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Dodici ore indimenticabili coi Black Sabbath

Le avventure dei quattro in America nel 1971: le groupie «disgustose» su cui Ozzy vuole pisciare, i lassativi al posto delle anfetamine, il «mondo satanico», i concerti spaccatimpani, le famiglie a casa

Dodici ore indimenticabili coi Black Sabbath

I Black Sabbath a inizio carriera

Foto: Michael Ochs Archives/Getty

«È diversa».
«In che senso?».
«È heavy».
«Heavy?».
«È inquietante. Ti sembra di stare in un cimitero».
«E ti piace questa sensazione?».
«Mi fa sentire più vivo».

La limousine accosta di fianco alla Rhode Island Arena e i passeggeri, alcuni muniti di strumenti musicali, escono e si dirigono verso l’entrata secondaria. Il percorso è interrotto da un gradino di cemento di una sessantina di centimetri che tutti saltano con la maggiore disinvoltura possibile, trasportando le custodie delle chitarre e tutto il resto. I poliziotti coi manganelli stanno fermi a guardare, affascinati dalle quattro rockstar con l’aspetto da duri, dalla limousine, dall’autista, dagli strumenti nelle custodie nere. Un poliziotto batte forte, per tre volte, sull’entrata laterale. La porta si apre e ne esce un uomo in giacca rossa da usciere, calvo e alto un metro e 60.

«Sì?».
«Sono arrivati», dice il poliziotto.
«Chi?», chiede l’omino.
«Il gruppo che suona qui stasera, i Black Sabbath».
«Da questa porta non passa nessuno», risponde l’uomo scuotendo la testa. «Entrano dall’altra parte».

«Solo un minuto», interviene il manager del gruppo con un accento inglese elegante. Indossa un completo blu chiaro con camicia bianca arricciata, scarpe bianche senza calze e una borsa di lana bianca a tracolla. «Siamo il gruppo che suona stasera».
«Non mi interessa chi siete, amico. Ho ricevuto degli ordini. Nessuno entra da questa porta. Andate dall’altra parte».
«Davvero, signore», dice il manager con tono ragionevole. Attraverso la porta leggermente aperta riesce a vedere che l’ingresso a cui si riferisce è proprio di fronte, sul lato opposto, identico a questo. «È meglio che ci faccia entrare».
L’uomo con la giacca rossa non ne vuole sapere, così anche il poliziotto e l’autista cercano di convincerlo a far passare il gruppo. Quello è irremovibile e ripete: «Da questa porta non entra nessuno. Andate dall’altra parte».
«Va bene!», urla il manager. «Va bene, non ci sarà nessun concerto se non ci fate passare».
«E che mi importa», dice l’omino alzando le spalle. «Non m’interessa. Da questa porta non entra nessuno. Fate il giro dall’altra parte».
«Va bene», ribadisce il manager, stizzito, e poi con tono fermo, a bassa voce, scandendo bene: «Va bene, non ci sarà nessun concerto. Tornate tutti in macchina».
«Providence del cazzo», urla un giovane fan. «Sono degli incapaci!».
In macchina Ozzy sgrana gli occhi, Billy fa spallucce, Geezer sorride e Tony rimane impassibile. Sono tutti rilassati e di buon umore, sanno cosa succederà. Ma il manager è ancora furioso.

Stranamente non sono stanchi. È il loro terzo concerto in tre giorni in altrettante città, ne hanno altri due da fare solo questa settimana e per ognuno devono prendere degli aerei. Sono arrivati in volo da Philadelphia ed è la terza settimana di un tour di sei settimane negli Stati Uniti orientali. Dopo un mese di riposo in Inghilterra faranno la costa occidentale. Sempre che Ozzy, il cantante, riesca a mantenere il controllo. All’aeroporto gli altri erano tranquilli, ma lui ballava saltellando prima su un piede e poi sull’altro con gli occhi verdi spalancati che si muovevano nervosamente. Durante il tragitto verso l’Holiday Inn di Providence parla in continuazione e reagisce violentemente quando lo speaker del notiziario radiofonico annuncia che in settimana in Vietnam c’è stato un calo record di morti. «Solo 25, dice! Davvero, è disgustoso: stanno parlando di vite umane».
«È opera del diavolo», commenta Geezer sorridendo.

