ispirata tra l’altro agli omicidi commessi da Alex Murdaugh, avvocato finito all’ergastolo per aver ucciso moglie e figlio, è un pugno nello stomaco che mette subito in chiaro il tono. Poi arrivano le canzoni che oscillano tra melodia e rumore come Bitter Everyday, con urla che sembrano squarciare l’aria (“Sushi del supermercatino / Stai tagliando la ketamina con la chiave della stanza di un motel”), o Pick Up That Knife, che corre sul filo del rasoio, con le chitarre che franano come se stessero davvero accompagnando un gesto estremo.
Elderberry Wine è forse il brano più struggente. Ballata sospesa tra malinconia e dolcezza, in cui Hartzman canta di un ricordo trasformato in ossessione, di un passato che non passa mai. Qui la sua voce si fa più fragile, un’atmosfera che ricorda il Terrence Malick de La rabbia giovane, dove il crepuscolo del Sud sulla prateria diventa un tramonto che non finisce mai. Subito dopo, invece, arriva Wasp, due minuti scarsi di urla e distorsioni hardcore, uno sfogo puro che Hartzman stessa ha descritto come catarsi necessaria. È in questo continuo passaggio tra intimità e devastazione che i Wednesday trovano la loro verità.
Bleeds restituisce un’America spaccata, ferita, che sanguina ogni giorno. Hartzman ha dichiarato che «la morte è sempre lì, in ogni momento» e che fingere il contrario sarebbe una menzogna. Ispirata da podcast true crime, episodi realmente accaduti, le strade del North Carolina, Hartzman fa quello che fanno da sempre i più grandi autori di canzoni americani cercando di partire dal particolare per arrivare all’universale, trasformando ogni immagine in una metafora del crollo generale. Se ci pensate, è quello che ha sempre cercato di fare anche Jason Molina.
Quello che più mi interessa però dei Wednesday, oltre al fatto che facciano grande musica, è il fatto che siano esponenti della loro generazione e non facciano finta di guardare da un’altra parte. Hanno vissuto gli ultimi anni dell’adolescenza e i 20 anni chiusi in casa durante la pandemia, si sono trovati a fare i conti con crisi economiche senza fine, con la consapevolezza del collasso climatico e con un’America che non riesce più a garantire nemmeno il mito della democrazia. Una generazione che sembra non aver avuto nemmeno il diritto minimo di immaginarsi la possibilità di un futuro e per questo in dischi come Bleeds non funzionano tanto gli slogan ma l’atmosfera complessiva che restituisce alla musica quel senso primario di espressione attiva, di denuncia, anche quando non c’è un messaggio “politico” esplicito.
In questo senso i Wednesday stanno scrivendo una delle pagine più importanti del rock contemporaneo, insieme ai Big Thief, che con altri mezzi hanno restituito lo stesso bisogno di intimità radicale e di verità scomode con il loro ultimo Double Infinity. Bleeds è uno dei dischi più interessanti dell’anno perché non si limita a raccontare il dolore privato, ma lo lega a una dimensione collettiva. È un disco che ci dice che l’Americana non è morta, che “si muove ancora”, come scriveva Petrusich. Solo che oggi si muove tra urla e distorsioni, sangue e paesaggi rurali, amore e morte. È l’America che sanguina, e i Wednesday hanno messo in musica questo disagio scrivendo grandissime canzoni.
