Nel 1968 Jimi Hendrix era all’apice della sua carriera, ma il successo non era privo di frustrazioni. Ogni volta che entrava in uno studio di registrazione tradizionale si scontrava con limiti di tempo, costi elevati e tecnici che non comprendevano il suo approccio sperimentale e fuori dagli schemi dell’epoca alla chitarra.
Per Hendrix, registrare significava creare, improvvisare, tornare indietro, modificare, distruggere e ricostruire ed era solito lavorare senza fermarsi per ore, per interi giorni, registrando infinite take e stravolgendo i brani fino a ottenere il suono perfetto. Questa metodologia, tuttavia, cozzava con la rigidità delle sale di registrazione dell’epoca, progettate per un approccio più convenzionale. «Non posso lavorare con un orologio che mi dice quando devo fermarmi. La musica non funziona così», disse in un’intervista nel 1969 parlando proprio della sua visione creativa e del suo modo di concepire l’arte. Aggiungendo poi: «Ho bisogno di un posto che sia mio. Un posto dove nessuno mi dica di smettere quando sto cercando il suono perfetto». Senza contare che per affittare gli studi per i propri album, Hendrix spendeva ormai qualcosa come 200 mila dollari all’anno (oggi sarebbero più di un milione).
Fu allora che nacque l’idea degli Electric Lady Studios. Un’idea che prese fattivamente forma quando Michael Jeffery e Jimi nel 1968 decisero di acquistare il Generation Club al 52 West Eighth Street, un posto da poco chiuso nel Greenwich Village che aveva ospitato, tra gli altri, gente come B.B. King e Janis Joplin. La prima pensata, in realtà, fu quella di acquistare un posto dove poter tener concerti, fare jam e incidere cose sue in un piccolo studio con otto tracce. Con la guida di Jim Marron vennero chiamati il fido sound engineer Eddie Kramer e John Storyk, un architetto e tecnico acustico poco più che ventenne che si era appena occupato del Cerebrum, un locale “da sballo” che Hendrix apprezzava molto.
Il chitarrista, tuttavia, aveva in mente progetto diverso: perché non creare il proprio studio di registrazione, dove poter lavorare senza limiti di tempo o di creatività? «Ho passato troppi anni a vagare tra studi che non mi capivano. Adesso voglio un posto che sia mio, un luogo dove posso registrare ogni volta che voglio, per tutto il tempo che voglio. A che serve un altro club, quando possiamo costruire un posto dove la musica possa nascere e non solo essere eseguita?».
Eddie Kramer, avendo lavorato con lui sin dagli esordi, lo conosceva forse meglio di chiunque altro, e fu il primo a spingere affinché il sogno di Jimi potesse realizzarsi: «Sono stato molto fortunato ad essere stato associato a Jimi Hendrix sin dall’inizio della sua carriera, a Londra nel 1967, quando ho iniziato a registrarlo. Nel 1968, Jimi e il suo manager comprarono un club chiamato The Generation. L’idea era di renderlo un posto dove Jimi potesse suonare e volevano un minuscolo studio a otto tracce nell’angolo posteriore del locale». I due compresero subito che un acquisto di quel genere non potesse prescindere da colui che ci avrebbe passato più tempo insieme a Jimi: «Sono stato invitato a scendere e dare un’occhiata e vedere cosa ne pensavo dell’idea», continua Kramer, «e ho detto: “Ragazzi, è un’idea terribile. Vuoi che Jimi abbia un night club? È follia”». Il fatto è «che Jimi passa così tanto tempo in studio, spendendo circa 150 mila dollari all’anno. E mi sono detto: “Perché non lo trasformiamo nel miglior studio del mondo?”. Anche perché Jimi non voleva solo un luogo dove registrare. Voleva un santuario, un laboratorio sonoro, un luogo in cui la musica potesse nascere e svilupparsi senza restrizioni. Così sono nati gli Electric Lady Studios».
Per realizzare il progetto Hendrix si affidò soprattutto a Storyk, proprio perché la sua visione era quella dello studio concepito come spazio sonoro innovativo, capace di superare i limiti dell’epoca. Qualcosa di estremamente simile al pensiero di Jimi. L’obiettivo dell’architetto era quello di personalizzare lo spazio in base alle esigenze del suo cliente, in modo da renderlo un ambiente intimo e accogliente, in netto contrasto con gli studi sterili e impersonali dell’epoca. In un’intervista del 2016, Storyk ricorda quei giorni: «Molto del mio lavoro è stato dedicato agli studi di registrazione, ma negli ultimi quindici anni c’è stato un cambiamento enorme con il concetto del project studio. Se torno indietro a quando avevo vent’anni, per un caso o per serendipità, il mio primo progetto fu esattamente un project studio, quello a cui lavorai quarantacinque anni fa insieme a Jimi Hendrix. Un project studio nel senso più puro della parola. Quell’esperienza mi ha formato, perché ancora oggi ritengo che tutto lo studio debba essere costruito intorno all’artista. Uno studio deve avere uno spirito, che è poi sempre stato l’elemento principale di qualsiasi project studio dei più grandi artisti della storia».