*

Nella hall dell’albergo, il gruppo si raduna intorno al manager che, come se fosse il supervisore di un campo estivo, legge i nomi sulle lettere che i ragazzi devono ritirare. Niente per Ozzy, Tony o Geezer, ma ce ne sono una per il roadie e una per Bill, il batterista, da parte della moglie che vive a Wittington, fuori Londra. Lui dà un’occhiata veloce alla scrittura ordinata su carta blu e mette in tasca la lettera per leggerla con calma più tardi, dopo pranzo. Entrano nella sala da pranzo dell’Holiday Inn. «Disgustoso», borbotta Ozzy guardando i mobili di plastica rossa e le pareti. Tony, il chitarrista, è seduto a un tavolo col road manager. I capelli lunghi portati con la frangia sembrano quasi una parrucca. Pare un buttafuori grosso e corpulento oppure un pugile peso massimo vestito da donna. È chino su una macedonia guarnita da ombrellini di carta che rimuove con cura. «È il più silenzioso del gruppo», dice Bill indicando Tony con l’ombrellino di carta che ha appena tolto dal suo cocktail di gamberetti. «È il più grande, ha 23 anni, ed è il musicista migliore fra noi». Bill ha modi educati e le unghie mangiucchiate.

Geezer, il bassista gentile e sornione sorride timidamente e ordina un pranzo vegetariano. Mangia un toast al formaggio con coltello e forchetta e dà un assaggio al purè di patate. Ha un modo di fissare le persone, quando parla, come se fosse in grado di vedere dentro di loro. È il settimo figlio di un settimo figlio, sostiene di essere Lucifero e di riuscire a vedere il diavolo. Fatica a prendere una cucchiaiata del suo melone, che è duro come una roccia ma almeno non ha l’ombrellino. «È un mondo satanico», sospira, parlando a bassa voce. «Il diavolo ha più potere ora ed è più felice che mai». Fa un sorriso ironico. «Le persone non possono unirsi, non c’è uguaglianza. Più sali in alto, più persone devi far fuori. Ti senti migliore degli altri, pensi siano inferiori a te, ed è un peccato, eppure è così che fa la gente».

Durante il tour dell’anno precedente, Geezer ha preso degli acidi con altre persone, a Los Angeles, e ha fatto dei bad trips in cui ha visto il male che si annida ovunque. «Anche nelle comunità dei freak», dice, «la gente cerca di essere più stramba degli altri, di superarli, di essere migliore. Questa è opera del diavolo: ecco perché ci sono le guerre».

«Questa zuppa di piselli sa di piscio di moscerino», dice Ozzy, che comunque non ha molta fame, forse per via degli antidepressivi che prende da qualche giorno, dopo aver avuto qualche problema con la moglie lontana. «Sono innamoratissimi», dice Bill quando il cantante lascia il tavolo per prendere le sigarette. «Non riesce proprio a starle lontano. Il problema che hanno è troppo complesso e personale per parlarne ora. Ha a che fare con qualcosa che è successo tempo fa».

Tutti quelli che entrano nella sala da pranzo riconoscono il gruppo per via della foto pubblicata dal Providence Evening Bulletin e si fermano per augurare buona fortuna per il concerto di quella sera. «Non fate caso a me», dice una signora con un’acconciatura vaporosa. «Non so niente di queste cose, ma è per mia figlia». Piazza un foglio di carta e una matita davanti alla faccia di Geezer, bloccandogli a mezz’aria una forchettata di piselli. «Ha dei biglietti per il concerto di stasera?», chiede. Sua figlia gradirebbe.

