«Vorrei portarmi lontano, via da tutto e da tutti. Anche perché senza tutto e tutti non si può stare. Dov’è il mio posto? Quando? Con chi? E se non piacesse si può cancellare tutto con una spugna? I sogni le aspettative gli amori, gli amici che poi sono nemici?». Nel testo di Rosario ci sono tutte le contraddizioni di chi si ritrova in carcere: la voglia di andarsene via, il desiderio di cancellare quello che è stato, l’incertezza su quali siano il nostro posto e le persone giuste con cui stare. Per Angelica tutto invece si riempie di speranza: «Una musica che rilassa l’anima, tanti pensieri che si dissolvono, le mura/sbarre spariscono e puff, l’animo sereno».
In carcere, da recluse, è possibile evadere, almeno sognando. È questo il punto di partenza che ha dato vita a Lo spazio immaginato, un laboratorio che ha coinvolto le detenute del carcere femminile dell’isola della Giudecca, a Venezia, e alcuni musicisti. La musica, ascoltata in sedute collettive, fa da guida all’inconscio, stimola visioni e ricordi. Emergono immagini, parole, emozioni sopite da tempo, che prendono la forma di testi che riportano esperienze personali, affettive, fantasie che qui ritrovano spazio. Questi testi poi diventano voce, vengono recitati e raccontati, integrati nella composizione in una sintesi nuova, che mette insieme le musiche composte pensando a chi vive recluso e le parole di chi vorrebbe ritrovarsi libera.
Il progetto è curato dalla casa editrice Nero e dall’associazione Closer, che da quasi dieci anni lavora nella casa di reclusione della Giudecca, dando vita a progetti culturali che mettono in comunicazione interno ed esterno, tra chi si trova rinchiuso, privato della libertà, e scrittrici e scrittori, musicisti e normale pubblico che attraverso la partecipazione agli eventi può entrare, magari per la prima volta, in un carcere. A dare supporto nell’aspetto produttivo c’è La Società delle Api, organizzazione no-profit fondata da Silvia Fiorucci e attiva nell’arte e nel design.

Foto: The Imaginary Place
La genesi del progetto Lo spazio immaginato risale al 2022, mentre i primi incontri in carcere si sono svolti nel 2023. L’anno scorso, in concomitanza con l’inaugurazione della Biennale d’Arte, si è svolta una preview del progetto al Teatrino Groggia di Venezia. Ora, è finalmente possibile ascoltare e scoprire tutti i materiali prodotti, pubblicati online sulla pagina di The Imaginary Place.
I musicisti coinvolti sono Caterina Barbieri, Gigi Masin, il compositore e producer di Birmimgham Lee Gamble, l’artista danese Courtesy (nome d’arte di Najaaraq Vestbirk), e poi Opium Child. Alcuni di loro sono molto legati a Venezia: Gigi Masin, compositore di culto del mondo ambient, è veneziano. Caterina Barbieri, più volte invitata a suonare in città dalla Biennale Musica, da quest’anno ne è diventata la direttrice artistica. Opium Child è invece il progetto musicale di Francesco de Figueiredo, già all’opera con gli Heroin in Tahiti e tra i fondatori di Nero.
«Da tempo stavo maturando un progetto che voleva lavorare sui sogni delle detenute, per raccontare delle storie», racconta Giulia Ribaudo, fondatrice di Closer. «Pensavamo non solo alla dimensione onirica, ma anche alle forme del desiderio, quindi volevamo trovare un modo in cui venisse stimolata questa dimensione per le detenute, una dimensione, di fatto, di evasione». Insieme a Nero, prende forma l’intuizione che la musica sia il mezzo perfetto per smuovere l’immaginazione, per far emergere i desideri sommersi.
