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Dopo aver visto questo documentario smetterete di ridere dei Milli Vanilli

Presente il duo che metteva la faccia a hit di fine anni ’80 come ‘Girl You Know It’s True’, mentre altri mettevano le voci? La storia è più complicata (e toccante) di quel che sembra

Foto: Michael Putland/Getty Images

I Milli Vanilli sono passati alla storia come uno dei più grossi scandali pop di tutti i tempi. Sappiamo com’è andata. Due bellocci europei di colore, Fab e Rob, fanno il botto nella scena dance-pop anni ’80 col tormentone Girl You Know It’s True, centrano tre numeri uno negli Stati Uniti, vincono un Grammy come migliori artisti emergenti. Avevano le pettinature più appariscenti e i pantaloni più stretti di tutti. Erano i numeri uno. Si scoprirà poi che i due si limitavano a mimare i pezzi in playback e che non avevano mai cantato una singola nota delle loro hit. Fine della storia: Fab e Rob vengono banditi dalle radio, si vedono revocare il Grammy, diventano la barzelletta più triste dell’ambiente.

Milli Vanilli, il documentario firmato dal regista Luke Korem e presentato in anteprima al Tribeca Film Festival (in autunno su Paramount+) racconta la storia da un altro punto di vista. Si concentra sul lato umano della faccenda e sul meccanismo di creazione delle star. Si scopre, così, che in questa storia c’è molto più di quanto si possa pensare.

Rob Pilatus non si è mai ripreso dall’umiliazione ed è morto nel 1998 dopo anni passati nella terribile morsa della tossicodipendenza. Fabrice Morvan è vivo e determinato a raccontare la sua verità. «C’è un proverbio francese», dice a Rolling Stone. «La verità fa le scale, le bugie prendono l’ascensore».

Fab e Rob sono i capri espiatori nel processo di demonizzazione dei Milli Vanilli. Tutti erano indignati con loro e non col loro produttore, coi manager o con la casa discografica. «Presente quando nei film sulla mafia, i federali hanno un tabellone sul muro pieno di foto?», dice Morvan. «Si parte dall’alto: “Questo è il boss, questo è un pezzo grosso, questo invece è uno che esegue gli ordini”. Qui invece i giornalisti hanno sempre considerato noi due i responsabili. Nessuno voleva dar fastidio ai pezzi grossi».

Fab, nato a Parigi, e Rob, che era tedesco, erano outsider da molti punti di vista. Si sono conosciuti a una festa a Monaco. «E non c’erano molte persone di colore a Monaco», racconta Fab nel documentario. «Eravamo gli unici con la pelle scura». Avevano avuto entrambi un’infanzia turbolenta e stavano cercando di farsi una vita. Sono andati a vivere insieme, sognando di diventare famosi. «Era come un fratello maggiore per me», dice Morvan. «Non parlavo bene il tedesco e lui mi proteggeva, in molti sensi».

È stato il produttore tedesco Frank Farian, noto per avere lavorato coi Boney M, i discotecari folli degli anni ’70 famosi ovunque tranne che negli Stati Uniti, a offrire loro un contratto. I due erano giovani, affamati, disposti a firmare qualsiasi cosa. Racconta Fabrice che «non abbiamo neppure letto il contratto». Erano a terra quando Farian ha impedito loro di cantare nel loro singolo di debutto del 1988, Girl You Know It’s True. Quando Farian ha pubblicato l’album d’esordio in Europa, in copertina c’erano sì i loro bei volti, ma i loro nomi non erano nemmeno citati nei crediti.

All’epoca nessuno, ma proprio nessuno, pensava che a cantare fossero Rob e Fab. E a nessuno importava: compravamo i loro dischi perché erano pieni di pop-funk divertentissimo (potrete avere la mia cassetta di Blame It On the Rain solo strappandola dalle mie mani fredde di cadavere). Pilatus non riusciva a tacere nelle interviste ed esprimendosi col suo inglese zoppicante faceva capire che la sua voce non somigliava per niente a quella baritonale e con accento americano che si sentiva nelle canzoni. «Tutti mi chiedono se canto in questo disco, persino mia madre me lo chiede», diceva all’epoca Pilatus. «Sono molto orgoglioso e questa cosa mi imbarazza… devo subirla continuamente, finché non mi verrà un cancro allo stomaco e morirò».

Quando si sono esibiti alla cerimonia dei Grammy l’hanno fatto palesemente in playback. E alla proiezione del documentario al Tribeca una delle immagini che più hanno divertito il pubblico è stato il primo piano di Ozzy Osbourne, in smoking, che assiste alla loro performance con una smorfia d’imbarazzo sul viso. Ozzy ne ha viste di cose strane in vita sua, ma persino lui, di fronte a quello spettacolo, sembra domandarsi: «Ma che roba è?».

