È stato l’anno del panico morale per la trap | Rolling Stone Italia
La nuova emergenza nazionale

È stato l’anno del panico morale per la trap

Contro quelli che benpensano e sbattono i trapper in prima pagina. Ma anche contro l’idea che la violenza e l’orgoglio dell’ignoranza siano sempre da abbuonare perché è solo fiction. Un’opinione

È stato l’anno del panico morale per la trap

Foto: Yazdan Ghamaryan x Unsplash

Ormai è un assedio. L’ultimo in atto in ordine di tempo – ma chissà, mentre scriviamo queste righe metti mai che altro si stia aggiungendo – è un articolo di un portale dedicato alla letteratura, Libreriamo, articolo ripreso prontamente da siti come quello del Corriere o da Rai News: numeri e percentuali alla mano, con una analisi linguistica (presa dal sito skuola.net e piegata alle proprie interpretazioni) si vuole dimostrare come la trap sia un male assoluto, una enorme emergenza sociale. Citiamo: i temi più ricorrenti in questa malefica corrente musicale sono l’autocelebrazione all’81% (sai che scoperta…), la violenza (61%), la rabbia e la delusione (77%, ci incuriosisce a questo punto il 23% mancante), le droghe (58%, e onestamente pare pure poco conoscendo i testi dei trapperoli nostrani), la disparità di genere (55%). Ci si sofferma molto su questo ultimo aspetto: viene evidenziato ovunque il fatto – ponendolo proprio come titolo – che quasi sei canzoni trap su dieci contengano espressioni violente verso le donne. Se sul Corriere il rimando è un po’ implicito e non messo nero su bianco, su Rai News si fanno zero remore e introducono questa ricerca parlando del tremendo caso di Giulia Cecchettin. Al momento non risulta che Filippo Turetta, colui che l’ha assassinata, sia un appassionato di trap. Quindi: che c’entra? Ma tanto, ormai…

Tanto ormai è facile e comodo sbattere il mostro in prima pagina: e il mostro è la trap. Scena musicale che in effetti si sta dando alacremente da fare per finire sui media nel peggior modo possibile: arresti per tentato omicidio (Shiva), sparatorie (Simba La Rue e Baby Gang), spaccio ed evasione (Niko Pandetta). Persino quando si fanno retate per criminalità giovanile (l’ultima del 15 dicembre scorso: 41 arrestati tra una decina di città medio-grandi italiane, impiegati complessivamente quasi 500 agenti) si tende sempre a sottolineare che di mezzo c’è pure la trap, in quanto gli arrestati sono – citiamo testualmente la nota stampa della Polizia – «contigui ad essa».

La trap? Musica essenzialmente di merda, fatta da rincoglioniti senz’arte né parte; soprattutto: musica fatta da e per criminali drogati, che sta traviando una intera generazione, parlano i fatti, parlano i giornali e i media vari, parlano gli arresti. Che ne dite? Vi piace questo riassunto? Vi dà gusto? Il venticello dell’indignazione negli ultimi tempi è più un impetuoso maestrale che soffia costantemente e con forza: il capro espiatorio è servito.

Ma attenzione attenzione, c’è anche il controcanto uguale e contrario, minoritario ma c’è: quando si alza la voce di qualche libertario socialmente impegnato. Quelli cioè che non è mai colpa di nessuno davvero, ma è sempre semmai colpa della società, del capitalismo, del patriarcato, del fascismo, del consumismo; e i traper cattivi sono solo delle vittime di tutto questo.

Il problema è sempre il solito in questi casi, e con queste sfiancanti discussioni: ritrovarsi dalla parte del buon senso e di un laico realismo. Cosa che fanno in pochi. Lo fanno sempre davvero in troppo pochi. È infatti questa la parte più scomoda, nonostante le apparenze; è quella dove forse ci si annoia di più e ci si fa notare di meno (oggi abbiamo il terrore della noia e del non essere notati!), quando tutt’attorno è un accalcarsi fra curve ed insulti contrapposti. Logiche tribali, sì: logiche da ultrà, ovunque e da ogni dove, pure se non soprattutto fra il pubblico più vario e generalista. Logiche tribali e semplificatorie che in Italia, perché davvero questa è una nostra specialità nazionale, spesso e volentieri sfociano comunque alla fine nell’operetta. Per fortuna.