«Queste cazzo di groupie», mormora Ozzy, tornando al tavolo. «Te lo dico: alla prossima che viene da me, le piscio addosso. Io e Bill abbiamo deciso di farlo. Vero Bill? Pisciamole addosso. Sono disgustose. Ti ricordi, Bill, quella volta ad Atlanta, in Georgia? Una troia mi ha telefonato e mi ha detto: “Sono la pompinara migliore del mondo, posso salire da te?”. Le ho dato il numero della stanza di Geezer e le ho detto di salire, per ridere. «È andata nella camera di Geezer e senza dire una parola si è spogliata e si è sdraiata sul letto a gambe aperte, mentre Billy, io e Geezer la guardavamo. “Nessuno mi scopa?”, ci ha chiesto. Siamo rimasti tutti lì a guardarla, un po’ inorriditi. Aveva un aspetto patetico e disgustoso. Alla fine, visto che nessuno le si avvicinava, si è incazzata, si è alzata e si è rivestita: “Che delusione siete voi ragazzi inglesi”. Ci ha detto che eravamo un branco di froci ed è uscita dalla stanza. Ma la prossima volta non me ne starò lì impalato. Le piscerò addosso, cazzo». Fa una risata che sembra un gemito. «Aspetta che mia madre lo legga, non mi parlerà più».

I ragazzi hanno fatto molta strada dai tempi della loro infanzia ad Aston, un quartieraccio di Birmingham dove le risse di strada sono la normalità. Sono entrati in bande che si davano battaglia. I genitori lavoravano in fabbrica e lo stesso destino sarebbe toccato a loro se non avessero messo in piedi una band. «È un hobby retribuito, se vuoi», dice Ozzy, «ed è una buona scusa per non cercarsi un lavoro vero».

La band si è formata a gennaio del 1969 con il nome di Earth, cambiato poi in Black Sabbath un anno dopo. Il primo anno l’hanno passato in tour per l’Europa, ma in Inghilterra sono rimasti degli sconosciuti fino all’uscita del primo album Black Sabbath, che è arrivato rapidamente in Top 10. Hanno iniziato a portare delle croci di ferro fatte dal padre di Ozzy per allontanare gli spiriti maligni, ombre che secondo loro li tormentavano. «Un’ombra incombe su tutti noi», dice Geezer, «è l’ombra della prossima guerra mondiale. Non si esce vivi dalla vita, quindi non ne vale la pena. Le persone che non conducono una vita spirituale e vivono solo per il momento sono guidate dal diavolo. I miei testi parlano di questo, delle cose che stanno succedendo ora. Guerra e paranoia, morte e odio. Cose che fanno riflettere la gente su ciò che sta succedendo».

«La nostra musica è aggressiva, la gente può scatenarsi sentendola», dice Ozzy. «È una valvola di sfogo. Lo vedo succedere ai concerti. Facciamo scaricare l’aggressività della gente. Così nessuno andrà a picchiare le vecchiette. Funziona anche su di me. Ad esempio, quando sono a casa per un po’ di tempo, senza lavorare, senza potermi sfogare, io e mia moglie ce la prendiamo di brutto l’uno con l’altra perché sono represso. La musica è uno sfogo, sia per me che per il pubblico».
«Una volta ci divertivamo», disse Bill.
«Prima che iniziassero a sfruttarci e tutto il resto», aggiunge Ozzy.
«Era tutto spontaneo e ci divertivamo. Ma adesso è più un lavoro. Dobbiamo stare attenti a quel che diciamo e facciamo, c’è più gente che ci osserva».
«Dovete essere dei bravi ragazzi inglesi», dice Ozzy.
«Non proprio, ma adesso che la gente si è accorta di noi dobbiamo essere più cauti. Prima non ce ne fregava niente. Suonavamo in piccoli club in Inghilterra e in Germania. Come lo Starr Club di Amburgo. Ricordate quella sera in cui una ragazza ha dato a Geezer delle pillole, dicendogli che erano anfetamine? Poi si è scoperto che erano lassativi e Geezer doveva correre giù dal palco per cagare ogni cinque minuti. Aveva il culo devastato, cazzo!».

