Cut the Crap dei Clash, l’album più odiato degli anni ’80, compie 40 anni. La storia del rock è piena di grandi band che pubblicano dischi terribili, eppure si resta senza parole di fronte a ciò che i Clash sono riusciti a fare. Cut the Crap esce nel novembre 1985 e viene immediatamente ripudiato da Joe Strummer e da chiunque ci abbia avuto a che fare. È il caso per eccellenza di un gruppo leggendario con una discografia fino a quel momento impeccabile che fa un tonfo talmente clamoroso da autodistruggersi. Come ha detto Strummer qualche anno dopo, «lo si può tranquillamente archiviare alla voce “prendere a frustate un cavallo morto”».
Cut the Crap è stato cancellato dalla storia ufficiale dei Clash: non compare nella discografia o nella timeline del sito ufficiale, non viene menzionato nel documentario Westway to the World, è escluso da quasi tutte le ristampe e compilation. Nessuna grande band era uscita di scena con un disastro altrettanto umiliante. Com’è potuto accadere? Come ha fatto the only band that matters a inciampare in uno dei fiaschi peggiori della storia del rock?
«È stato un completo disastro», ha amesso Joe Strummer al NME nell’estate del 1986, addossandosi onorevolmente la colpa. «Quel che devi capire è che esiste gente stupida come me. Io sto lì in una stanza a scrivere canzonette mentre altri sono al telefono a vendere azioni a qualcuno in Malesia. È facile manipolare gente come me. La cosa che so fare meglio è scrivere brutte poesiole, quindi una parte di me dev’essere piuttosto infantile».
I Clash arrivavano da una sequenza di cinque album pazzeschi, una delle migliori della storia. Avevano catturato lo spirito rivoluzionario del ’77 col manifesto The Clash, raffinato il suono col più imperfetto Give ’Em Enough Rope, raggiunto l’apice con London Calling per poi spingersi oltre con l’epopea del triplo Sandinista!. Con Combat Rock, infine, avevano conquistato gli Stati Uniti grazie a hit come Rock the Casbah e Straight to Hell. Tutti album importanti e influenti, pubblicati uno dopo l’altro. E loro erano quattro cavalieri in cima al mondo.
Ma nel settembre 1983, a sorpresa, Joe Strummer licenzia il chitarrista Mick Jones accusandolo di essersi venduto e di essere diventato una rockstar. Jones, però, è quello che dà forma più di goni altri ai pezzi. Strummer e il bassista Paul Simonon annunciano un ritorno alle origini e reclutano musicisti sconosciuti, i chitarristi Nick Sheppard e Vince White, e il batterista Pete Howard.
E poi… beh, è difficile esprimere quanto fosse strano mettere la puntina sul vinile di Cut the Crap. Dopo aver sostituito Jones, Strummer e il manager/produttore Bernie Rhodes, i due rimpiazzano la band con drum machine e sintetizzatori. Simonon nel disco non suona il basso. Il risultato è un pasticcio totale pieno di inni radicali falliti come Dictator e Dirty Punk. Oggi si fa quasi fatica a credere che qualcuno abbia pubblicato un album del genere. Soprattutto We Are The Clash, una specie di sigla da cartone animato con un coro di voci robotiche che intonano “We ain’t gonna be treated like trash / We got one thing / We are the Clash!” (non ci tratterete come spazzatura, noi abbiamo una cosa, siamo i Clash).
A peggiorare le cose, Cut the Crap esce quasi in contemporanea col debutto della nuova band di Mick Jones, i Big Audio Dynamite, influenzato dall’hip hop e contenente una hit da dancefloor, E=MC². Il confronto con This Is Big Audio Dynamite rende Cut the Crap ancora più anacronistico. L’assurdità viene inoltre amplificata dal “Clash Communique” stampato sulla copertina, manco si trattasse di un messaggio urgente e top secret: “Uomini saggi e ragazzi di strada formano una grande squadra… ma il vecchio sistema può essere sconfitto??… No… non senza la tua partecipazione… il cambiamento sociale radicale comincia per strada!!… Quindi se cerchi un po’ d’azione… basta con le stronzate, e scendi per strada”.
Per gli adolescenti fan dei Clash è un trauma. Col passare degli anni, alcuni strenui partigiani hanno tentato di non far considerare questo album come uno dei Clash, dando la colpa al manager. Purtroppo non è così: questo non è solo un brutto disco, è un brutto disco fatto con convinzione e fede assoluta. È per questo che Cut the Crap è rimasto nella storia. Non è un flop anni ’80 qualsiasi, è un album che può nascere solo quando qualcuno che ci crede davvero e segue idee sbagliate con assoluta dedizione.