«Abbiamo cominciato a ragionare insieme a Closer sull’idea di circolarità, sulla comunicazione tra il dentro e il fuori», spiega Francesco de Figueiredo. Le norme degli istituti penitenziari prevedono regole rigide su che tipo di oggetti possano essere utilizzati all’interno del carcere. Indagando un po’, si scopre che i lettori mp3 sono uno strumento autorizzato. Vengono acquistati dunque dei lettori da regalare a tutte le detenute, e nel frattempo «abbiamo chiesto ad alcuni produttori di immaginare una colonna sonora di musica ambient, un tipo di musica dimensionale, che allarga la percezione, e che quindi lascia molto spazio all’immaginazione».
Quanto ai musicisti e produttori invitati, «sono persone con cui avevamo già un rapporto, e che sapevamo avere una certa sensibilità rispetto a questi temi», continua de Figueiredo. Tutti hanno presentato uno sleeping mix, un brano che invitasse all’addormentamento, di durata variabile, alcuni quasi di un’ora. Le musiche vengono inserite nei lettori mp3, in modo che le detenute possano ascoltarle la sera, prima di dormire. Vengono poi organizzate delle sessioni di ascolto collettivo: per alcuni mesi, con incontri che si svolgono a cadenza bisettimanale, nella grande sala teatro dell’istituto della Giudecca si riuniscono dalle 20 alle 40 detenute (l’invito è aperto a tutte le ristrette del carcere), che possono immergersi nell’ascolto per almeno una quarantina di minuti. Subito dopo, possono cominciare a fissare su carta tutto quello che la musica ha fatto affiorare in superficie.
«È stato impressionante vedere quanto effettivamente fosse importante questo bisogno», osserva Francesco de Figueiredo. «Di quanto cioè il legame con le persone che sono fuori, il rapporto con alcune rappresentazioni di se stesse, o il ricordo di alcuni momenti della propria vita, volesse uscire, trovare il suo spazio, uno spazio immaginato, appunto». In un ambiente in cui gli spazi, le interazioni umane, gli orizzonti, lo stesso immaginario sono quanto più ristretti, limitati, la musica offre uno strumento per rientrare in contatto con se stesse, con il proprio inconscio.

Foto: The Imaginary Place
I testi, in diverse lingue perché parte delle detenute è di origine straniera, sono stati trascritti e trasformati in un file audio. «Inizialmente la nostra idea era quella di far interpretare alle ristrette i testi con la propria voce», spiega de Figueiredo. «Ma effettuare delle registrazioni all’interno dell’istituto è complesso, e quindi abbiamo deciso di utilizzare una speech voice digitale». I sogni delle detenute sono stati integrati dunque in una nuova versione dei brani, che è quella che si può ascoltare dalla piattaforma, «la somma di questo processo di circolazione tra il dentro e il fuori dell’istituto». L’ultimo giorno di laboratorio, è comparsa in sala anche una macchina fotografica, con cui sono stati fatti dei ritratti alle partecipanti.
Nero, che cerca da tempo di innovare anche le forme della fruizione superando i limiti delle classiche case editrici in direzione dell’expanded publishing, ha sviluppato «una piattaforma digitale, consultabile e aperta», continua de Figueiredo, «e ci piacerebbe riproporre il progetto in altri istituti e raccogliere quante più rappresentazioni possibili di questa immaginazione ristretta. Vorremmo che continuasse come una vera e propria area di ricerca, tra musica e scrittura». Ci sono già stati alcuni contatti con altri istituti penitenziari, in cui verranno tenuti dei nuovi laboratori a partire dall’esperienza di Venezia.
«La mia idea inizialmente, il mio obiettivo con Closer, era dimostrare che anche in un ambiente più chiuso, come il carcere esiste la possibilità di evadere attraverso la nostra stessa immaginazione. La nostra immaginazione è capace di andare oltre ogni barriera», riflette Giulia Ribaudo. «E con Nero siamo riusciti a tradurre questo materiale di partenza, i sogni, in qualcosa che avesse una valenza culturale e anche artistica».