Per fortuna, sì. Perché con questo modo di discutere e affrontare le questioni si parla tanto, si urla tanto, vero, ma per fortuna alla fine si risolve in nulla di fatto e si torna a parlar di pandori e Ferragni. C’è anche un problema, però: in realtà è proprio questa tendenza ad accalorarsi tanto, ad essere cioè molto tranchant e massimalisti a parole senza tuttavia prendersi il disturbo di ragionare sui fatti, a generare poi una grande nebbia interpretativa. Nebbia in cui si sprecano le parole e le analisi, mamma mia quante se ne sentono di quelle, ma raramente si arriva al punto. E vale per tutte la fazioni e tutte le posizioni in causa, sia chiaro: sia per i moralisti censori intrisi di benpensantesimo condannante di destra, che per quelli del laissez faire sinistrorso.

Partiamo da un punto fisso e, speriamo, condivisibile: che (quasi) nessuno che legge un magazine come Rolling Stone si senta vicino alle parole di un Paolo Crepet («Chi ascolta la trap diventa un drogato») e di tutti i moralisti che vogliono condannare e criminalizzare un genere musicale intero, così, in blocco, sulla base dell’“allarme sociale”. Poi per carità, magari per voi l’unica vera musica è quella dei Led Zeppelin (o dei Pink Floyd, o di De André, o dei Sonic Youth…), e la trap è merda da decerebrati: per carità, va benissimo. Ci mancherebbe. Il problema vero è quando non puoi avere dei gusti e delle opinioni (perché te le proibiscono per legge), non quando le hai: urlalo pure ai quattro venti, che la trap come musica e come cultura ti fa orrore.

Pensare che la trap faccia cagare musicalmente, che i testi siano un raro esempio di vuotaggine, che sia la morte e della creatività è qualcosa infatti che ci sta. Fa tuttavia magari sorridere, ecco, se uno si mette addosso un po’ di prospettiva storica: perché gli appassionati di classica dicevano le stesse cose del jazz e del blues, nel passaggio tra Ottocento e Novecento; gli appassionati del jazz e del blues dicevano le stesse cose del rock’n’roll, negli anni ’50; gli appassionati di rock dicevano le stesse cose del punk e della new wave, tra i ’70 e gli ’80; gli appassionati del punk e della new wave dicevano le stesse cose dell’hip hop, negli stessi anni o poco dopo; gli appassionati di hip hop, pochissimi anni più tardi, dicevano la stessa cosa della techno (che oltre ad essere monotona e priva di melodia manco aveva i testi, figuriamoci, quindi insomma era musica scema e vuota tout court, no?, oltre al fatto che la dance in generale è una roba da fascisti, esilarante pregiudizio nato negli anni ’60 e ’70, prosperato da noi negli anni ’80 e che continua ancora oggi a fare danni, in primis alla stessa musica dance).

Chi ha meno voglia di schierarsi in curva, e voglia il cielo che voi che leggete siate fra questi, è portato invece a dire una grande, scontata banalità troppo spesso sottaciuta: in ogni genere musicale ci sono quelli scarsi e ci sono quelli bravi. Vale per ogni genere musicale, nessuna eccezione. E, corollario, ogni genere musicale va prima di tutto parametrato rispetto ai gusti, agli usi ed alle consuetudini del suo pubblico di riferimento, della comunità cioè a cui parla originariamente. Una bella fetta di chi ascolta e venera Brahms o Schönberg considera probabilmente Springsteen un cafone stonato ed urlicchiante. Ma non ammettere la rilevanza di uno Springsteen nella musica e nella cultura del ventesimo secolo è intellettualmente disonesto. Brahms o non Brahms.

Però ecco, al netto di questo discorso a monte, che è sempre meglio premettere perché non si sa mai, tornando al punto del discorso dell’allarme sociale da trap in questo momento popolarissimo e diffusissimo speriamo di non dover ripetere l’ovvio: l’arte è (anche) il racconto del truce e dell’indicibile. Da sempre. 

Oggi studiamo con allegria e senza la minima remora le grandi tragedie greche, al cui confronto i testi trap sono infantili ninna nanne recitate da virginali suore orsoline: Omero, Esiodo, Eschilo sono infatti un coacervo di stupri, incesti, violenza, vendette, intrighi sordidi. Non ci risulta nessuno abbia mai proposto di abolirli. O meglio: ancora non è successo. Ma se è per questo, pure nel Medioevo ci andavano giù pesante nell’arte a livello di violenza ed efferatezza, e non parliamo dei giorni nostri (dalla musica al cinema, passando per la letteratura). Gli esempi potrebbero essere miliardi, basati su più di 3000 anni di storia dell’umanità. Un lasso di tempo un po’ più esteso delle carriera di Simba La Rue o Baby Gang.