Rimarrà per sempre un mistero il motivo per cui Farian ha scelto di svelare così platealmente la sua truffa. Sarebbe stato normale tenersi un margine per un’eventuale smentita, avrebbe potuto mandare i ragazzi a fare qualche session di registrazione improvvisata, senza però usare i nastri, non dire loro la verità e lasciare che s’illudessero di essere presenti nel mix. Non gli sarebbe costato nulla. E invece ha sbattuto in faccia la verità ai due, forse per intimorirli. È stato un errore da novellino che, alla fine, gli è costato una montagna di denaro (avrete notato che, da allora, nessun magnate del pop ha commesso lo stesso passo falso).

«Abbiamo sposato quella menzogna», dice Morvan nel documentario. E alla fine il successo ha dato loro alla testa. Quando hanno vinto il Grammy, Paul McCartney ha cercato di congratularsi con loro, ma Pilatus gli ha detto: «Più tardi». Le sue manie da divo erano fuori controllo. «Musicalmente siamo più talentuosi di qualsiasi Bob Dylan», disse Rob a Time. «A livello musicale abbiamo più talento di Paul McCartney. I versi cantati da Mick Jagger non sono chiari, non sa come modulare il suono. Io sono il nuovo rock’n’roll moderno. Sono il nuovo Elvis».

I media non vedevano l’ora che i due capitolassero e il film lo mostra chiaramente. Il contraccolpo è stato feroce, era il ruggito dei boomer che volevano riprendere il controllo dell’establishment. In quell’ondata di indignazione si percepivano anche un po’ di razzismo e omofobia (Fab e Rob non erano gay, ma erano bei ragazzi europei degli anni ’80 e quindi gli americani pensavano automaticamente che lo fossero). In una scena che ha disgustato il pubblico del Tribeca, Howard Stern fa una loro parodia con tanto di blackface.

Il documentario contiene sequenze incredibili della prima conferenza stampa dopo lo scoppio dello scandalo, in una stanza piena di giornalisti incattiviti che continuano a blaterare di integrità. Una di loro chiede: «Come facciamo a sapere che non state mentendo?», manco fosse plausibile che si fossero inventati tutto. Rob e Fab chiudono la conferenza stampa cantando Girl You Know It’s True dal vivo, e lo fanno pure bene. Nessuno però li ascolta.

I due hanno dovuto restituire il Grammy. «Sai cos’è successo alla statuetta?», m’ha chiesto Morvan. «Si trova al Grammy Museum. L’hanno rotta e piazzata su una mensola. Qualcuno mi ha mandato una foto. Ho pensato: “Oh mio Dio, si sono spinti fino a questo punto?”».

L’intera industria musicale si disse scioccata all’idea del playback, ma la domanda che torna in tutto il documentario è: cosa sapeva Clive Davis e quando l’ha saputo? Il presidente dell’Arista ha sempre detto che lui e la sua etichetta erano all’oscuro di tutto. Alcuni intervistati sembrano suggerire il contrario. Dice regista che «nel girare il film ho trovato interessante la totale assenza di rimorso e la mancanza di qualunque volontà di dire finalmente come stavano le cose trent’anni dopo. Nessuno riesce ad ammettere che “Rob e Fab non avrebbero dovuto essere quelli su cui ricadeva tutta la colpa”. Nessuno dice: “Era il nostro progetto, i Milli Vanilli non erano solo Rob e Fab, anzi, non era nemmeno una loro idea”».

E di certo i due non erano le uniche belle facce del pop che cantavano in playback. All’epoca si diceva di continuo che le star si facevano “addolcire” le parti vocali. Ma c’era qualcosa in più, in Rob e Fab: la loro bizzarria, il loro essere stranieri, la loro androginia, il loro accento, la loro personalità che li rendeva un facile bersaglio. È per questo che, nel corso degli anni, i Milli Vanilli sono diventati una leggenda negativa, mentre i C+C Music Factory sono stati semplicemente dimenticati.

Quando sono tornati come Rob & Fab, con un album davvero loro, ormai la partita era chiusa. Farian ha poi pubblicato un disco accreditato a The Real Milli Vanilli intitolato The Moment of Truth. Pilatus è tragicamente entrato nell’elenco delle vittime della droga: è andato più volte in riabilitazione per la dipendenza dal crack e infine è morto in una stanza d’albergo, dopo avere ingerito un mix di alcol e pillole. Morvan si è trasferito ad Amsterdam, si è rifatto una vita, ha cercato di dimostrare che è un vero artista. Ha messo su famiglia e ha ricominciato come cantautore.

Il film si chiude in modo toccante: Fab si esibisce all’aperto e canta Blame It On the Rain di fronte a un pubblico che lo incita e lo sostiene. Il documentario, così, si trasforma in un tributo sorprendentemente toccante alla sua resilienza. Come dice Morvan adesso, «essere sottovalutati è la cosa migliore. Ancora oggi la gente pensa che io non sappia beccare una sola nota, però poi mi sente cantare. La musica mi ha aiutato a guarire. Ecco perché io e la musica non ci separeremo mai e poi mai».

Da Rolling Stone US.

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