Seguendo tale filosofia, le sale di registrazione divennero due, con un grande disco volante appeso al soffitto della semiovale A in grado di assorbire le frequenze producendo un suono più rock. Inoltre, ogni stanza fu progettata con pareti inclinate per evitare rimbombi indesiderati, mentre l’acustica venne curata nei minimi dettagli per permettere la registrazione sia di suoni potenti che di sfumature delicate. Superfici curve e finestre circolari a specchio facevano il resto. Hendrix era profondamente coinvolto nel progetto e voleva che lo studio fosse anche un luogo esteticamente stimolante. Le pareti vennero quindi decorate con murales erotici psichedelici e fantascientifici, mentre una macchina per generare l’illuminazione ambientale permetteva di creare una miriade di colori caldi ed avvolgenti, al fine di creare stati d’animo sempre diversi e un’atmosfera rilassante. «Era come entrare in un altro mondo, una dimensione parallela fatta di suoni e colori. Non sembrava uno studio di registrazione, sembrava un viaggio nella mente di Jimi», raccontò anni dopo l’amico Steve Winwood.
Hendrix voleva che lo studio fosse un rifugio creativo, un luogo in cui lui e altri musicisti potessero sperimentare senza pressioni. Lo studio fu dotato delle tecnologie più avanzate disponibili all’epoca, come un banco di mixaggio di ultima generazione e un sistema di registrazione a 32 tracce che permetteva di espandere la fantasia di Jimi a livelli impensabili solo fino a un paio d’anni prima. Il costo della costruzione salì rapidamente, superando il milione di dollari, una cifra enorme per l’epoca. Hendrix, tuttavia, sembrava non preoccuparsene: i soldi potevano andare e venire, quello invece era un investimento nel futuro della sua arte, un luogo lontano da stress e scadenze, in cui incidere musica pura, senza compromessi.
Non tutto andò per il verso giusto e le ristrutturazioni durarono più del previsto. Appena iniziati i lavori, infatti, si presentarono i primi problemi: durante la demolizione, infatti, il sito si allagò a causa di alcune forti piogge. E si dovettero installare pompe di raccolta, presto insonorizzate, perché si scoprì che l’edificio che avrebbe ospitato lo studio si trovava in cima a un affluente del fiume sotterraneo Minetta Creek. «La costruzione degli Electric Lady è stata un incubo», racconterà ancora Kramer nel documentario di John McDermott Electric Lady Studios: A Jimi Hendrix Vision. «Eravamo sempre a corto di soldi. Il povero Jimi doveva andare in tour, fare un po’ di dollari, tornare e pagare gli operai. Verso la fine del 1969 ci siamo trovati di fronte a un muro finanziario e ci siamo fermati. Allora lui ha chiesto un anticipo suoi futuri diritti d’autore e siamo ripartiti di corsa».
Anche nell’assemblaggio delle specifiche tecniche dello studio Kramer e Jimi incontrarono difficoltà, che tuttavia si rivelarono meno drammatiche di quanto preventivato. Il produttore raccontò che vennero ordinate due console Datamix personalizzate, perché erano quelle che Hendrix aveva usato per incidere Electric Ladyland al Record Plant di New York. Tuttavia, la prima console non era all’altezza delle aspettative dei due, mentre la seconda non era ancora stata completata quando il costruttore venne arrestato per non aver pagato migliaia di dollari di tasse. Visto il danno subito, i legali di Hendrix riuscirono ad ottenere un risarcimento adeguato: gli Electric Lady furono in grado di assicurarsi tutto ciò che non era stato pignorato al committente, tra cui attrezzature di prova, moduli e altre apparecchiature utilizzate poi per costruire tutto ciò che serviva allo studio.