Tutti lo ricordano e ridono. «Finivamo di suonare, facevamo cinque set a sera, e uscivamo in città a seminare il panico. Allora potevamo dare delle feste, ora non possiamo più. Dobbiamo alzarci presto e volare da qualche parte per fare un concerto il giorno dopo».
«Adesso è più una questione di soldi», dice Ozzy. «Farò più soldi che posso e poi mi sparerò».
«Mi chiedo chi di noi due morirà per primo», dice Geezer.
«Di sicuro io», risponde Ozzy. «Morirò prima dei 40 anni».
«Ma le cose ci stanno andando bene», continua Bill. «Ci piace suonare la nostra musica, e i concerti hanno fatto il tutto esaurito: tocchiamo ferro». Comincia a battere sul tavolo, per scaramanzia, ma è di formica, così come le pareti, le sedie e tutto il resto.

Dopo pranzo Bill e Ozzy salgono nella stanza di Bill per bere qualche birra e riposare. A volte, negli alberghi, vanno in piscina, ma per lo più ammazzano il tempo chiacchierando fino all’ora del concerto. Anche nella stanza ogni cosa è  in formica: i due letti matrimoniali, le scrivanie e l’armadio. Il televisore è piazzato davanti a due immagini identiche di tre cavalli arancioni sul muro. La stanza di Ozzy è in fondo al corridoio e la divide con Bill. «Ma Oz si alza troppo presto, alle 8, e accende la tv. Una volta eravamo in un hotel su un lago e Oz si è messo a pescare dalla finestra. Ero lì che bevevo il tè e un pesce enorme è entrato volando dalla finestra. Aveva preso uno squalo di sabbia. L’abbiamo messo nella vasca da bagno, ma quando siamo tornati la sera era morto. L’abbiamo fatto a pezzi e l’abbiamo ributtato fuori dalla finestra, nel lago».

Ozzy si sdraia sul letto. Stare in tour non gli piace proprio. «È tutto orribile, volare qua e là, atterrare. Le stanze d’albergo sono tutte identiche, tutto è sempre uguale, anche i muri: questa roba mi fa impazzire. Durante l’ultimo tour mi sono spaventato. E poi mi sono incazzato: quelle groupie fastidiose e bastarde mi hanno rovinato. La prossima volta gli piscio addosso, vero Bill?». Bill annuisce senza alzare lo sguardo dalla lettera che sta leggendo. «In famiglia abbiamo molti problemi psicologici. Io sono nervoso di brutto. Durante l’ultimo tour ho avuto dei momenti di blackout. Ma non mi interessa, mi basta che tutto vada bene a gennaio», ovvero il mese in cui sua moglie dovrebbe partorire.

«Facevo cose assurde. A dire il vero ero molto esuberante. A 18 anni ho rubato un po’ di cose, un sacco di vestiti da donna, andavo in giro a vendere calze nei pub. Mi hanno beccato e sono finito in prigione. È lì che mi sono fatto i tatuaggi». Su entrambe le mani ha scritto “Ozzy”, con una lettera su ogni nocca, mentre sulle ginocchia ha due volti sorridenti «per tirarmi su il morale quando li guardo. L’ho fatto per passare il tempo in prigione, con un ago e l’inchiostro di china. Adesso sto abbastanza bene di testa, ma non durerà molto, dopo che avrò preso questa pillola». Tira fuori dalla tasca un flacone con dentro delle capsule enormi. «Si chiamano Metrospan, ti danno una bella legnata. Me le ha prescritte un medico per la depressione, qualche giorno fa. Devono avere dentro un po’ di anfetamina perché mi fanno impazzire». Si appoggia al letto e sospira, ha gli occhi pieni di lacrime.
«Finché ci saremo io e mia moglie, i miei figli e il mio gruppo starò bene. Ma a volte inizio a domandarmi se la mia famiglia mi aspetterà. Mi chiedo se mia moglie s’incazzerà mentre io sono in giro, in studio e tutto il resto. Non so cosa farei senza di lei».

