È morta MTV, viva MTV | Rolling Stone Italia
I want my, I want my...

È morta MTV, viva MTV

Ma come, c’era ancora il canale coi videoclip? Sì, c’era nel Regno Unito, ma non era più quello dell’epoca in cui formava gusto ed estetica creando miti alternativi e mostri mainstream. Appunti per una rivalutazione, senza nostalgia

È morta MTV, viva MTV

Foto: Diego Gonzalez/Unsplash (TV)/Logo MTV

La chiusura annunciata per il 31 dicembre 2025 delle ultime reti musicali di MTV nel Regno Unito non è certo una sorpresa né una di quelle news capaci di sconvolgere il mondo dopo che negli ultimi anni il network aveva perso sempre più centralità con la musica relegata in ruoli marginali a discapito di quella “M” nel nome. Più che un lutto sembra una triste e lunghissima chiusura dell’epoca in cui la musica poteva ancora farsi evento e al tempo stesso rito collettivo spettacolare attraverso le contraddizioni di quella scatola luminosa e capricciosa che per almeno un paio di generazioni (la X e quella dei millennial) è stato anche strumento di evasione, intrattenimento e formazione culturale e, ebbene sì, politica. Le reti coinvolte – MTV Music, MTV 80s, MTV 90s, Club MTV e MTV Live – verranno spente come lampadine stanche nell’indifferenza generale e resterà in piedi una MTV “HD” che ormai trasmette più reality che video, come da consolidata old new wave della rete.

Per qualcuno la vera news è addirittura l’opposto: «Ma come, c’era ancora MTV?». Perché ormai questa idea, questa utopia postmoderna tardocapitalista di una rete intrinsecamente giovane, irriverente, contraddittoria, di alternativa e di norma, era ormai relegata nel passato. Ma cosa è stata MTV? Non è una risposta semplice perché come negli anni ’80 le popstar annunciavano l’inizio dei programmi dicevano “I want my MTV”, ognuno di noi aveva la sua MTV. 

MTV non era un semplice canale, ma un apparato di liturgia pop, un laboratorio di estetica rapida dove il videoclip diventava rito, icona, sfida di stile. MTV insegnava a guardare la musica perché ha inventato un nuovo modo di viverla: con le immagini, con la velocità, con la voglia di spaziare non solo in lungo, in largo, in orizzontale e in verticale, ma anche in modo trasversale e obliquo. Era la televisione che accendevi e lasciavi andare anche quando non c’era niente che ti interessava. Grazie ai videoclip ha creato una nuova estetica e una nuova industria con un prodotto per trent’anni egemonico e in grado di orientare consumi e muovere masse. E con quel nuovo e rinnovato potere di persuasione, MTV riposizionava la musica nel mondo.

Inoltre MTV è stato uno dei più efficaci motori di quell’altro sogno infranto che si chiama globalizzazione. In Italia, storica periferia dell’impero, i programmi iniziano l’1 settembre 1997 con la trasmissione del famoso concerto unplugged dei Nirvana. Kurt Cobain è morto da tre anni, ma è in quel solco che anche da noi arriva la televisione musicale. Pur costruendo un’estetica e una retorica nazionale, calata nel territorio, con i suoi veejay, i suoi programmi feticcio (come gli esperimenti di infotainment di Andrea Pezzi, Kitchen, e Massimo Coppola, Brand:new, Avere vent’anni) e le sue band portate su palchi importanti come quelli degli MTV Day, dove molte persone hanno visto per la prima volta in televisione gli Afterhours, per dire, il contenitore era sinceramente internazionale e vedeva nel videoclip e in quell’estetica una lingua comune della generazione accelerata di cui parlava Douglas Coupland nel suo libro Generazione X.

Chi ha vissuto quella MTV in Italia rimpiange un periodo storico che coincide anche con la propria adolescenza, vale a dire il momento delle possibilità, della scoperta. Ma nostalgia è una parola incompleta perché non è solo rimpianto per gli anni ’90 o per gli anni Zero, ma per una contraddizione produttiva che quei canali incarnavano. MTV era mainstream e allo stesso tempo controculturale: dentro il sistema, ma con la capacità (talvolta) di sbilanciarlo. Ha coltivato la figura dell’“alternativo”, ha canonizzato scene e generi trasformando buffi esperimenti di provincia in leggende globali. Pensate al salto che faceva una band quando il suo video veniva mandato in onda e in pochi giorni cambiava il vocabolario visivo del pubblico e quanto ha contribuito l’heavy rotation al successo di canzoni colonna sonora di un certo periodo come, sempre per restare in Italia, Acido acida dei Prozac+ o Valvonauta dei Verdena. Questo non lo fa più nessuno nello stesso modo.