Anche se non ancora aperti al pubblico, nel maggio del 1970 gli studi divennero già agibili, permettendo a Jimi di assaporare il frutto di tutto quello sforzo. Alla stampa che gli chiedeva come procedessero i lavori, Jimi raccontò entusiasta: «Abbiamo fatto le cose in grande. Ci sono le migliori apparecchiature del mondo. È possibile registrare su 32 piste, e questo significa non trascurare i dettagli. Se c’è una cosa che detesto degli studi di registrazione è l’impersonalità. Sono posti freddi, anonimi, e pochi minuti dopo esserci entrati la determinazione e l’ispirazione sono già svanite. L’Electric Lady è diverso. È costruito per offrire un’atmosfera grandiosa. Ci sono un mucchio di cuscini e tappeti spessi e luci soffuse. È un ambiente rilassato, dotato di ogni comfort. Hai la sensazione di registrare a casa tua. E puoi avere qualunque combinazione di luci tu riesca ad immaginare. Perso che sia importantissimo. Voglio che lo studio diventi un’oasi per tutti i musicisti rock ‘n’ roll di New York. Chuck Berry e Sly sono passati per incidere un paio di cose e sto lavorando perché qui venga realizzata una certa produzione sinfonica».
Nella primavera del 1970, finalmente, Hendrix fu in grado utilizzare la sala A. «La adorava e ci trascorreva nottate intere», ricorda l’amico Deering Howe in Room Full of Mirrors di Charles R. Cross. «Solo che poi si bloccava su una canzone e magari stava tre giorni a rimuginare sulle stesse otto battute». Il 26 agosto 1970, gli Electric Lady Studios aprirono ufficialmente con una grande festa privata cui presero parte alcuni dei più grandi nomi della scena musicale, tra cui Yoko Ono, Eric Clapton, Keith Richards, Patti Smith, Steve Winwood, membri dei Led Zeppelin, Mitch Mitchell, Johnny Winter e Billy Cox. Jimi, visibilmente emozionato, accolse gli ospiti con un grande sorriso. Per lui quella notte non era solo una celebrazione: era la dimostrazione che la sua visione si era concretizzata. «Questo posto è per tutti noi. Qui dentro possiamo creare senza regole, senza pressioni. Finalmente abbiamo il nostro spazio» dichiarò sollevando il bicchiere in un brindisi.
La serata fu un tripudio di musica, eccessi e improvvisazione. Hendrix passò gran parte della notte a suonare, alternandosi con altri musicisti. Fece una lunga jam session con Mitch Mitchell e Billy Cox, seguita da momenti più intimi al pianoforte e alla chitarra acustica. La festa finì nella goliardia, con un lancio di cibo tra i presenti che terminò con l’ira del chitarrista, che abbandonò la festa, e l’inevitabile chiusura del party. Tuttavia, nulla poteva rendere meno magica una notte come quella.
Purtroppo, quella fu anche l’ultima delle notti che Hendrix trascorse nello studio: pochi giorni dopo, infatti, partì per un tour in Europa da cui non fece più ritorno. Eppure, nel poco tempo concessogli dal destino, prima di lasciare New York, Jimi incise alcune delle sue ultime canzoni proprio agli Electric Lady. Tra queste c’era Freedom, un brano potente e liberatorio che sarebbe diventato un suo classico postumo, che rifletteva, tra le altre cose, il suo desiderio di emanciparsi dalle pressioni dell’industria musicale. «Questa canzone parla di liberarsi da tutto quello che ti tiene prigioniero. È così che mi sento qui dentro. Questo posto è la mia libertà», disse durante le registrazioni di una delle tante take del brano lasciate negli archivi dello studio.
Un’altra traccia registrata in quei giorni fu l’eterea e visionaria Night Bird Flying, di cui Hendrix parlò a Kramer in questi termini: «Quando la suono, vedo un uccello notturno che vola sopra la città. È come un sogno, un viaggio che non finisce mai». E poi ancora Drifting, un pezzo dolce e malinconico, con un tocco di chitarra fluttuante come onde nel mare: «È come stare sdraiati sull’acqua, lasciarsi trasportare. È così che vorrei che fosse la vita a volte». La prolificità di Hendrix vide in quei giorni uno dei massimi zenit, con varie incisioni di pezzi come Ezy Ryder, Astro Man e Belly Button Window capaci di catturare il lato più sperimentale e giocoso del chitarrista, mescolando rock, funk e blues in modi innovativi. Tutte canzoni che avrebbero popolato i suoi album postumi e che non sapremo mai come avrebbe desiderato utilizzare il suo autore.
Dopo la sua morte, gli Electric Lady Studios non chiusero, anzi, divennero un punto di riferimento per generazioni di artisti. Lo studio sopravvisse quindi al suo ideatore: su incarico di Jeffery, Kramer si mise all’opera sugli inediti del chitarrista. Con i brani lasciati qui e in altri studi, il mercato sarebbe stato inondato di materiale più o meno inedito, dal primo The Cry of Love col cadavere di Jimi ancora caldo fino all’ultimo Electric Lady Studios: A Jimi Hendrix Vision.