Bill ha finito la sua lettera e ha stappato un’altra birra calda. È felice. Lui e la moglie si sono appena trasferiti nella loro casa in campagna. Dice di voler guadagnare il più possibile e che gli piace il modo in cui lo sta facendo. Dalla valigia tira fuori due foto e le guarda: una è della moglie, in piedi accanto al letto con un accappatoio rosso, l’altra è una foto del «mio pub». Nella valigia di Bill ci sono anche dei sacchetti di plastica pieni di vestiti bagnati. «Non c’è tempo per stenderli ad asciugare, ecco perché tutti i miei vestiti sono bagnati o sporchi e puzzolenti. Sono arrivato all’ultima camicia pulita».

Tony entra nella stanza e si alza i pantaloni per mostrare il nuovo paio di stivali che ha appena comprato. È a torso nudo e il suo corpo è coperto di peli davanti e dietro. Il suo fisico è un rettangolo perfetto. Sulla parte bassa della schiena ha due cerotti simmetrici, uno per lato. Bill spiega che si è ferito in piscina, qualche giorno prima. Tony dice che nella stanza di Geezer ci sono due groupie che in qualche modo sono riuscite ad arrivare lì. Bill e Ozzy vanno a indagare, con Ozzy che mormora «maledette troie».

Geezer è in piedi davanti allo specchio: si spazzola i lunghi capelli e prova una camicia nuova davanti agli amici. Sul poggiabagagli c’è una ragazza seduta e la sua amica è in piedi dietro di lei, con le braccia incrociate. Entrambe sorridono cupe e nervose quando qualcuno guarda verso di loro. Il road manager ringrazia la ragazza in hot pants per avergli stirato i calzoni.
«Nessun problema, non è niente», risponde lei tutta contenta. Poi le due rimangono in silenzio a guardare i ragazzi che parlano del concerto imminente e degli eventi della giornata. Mentre Tony era in giro a fare shopping due ragazze l’hanno seguito da un negozio all’altro «facendo domande stupide e ridacchiando. Peccato che erano brutte», dice.

Le due tipe si irrigidiscono, poi si congedano quando viene detto loro che i ragazzi stanno per uscire per il concerto. Nella hall dicono di non essersi divertite granché. «Sono stati davvero poco amichevoli», commenta una.
«Be’, in fondo», dice la sua amica, che indossa un abito lungo per nascondere la ciccia, «abbiamo invaso la loro privacy».
«Ma avrebbero potuto essere un po’ più gentili. Secondo me sono stati stronzi».
Nella stanza, i Black Sabbath ridono.

*

All’Arena c’è il pieno. La capienza è di quasi 7000 posti a sedere, i promoter parlano di 4000 spettatori. Nel pomeriggio, alla biglietteria hanno detto di non aspettarsi problemi. «Sembrano ragazzi simpatici, quelli che vengono qui. Un paio di settimane fa abbiamo avuto un concerto con gente di colore e ci sono stati problemi, ma stasera non ne avremo». Comunque è pieno di poliziotti: per avere il permesso di tenere un concerto qui, i promoter hanno dovuto accettare la presenza ben 72 poliziotti, oltre a versare una cauzione di 300 mila dollari.

«La loro musica è così rumorosa da far male», dice un dirigente della Warner Brothers che proprio non si spiega la popolarità del gruppo. «Sono stato costretto a uscire a volte per via del volume. Suonano per un pubblico giovane, diciamo tra i 14 e i 17 anni, ma mi domando come sappiano di loro. Si sparge la voce che questo è un gruppo da vedere». Un altro discografico la mette così: «È incredibile. Non sono come gli altri nostri artisti e non ci spieghiamo la loro popolarità, nessuno riesce a capirla. Non hanno goduto di molta pubblicità, ma i loro concerti sono sold out e i loro album vendono milioni di copie. I ragazzini si scatenano ai concerti e poi corrono a comprare i dischi, e noi li adoriamo». I primi due album del gruppo Black Sabbath e Paranoid hanno venduto un milione di copie complessivamente, rendendo i Black Sabbath tra i migliori artisti della Warner Bros, per lo stupore di tutti.