L’idea che l’arte debba essere uno scodinzolante barboncino al servizio esclusivamente della morale più buona ed edificante (che poi, è sempre la morale del momento; le cose cambiano…) è la caratteristica dei regimi sociali più poveri, tristi, disumani, violenti. Punto. Gli avanzamenti sociali più significativi si sono praticamente sempre avuti quando l’arte è stata libera di esprimersi: vedi un po’. Un’arte libera è quella che alla lunga ti fa capire prima e meglio cosa ti fa schifo, cosa non ti piace, cosa ti lascia come minimo perplesso, cosa ti respinge; è attraverso il pensiero critico, che ha senso solo se esercitato in libertà, che diventiamo persone migliori. Non solo: è attraverso il confronto con la parte peggiore di noi stessi – quella più discutibile e pericolosa – che troviamo il modo per essere alla fin fine degli esseri umani e dei cittadini migliori. L’arte serve spessissimo a questo.

Ok. Qui siamo al buon senso comune. Banalissimo buon senso comune. Ma voi che leggete volete il sangue. Lo volete, vero? Beh, eccovelo.

Siamo perfettamente consapevoli che tutti questi bei discorsi pieni di luminosa tolleranza e prospettiva storica che abbiamo squadernato finora siano qualcosa con cui il trapper medio che sta emergendo negli ultimi anni fra adolescenti e post adolescenti si pulisce il culo. Non si esprime infatti in questo modo, il trapper medio (e per fortuna: non parla come un assistente sociale); non pensa probabilmente in questo modo, diciamolo; e se qualche illuminato intellettuale di sinistra lo difende dicendo che il suo disagio va capito, che l’arte è libera, che l’identità generazionale, che questo, che quello, bla bla bla, il trapper medio o medio-basso d’intelletto pensa al massimo: «Non me ne frega un cazzo di ‘ste stronzate, fra’. A dirla tutta manco mi sforzo di capirle. Però so che forse grazie a loro riesco ad evitare il gabbio e che gli sbirri mi stiano troppo addosso. Così mi faccio un altro Rolex, zio: tempo tre settimane, ed è mio». Che sia con lo spaccio, con le date dal vivo in nero davanti ai fra’ o con la paghetta dei genitori, poco importa: basta che sia Rolex. Anzi, Ebbasta che sia Rolex.

È una musica e una cultura scarnificata, la trap. È l’estremizzazione dell’animo nichilista, tremendista e consumista della cultura hip hop: ne prende spesso e volentieri gli aspetti più crudi, rozzi e spicci. Ed è qualcosa che oggi, essendo di moda, viene consumato con grande gusto e altrettanta superficialità, sia da chi pratica che da chi ascolta: come del resto succede a qualsiasi musica diventi moda, perché anche quando gli autonomi negli anni ’70 si riempivano intellettuosamente la bocca del free jazz non è che di jazz ci capissero granché, cosa che del resto vale per molti degli hipster in servizio permanente continuo che sono passati in fretta dai Pavement alla Ed Banger a Kamasi Washington, beati loro.

È tuttavia una musica e cultura viva, la trap. Parla a una generazione. Riesce a trascriverne le ansie, le paure, le illusioni, a trascriverne i desideri più stupidi e inconfessabili. Fa vedere a un occhio più attento le dinamiche che decenni e decenni di consumismo hanno generato in noi tutti, e ribadiamo: tutti. Non solo: è anche un grido di ribellione contro il mondo troppo safe che i genitori stanno costruendo attorno agli adolescenti di oggi: scomposto e confuso magari, certo, ma pur sempre grido di ribellione, pur sempre il segnale che i ragazzi di una certa età saranno sempre attratti dal rischio, dal limite, dal proibito. E meno male. Antidoto contro l’inquietante virus che replica genitori che vorrebbero i figli come sbiadite copie di se stessi, con cioè gli stessi gusti, gli stessi valori, le stesse predisposizioni, solo tutto un po’ limato per non rompere i coglioni. Ciò che manca, probabilmente, è proprio la capacità di indirizzare meglio e in modo più evoluto questo disagio delineato e declinato dall’ecosistema trappuso: ma attenzione, perché se iniziate a prendere i testi dei più bravi fra quelli emersi nel 2016, Tedua in primis giusto per fare un nome, troverete una capacità enorme di analisi e autoanalisi, una grandissima proprietà di linguaggio emotiva, che al confronto i testi dei tanti lodati anni ’90 sembrano slogan grossolani e sgraziati. I migliori stanno crescendo. Si stanno facendo adulti. E, chi più chi meno, parecchio più interessanti.