Come previsto sin dall’inizio del progetto, Kramer aprì anche le sale ad altri clienti. Tra i primi a frequentarle, Carly Simon e Stevie Wonder, che rimase entusiasta e vi incise Talking Book e Innervisions, due degli album più innovativi della sua carriera. I Led Zeppelin scelsero lo studio per lavorare a Houses of the Holy e Physical Graffiti, mentre David Bowie, con la collaborazione di John Lennon, vi registrò Fame e la cover di Across the Universe dei Beatles contenuti nell’album Young Americans. Inoltre vi ha mixato il suo ultimo album, Blackstar. I Rolling Stones lo usarono per Some Girls, e Patti Smith registrò il rivoluzionario Horses. La lista dei nomi, tuttavia, è infinita: da Frank Zappa ai Kiss, passando da John Lennon, Lou Reed e Peter Frampton.
Kramer, scelta l’indipendenza, lasciò l’incarico nel 1975, ma il prestigio degli studi non accennò a diminuire, nonostante il succedersi di diversi sound engineer e a un paio di cambi di proprietà. Van Halen, Blondie, Foreigner e Guns N’ Roses furono tra i tanti nomi di livello assoluto a servirsene, ma in quanto a dischi epocali forse nessuno fu in grado di eguagliare gli Ac/Dc di Back in Black e i Clash alle prese con Sandinista!.
Col passare degli anni, però, i costi di registrazione agli Electric Lady divennero sempre più proibitivi, anche a causa dell’avvento delle tecnologie dell’home recording. I clienti iniziarono drasticamente a calare: nel 2005 passarono addirittura dieci mesi senza uno straccio di prenotazione. A salvarli arrivarono i soldi dell’investitore appassionato di vinili Keith Stoltz, una ristrutturazione, e il lavoro del manager nonché suo socio Lee Foster. Scattò il rilancio, grazie a quattro sale, con numerosi arredi originali in bella vista e, nella sala B, soprannominata Purple Haze, la console Solid State Logic 9000J di color porpora. Artisti eterogenei come Daft Punk, Adele, Frank Ocean, Lady Gaga, St. Vincent o Taylor Swift hanno poi contribuito a mantenerne viva e attuale l’eredità.
Anche se Hendrix non visse abbastanza per godersi il suo studio, ogni nota suonata lì dentro porta in qualche modo la sua impronta. Tanto che, ancora oggi, chi entra negli studi può quasi sentire l’eco delle note della sua Stratocaster, come se Jimi si fosse trasformato in quell’uccello notturno che vola sopra la città, lasciando dietro di sé una scia luminosa e indelebile. Eddie Kramer, tornato con regolarità a lavora- re al materiale inedito, disse sempre in occasione del documentario Electric Lady Studios: A Jimi Hendrix Vision: «Jimi non voleva solo registrare musica, voleva costruire il futuro della musica. Gli Electric Lady sono quel futuro, che continua ancora oggi».
Patti Smith, nel suo pluripremiato libro di memorie Just Kids, ricordò con affetto il giorno in cui mise piede agli studi. Dopo aver indossato il suo cappello di paglia portafortuna e di aver raggiunto baldanzosa il centro del Village, una volta giunta alla soglia degli studi, Patti racconta di essersi bloccata. Per sua fortuna, poco dopo arrivò Jimi che, trovandola seduta come una provinciale in preda a una crisi di panico, la accolse con un grande sorriso e un invito a seguirlo. I due trascorsero un po’ di tempo a parlare sulle scalinate, visto che Patti ancora faticava a prendere iniziativa, fino a quando Hendrix non le confidò quale fosse il vero obiettivo di quel progetto sì costosissimo, ma dalle possibilità inimmaginabili.
Jimi sognava di riunire a Woodstock musicisti provenienti da tutto il mondo, che avrebbero dovuto sedersi nei campi che avevano visto radunarsi il più alto numero di spettatori per un concerto, e iniziare semplicemente a suonare in cerchio. Suonare, suonare e ancora suonare, senza dare importanza a tonalità, tempo o melodia. Avrebbero continuato a suonare le loro discordanze fino a raggiungere un linguaggio comune. Alla fine avrebbero registrato questa sorta di astratto messaggio universale proprio agli Electric Lady Studios prima di consegnarlo al mondo.
Un sogno decisamente hippy, che Jimi concluse con una frase che, in qualche modo, avrebbe caratterizzato la vita e la carriera di Patti: «Quello sarà il linguaggio della pace. Capisci cosa voglio dire?».
Da Jimi Hendrix. La luce che brilla il doppio dura la metà di Luca Garrò (Diarkos).