Anche le persone al concerto non sono in grado di spiegare perché i Black Sabbath piacciono tanto. Molti, quando gli si chiede della loro musica, si limitano a scrollare le spalle o a dire «fa paura», «è stramba», «è inquietante» o «è strana». Una ragazza con una felpa su cui è disegnato un volto sorridente come quello sulle ginocchia di Ozzy spiega: «Non sono stati costruiti. Abbiamo sentito la loro musica prima ancora di sentirne parlare: è come se li avessimo scoperti da soli». Ad alcuni non piace affatto la musica o non avevano mai sentito parlare dei Black Sabbath, ma alla domanda sul perché siano venuti rispondono: «Non c’era nient’altro da fare».

«Mi fanno paura», dice una ragazza. Mastica lentamente un chewing-gum e ha la pelle chiarissima coperta di lentiggini. «Sono malvagi e strani». Perché è venuta allora? «Mi piace avere paura». Si mette a masticare la gomma un po’ più velocemente. «Spero che stasera sacrifichino qualcosa. Un sacrificio umano sarebbe bello. Lo farei io stessa se poi non finissi in prigione».

Un altro ragazzo pallido è con degli amici. Tutti hanno delle magliette con un’aquila e la scritta “Italian-American Rights League”. Perché gli piace la musica dei Black Sabbath? «È diversa», dice facendo spallucce. Gli altri, in piedi come lui e tutti nella stessa posa alla James Dean, scrollano le spalle e annuiscono solennemente. Cosa intende per diversa? Lui tira fuori un pacchetto di sigarette dalla manica arrotolata della maglietta. «È heavy», spiega accendendosi una Marlboro, con gli occhi che si chiudono a fessura mentre inspira. Heavy? Alla domanda ha un moto di disappunto, poi si illumina e fa un cenno a un un ragazzo con l’acne e coi capelli come quelli dei suoi amici che profumano di brillantina.
«È inquietante», spiega l’amico, «ti sembra di essere in un cimitero». Dice che gli piace quella sensazione. «Ti fa sentire più vivo».

La maggior parte delle persone nell’atrio affollato è abbronzata: frequentano il lungomare di Scarborough Beach nella calda estate del Rhode Island e viaggiano in decappottabili customizzate ascoltando la radio AM e bevendo birra. I loro genitori non li hanno portati in una casa per le vacanze a Westport, a Cape Cod o a Narragansett: sono ragazzi che hanno dovuto rimanere a casa a lavorare, invece di andare in autostop in Colorado o Berkeley. C’è un capellone che non è affatto contento: ha una camicia indiana marrone e dei sandali, si vanta di avere viaggiato fino a Berkeley e Denver quest’anno e si lamenta amaramente di essere a Providence. «La odio. L’acqua verde dell’oceano mi dà sui nervi. E questo auditorium è una merda. L’acustica è terribile, e poi guardate ’sta gente. Solo un mucchio di maledetti greaser, dei benzinai. Non resisto. Appena riesco a trovare un po’ di grana me ne vado».

Un gruppo di ragazzi sembra piuttosto felice: sono sdraiati sul pavimento di cemento per sconfiggere il caldo, appoggiati a dei bidoni dell’immondizia piazzati sotto la targa del giocatore del mese della squadra di hockey Rhode Island Red, a cui ora manca la foto. «Ci piacciono i Black Sabbath», concordano tutti. «La loro musica ti sballa senza nemmeno doverti drogare».