Il punto non è mitizzare MTV a prescindere. Ha prodotto immondizia, logiche di merchandising, tele(s)vendite culturali e anzi ha creato in egual numero miti (pensate agli Strokes) e mostri (uno su tutti, Lou Bega). Ma la sua esistenza ha reso possibile un paradosso e al tempo stesso un terreno fertile dove ironia e controcultura operavano dentro il capitale, rovesciandolo con stile o portandolo verso zone più cool, penso a Beavis & Butthead e Daria, a Jackass. Era una piattaforma che permetteva di tifare e di detestare nello stesso tempo, che rendeva la musica un collante generazionale – anche in opposizione – perché la si viveva insieme.

Questa chiusura arriva in un momento storico curioso dove assistiamo a un revival estetico dei lasciti millennial – dall’indie sleaze al culto del cringe come cifra estetica – come se la cultura cercasse di riassestare i suoi fantasmi. Ma l’estetica non è la sostanza. Il documentario su Vice, i revival su Instagram e certe riabilitazioni del cattivo gusto sono performance del ricordo mentre in tempo reale erano autentiche infrastrutture. Luoghi dove il presente e il marketing si toccavano con una certa violenza rituale.

La cultura non muore ma si trasforma continuamente e la stessa MTV, che nasceva come evoluzione naturale, come nuovo capitolo pirata della vecchia industria discografica, muore come fallimento obsoleto del sistema. Quello che finisce è un momento in cui si lasciava ancora spazio all’inatteso e alla sorpresa (il video della band di cui ti innamoravi senza averlo calcolato stipato in un palinsesto di orrore mainstream) che aveva i suoi limiti, certo, ma anche delle grandissime possibilità soprattutto emotive. Le band diventavano manifesti affettivi e marker di personalità in modo forse più tradizionale ma apparentemente più duraturo. I fenomeni erano fenomeni grossi e monolitici soprattutto per come si poteva feticizzarne la presenza videomusicale. E c’era una percezione diffusa per cui con un potere centralizzato e non diffuso fosse più facile sia innamorarsi di qualcosa e farne un culto duraturo, sia avere qualcosa contro cui opporsi e quindi sapere benissimo – come tutto durante l’adolescenza – cosa fosse giusto o sbagliato. Dovremmo adattare a oggi le nuove norme dello stardom, del rapporto tra fanatismo e cosplay (se andate a un festival musicale oggi sapete benissimo di cosa si parla), di esperienza attiva vs esperienza passiva ma dalla prospettiva di un’immagine che cambia, si frammenta, si sviluppa non solo attraverso la narrazione ufficiale – appunto, le televisioni – ma arriva a ripetizione 24/7 da ovunque senza che gli artisti ne abbiano pieno controllo.

Come la pirateria, prima, e lo streaming poi, e in modo molto più sfacciato, non hanno distrutto la musica ma un mercato, la fine di MTV non ha chiuso l’epoca dei videoclip, che però si sono trasformati e sono diventati altro. Una volta erano una palestra per registi alle prime armi (Spike Jonze, Michel Gondry, il premio Oscar Jonathan Glazer) e modi per investire pesantemente budget promozionali in stile kolossal hollywoodiano (video per Michael Jackson, Mariah Carey e Fugees che arrivavano a costare diversi milioni di dollari); adesso sono strumenti potenzialmente lo-fi, accessibili a tutti e che girano sfruttando viralità e community. Non ha più la centralità nell’immaginario, questo no, ma statistiche alla mano aiuta a macinare ascolti su YouTube. Poi se questo si trasformi in visione attiva o passiva è un altro discorso e spiegherebbe anche il fenomeno dei lyric video pubblicati dagli account ufficiali di etichette e artisti, pensati per essere contenuti a basso costo per ascoltare musica in sottofondo mentre si sta facendo altro. Anche in questo caso è finito un mondo e l’oggetto della discussione non è più estetico (com’è il video oggi), ma di esperienza e consumo: cosa vuol dire vedere un videoclip musicale, chi lo vede, che utilità ha, dove vuole andare e a chi comunica? Queste sono domande che ci raccontano della logica dell’attenzione e di come intendiamo la musica oggi. Alzi la mano chi sa raccontare senza ripassare un video della propria band o artista preferita oggi.

Per non essere per forza nostalgici di un periodo che non tornerà più, dobbiamo lasciarci alle spalle l’idea che prima fosse meglio (anche perché non lo era: tra crisi economiche, attentati terroristici, disordini di massa e G8 di Genova era un gran bel casino anche lì e nonostante ci fosse l’idea che un altro mondo fosse possibile anche grazie alla musica, qualcosa è indubbiamente andato storto), ma tenere il buono che l’epoca dei videoclip ci ha lasciato: la capacità di stupirsi, di innamorarsi di quello che non si aspettava, la possibilità di sapere che quello che si stava guardando era condiviso da tantissime persone che, pur senza conoscersi, avevano un lessico comune costruito grazie alla musica e, sì, grazie ai video.