Quello che non bisogna nascondere, per eccesso di paternalismo e di «capiamoli, questi giovani e il loro disagio», è quanto sia stupido giocare ai gangster in Italia quando si potrebbe farne a meno, quanto sia stupido ed infantile pensare di essere più credibili se stonati da psicofarmaci (discorso che peraltro vale per le rockstar degli anni ’60, ’70, ’80, ’90… mica solo per i trapper, o no?), quanto sia e sempre sarà fuori dal mondo il culto del fisico e della palestra se non è accompagnato dal cervello, quanto sia banale e prevedibile misurare il successo coi simboli del consumo. È assolutamente necessario fare presente queste cose; ma è assolutamente necessario – e vitale – che a queste accuse gli accusati siano liberi di rispondere con un «ma che cazzo vuoi, ma che ne capisci?».

Ogni generazione in fondo può e deve darsi dei suoi codici espressivi. A costo di farsi del male, a costo di sfornare cazzate. Compito del giornalismo è parlarne. Compito dell’opinione pubblica è discuterne. Compito di nessuno – ma proprio nessuno – è stabilire arbitrariamente e a divinis cosa sia moralmente giusto e cosa moralmente sbagliato, perché questo è un fattore che è stabilito solo dal tempo e dalla dinamica per cui si incrociano fra di loro opinioni e argomentazioni contrapposte, più o meno convincenti, e poi solo con la giusta distanza storica si capisce un po’ meglio come stavano davvero le cose.

Non bisogna avere paura di dire che la stragrande maggioranza dei trapper fa schifo, tecnicamente parlando, come performer sul palco. Ma non bisogna nemmeno nascondere che questo schifo piace a un sacco di persone, le coinvolge, suona rilevante ed efficace. Non bisogna avere paura di dire – e qui lo diciamo forte e chiaro – che contornarsi di palestrati tatuati che fanno brutto, giocare a fare i malavitosi, oppure essere malavitosi per davvero ma non fare nulla per uscirne perché al momento il malavitoso fa figo presso la massa mainstream dei consumatori adolescenti e post adolescenti non è fascinoso: è da sfigati. Da gente di poco spessore. Un po’ superficiale, un po’ gretta, un po’ opportunista, e se sei in carcere perché hai spacciato, perché hai fatto brutto a qualcuno, perché hai ordinato dei pestaggi, fondamentalmente non sei un eroe ma sei un pirla. Ma al tempo stesso non si può negare che questo gioco in questo periodo storico funziona mica poco (e bisogna chiedersi: perché?), esattamente però come nel pop funziona mica poco e da tempi immemori la stella in difficoltà e devastata dalle droghe (da Kurt Cobain a Britney, passando per Amy Winehouse, da Elvis a Jim Morrison, passando per Janis Joplin).

Continuiamo. Non bisogna farsi problemi a dire che i testi di molta trap sono dal punto di vista formale e concettuale tendenzialmente basilari, fratturati, involuti, rudimentali; ma non bisogna nemmeno nascondere come siano riusciti a creare un linguaggio nuovo, a giocare con le parole e i fonemi come nessuno prima, ad avere una forma molto veloce di creazione di associazioni mentali.

Insomma: a fare gli scandalizzati sulla trap che vedono solo e unicamente lo schifo, il marcio e la cafonaggine malavitosa si è in tutto e per tutto i benpensanti ipocriti immortalmente immortalati da Frankie hi-nrg in Quelli che benpensano (e non a caso proprio Frankie era lì a rintuzzare i moralismi dozzinali e le analisi frettolose di Crepet sul fenomeno, pochi giorni fa in televisione). Ma al tempo stesso, non bisogna mai dimenticarsi quanto cose come l’arroganza, l’orgoglio dell’ignoranza, lo stordimento, la violenza possano essere magari divertenti o addirittura catartici quando ne leggi o quando ne fruisci catarticamente sotto forma di creazione artistica, ok, ma una volta incontrati nella vita reale o applicati su se stessi sono fenomeni urticanti, sgradevoli, in ultima analisi tristi e degradanti. Non lo diciamo noi: lo dice quasi sempre chi c’è passato attraverso, ed è una voce molto più affidabile della nostra. E più affidabile di un Codacons o di un Crepet ospite lautamente remunerato nel medium più vecchio che c’è, la televisione.