Di fronte all’ingresso è affissa un’altra targa che dice: “Sui campi in cui si gareggia amichevolmente sono stati gettati i semi che in altri anni, su altri campi, porteranno i frutti della vittoria. Generale Douglas MacArthur”. Ci sono un’aquila con una bandiera e un’immagine di giocatori di football, pugili e stelle dell’hockey che si sfidano. Appoggiato alla parete accanto alla targa c’è un giovane di colore con un orecchino. Perché gli piacciono i Black Sabbath? «Ho sentito dire che sono cattivi, ecco perché sono qui». Cattivi? «Non cattivi in senso negativo». Un ragazzo bianco gli si avvicina dandogli una stretta di mano da amiconi. Anche lui porta un orecchino. «Come va, fratello?».
«Tutto ok, amico. Come stai?».
«Hanno appena beccato un mio amico».
«Brutta storia».
«Già». Anche lui crede anche che i Black Sabbath siano cattivi. «Sono dinamite, amico. Sono il presente. Ci sanno fare, sono un gruppo figo. Mi piacciono, amico, sono cattivi».

Nell’atrio ci sono tre persone diverse da tutte le altre. Sono adulti ben vestiti e una di loro si chiama Jane. Hanno avuto dei biglietti gratuiti per il concerto e sono venuti a curiosare. Un gruppetto di adolescenti si avvicina a loro e uno si rivolge a Jane: «Ehi signora, quanti anni ha?».
«Tu cosa dici?», risponde Jane.
«Ha 29 anni», dice un tizio con una felpa di Spiro Agnew.
«Ne avrà almeno 40».
«Forza signora», insiste quello di Spiro Agnew. «Quanti anni ha?».
«Vaffanculo», risponde Jane ai ragazzi, che sbalorditi se ne vanno.

Due ragazze in carne, coi capelli neri lucidi tenuti fermi da delle mollette, corrono strillando tra la gente e col loro accento di Cranston gridano: «Abbiamo i loro autografi, abbiamo i loro autografi!». I Black Sabbath sono arrivati. Sono nei camerini in attesa del momento di salire sul palco. In inverno l’arena è una pista di pattinaggio e ospita i famosi Rhode Island Reds, una squadra di hockey: all’ingresso sono appesi i poster della Hockey Players Hall of Fame. Subito sotto ci sono degli adolescenti accaldati e sudati che si accomodano ai posti assegnati. Si siedono tranquilli, ordinati e attenti mentre gli ampli passano i Black Oak Arkansas. Ma appena escono i Black Sabbath si animano: saltano in piedi, corrono verso il palco, travolgono i poliziotti, che non riescono a fare nulla, e scavalcano il divisorio che separa l’area destinata ai possessori di biglietti da 6 dollari e 50 dal resto della sala. Le persone si ammassano, schiacciate l’una contro l’altra e contro il palco. Più indietro c’è gente che si è alzata in piedi sulle sedie o si è seduta sulle spalle di qualcuno. I poliziotti rinunciano a mantenere l’ordine e lasciano che la folla si regoli da sé.

«Sedetevi!», urlano alcuni col biglietto da 6,50, «o vi spacco la testa!». La minaccia ben presto si trasforma in una cantilena urlata in coro. Ma quando parte la musica, Ozzy, Bill, Tony e Geezer assumono il controllo. Il suono esplode dall’amplificazione, arrivata direttamente dall’Inghilterra, a un volume così potente che qualche settimana prima a Winnepeg, stando a Bill, ha rotto un timpano a un fan. La musica riempie l’enorme arena e ormai fa un caldo terribile: il sudore sale dai corpi a torso nudo, formando una nebbia che diventa colorata per l’effetto dei riflettori. L’odore di droga e di sudore avvolge tutti in una nuvola umida che si fonde con la musica e le parole che Ozzy intona, urlando e muovendo il pugno in aria mentre salta su e giù.

Tutti seguono Ozzy e agitano i pugni in aria. Alcune mani alzate stringono dei piccoli libri rossi di Mao. L’arena trema per il battere di piedi e le vibrazioni del suono quando Ozzy canta War Pigs. La band suona pezzi come Black Sabbath, Wicked World, Electric Funeral e Paranoid, su un uomo tormentato che pensa che l’amore non esista, è incapace di essere felice e vuole morire. I testi di queste canzoni rock dure come il ferro contengono immagini che evocano un mondo in rovina, l’inferno sulla Terra, la frustrazione dell’uomo ed esplosioni nucleari, mentre il diavolo se la ride. Il tutto accompagnato da una musica fortissima, simile a un lamento funebre. Il pubblico apprezza tantissimo.

Fanno anche dei brani tratti dal loro album appena uscito, Master of Reality. La musica e il tema delle canzoni sono esattamente in linea coi due dischi precedenti: aggressioni feroci e rabbiose dirette all’apparato uditivo e all’incolumità delle persone che popolano il mondo che li circonda. Un pezzo, Children of the Grave, spiega bene ciò che provano: “Revolution in their minds, the children start to march / Oh the hate that’s in their hearts”.

La balconata in alto è il punto più caldo. La nebbia lassù è come pioggia e c’è poca aria: non si respira quasi. Però c’è un ragazzo tranquillamente addormentato sul pavimento di cemento: la gente lo scavalca educatamente, spostandosi. I poliziotti si sono radunati sulla rampa che porta al piano superiore dell’Arena. Storcono il naso per il volume della musica e sembrano spaesati. Uno di loro scuote mestamente la testa, un altro si copre le orecchie e uno ride tappandosi il naso. Tra una canzone e l’altra un agente commenta: «Sono i peggiori che abbiamo visto finora. Il volume è troppo alto. Zero classe». Ma il pubblico non è d’accordo.

Dalla parte alta dell’Arena si può osservare uno spettacolo tristemente familiare. Sembra una scena di un incubo o uno scorcio di un mondo mitologico in fiamme: i corpi che si contorcono, seminudi, inondati di luce viola, rossa e verde, il sudore, la nebbia, il fumo, il frastuono incessante delle urla, la musica funerea. E poi c’è la voce di Ozzy che urla dagli altoparlanti: «No! No! Ti prego Dio, aiutami!». I Black Sabbath hanno dato vita a un inferno nella pista per il pattinaggio su ghiaccio. E Ozzy ha fatto marciare i suoi seguaci dritti verso l’inferno.

Alla fine del concerto tutti sono esausti. Ozzy, Bill, Tony e Geezer sono in piedi sul palco, in una pozza di sudore, mentre il pubblico applaude. Hanno i vestiti e i capelli inzuppati. Lasciano il palco, il pubblico defluisce fuori e gli spiriti maligni sono stati esorcizzati.

*

I Black Sabbath si riposano in camerino, storditi, tranquilli e felici che il concerto sia andato bene. Dopo un po’ si tolgono i vestiti bagnati e Geezer li spruzza di Fabergé. Nessuno parla, eccetto due  fan che si sono intrufolati nel camerino.
«Cosa fate: uscite su dei macchinoni o ve la svignate di nascosto?». Bill gli fa l’autografo.
«Come mai vi chiamate Black Sabbath?». Qualcun altro offre della birra ai due.
Quando l’Arena si svuota, il gruppo esce attraverso l’atrio disseminato di rifiuti e si chiude nella limousine in attesa, mentre una folla di persone osserva. Un ragazzo si avvicina all’auto e appoggia la mano sudata su un finestrino, lasciando un’impronta unta mentre l’auto si allontana.
«Guardate quella là, non è male», dice il manager.
«C’è quella con le tette belle», commenta un altro.
«Troie del cazzo, gli piscio addosso», mormora qualcuno sul sedile posteriore.

L’automobile nera sguscia tra la gente e nel traffico: l’autista sa il fatto suo. L’atmosfera è tranquilla e serena, con il suono rilassante di Shadow of Your Smile che esce dalla radio. In pochi minuti sono di nuovo in albergo. Tony si allontana silenziosamente, senza dire a nessuno dove sta andando. Bill e Geezer vanno nella stanza del primo per coricarsi e bere un po’ di birra calda. Ozzy si ritira in camera sua, da solo. Deve scrivere una lettera a mamma e papà.

Da Rolling Stone US.

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