E pensare che Strummer e Jones sembravano destinati a ereditare il lascito delle coppie Jagger & Richards o Lennon & McCartney. Anche loro si completavano benissimo a vicenda: Joe era quello focoso, urlante, viscerale, Mick quello col senso della melodia e lo stile chitarristico vistoso. Mick era anche la voce delle canzoni più pop come Train in Vain (Stand by Me), Somebody Got Murdered, Should I Stay or Should I Go?. Le loro differenze si fondevano alla perfezione in pezzi come Spanish Bombs, Clampdown o nell’inarrivabile singolo del 1978 Complete Control, in cui Mick scandisce “C-O-N, control” mentre Joe urla fino a farsi scoppiare i polmoni. Joe era il punk puro, quello col cuore e con l’anima, Mick era il musicista.
Ma Strummer era uno che voleva portare a compimento la sua missione punk con zelo assoluto e il terrore costante di venire corrotto dalla fama. Già agli inizi del gruppo si difendeva per il contratto con una major. «Anche se abbiamo firmato con la CBS, non ce ne andremo a galleggiare nell’atmosfera come i Pink Floyd o roba simile», aveva detto a Caroline Coon di Melody Maker nel 1977. «Mi hanno preso per il culo per così tanto tempo che non diventerò Rod Stewart solo perché guadagno 25 sterline a settimana». E quindi nel 1983 se la prende con Jones, accusandolo di eresia pop, di aver tradito le radici punk. Nel comunicato ufficiale si legge che «Jones si è allontanato dall’idea originaria del gruppo». Come racconta il chitarrista a Rolling Stone un paio d’anni dopo, «la prima cosa che ho fatto è stata tornare a casa e piangere per mezz’ora».
All’epoca le band non avevano ancora capito quant’è importante prendersi una pausa. Che fossero i Beatles nel ’69 o gli Smiths nell’87, i musicisti scioglievano i gruppi al posto di stare pochi mesi lontani. I Clash del 1983 fanno parte di questa categoria, con Strummer e Simonon incazzati per gli atteggiamenti da primadonna di Jones. «Per niente divertente», si lamenta Strummer in Westway to the World. «Non si presentava e quando lo faceva era come una Elizabeth Taylor di pessimo umore».
La questione era più profonda e aveva a che fare con la divisione ideologica tra pop e punk. Jones cercava di introdurre la band ai suoni dei club di New York, era ossessionato dalla dance e dal rap, elementi che aveva portato ad esempio in This Is Radio Clash. Per Strummer era un tradimento. «Il pop morirà e il rock ribelle regnerà», profetizzava parlando col NME nel 1984, promettendo di liberare il mondo dai poseur synth pop. «Ti esalti per un duo con le macchine a nastro? Ascolta, non comprare il biglietto per uno show fatto da una macchina». Secondo lui, quella che piaceva a Jones «non era la nostra musica. Si divertiva a giocare con drum machine e sintetizzatori».
Strummer parte in tour con la nuova versione dei Clash senza Jones, per l’Out of Control Tour. Il suo eroe assoluto Bob Dylan adora quella formazione. «Sono grandi», racconta a Rolling Stone nel 1984. «Anzi, penso che siano più grandi ora di prima». Meglio senza Mick Jones? «Sì. È interessante. Ci sono voluti due chitarristi per sostituirlo». Joe inizia così ad assumere un’aria da megalomane. Si era appena liberato dalla dipendenza dalla droga, ma forse beve troppi caffè in tour. «Sono stato scelto», spiega a Rolling Stone con enfasi. «Credo seriamente di essere stato scelto per dire la verità e spazzare via la merda». Durante un’intervista post-concerto una fan lo interrompe gridando: «Che fine ha fatto Mick?». Strummer ride: «Andrà in giro con qualche cazzata al pianoforte, vedrai». Il fan insiste: «Mi manca. Perché l’hai cacciato?». Strummer, dopo aver spento il registratore del giornalista, dice: «Perché è uno stronzo».
Da fan dei Clash, ho visto quella formazione nell’aprile 1984 a Providence, Rhode Island, e per quanto amassi Mick Jones, la band spaccava. Zero hit radiofoniche, solo pezzi punk a partire da London Calling a Safe European Home. Nel finale Strummer aveva invitato i fan a salire sul palco per cantare Garageland. Si erano sentiti solo tre brani nuovi: Are You Ready for War?, Sex Mad War e Three Card Trick. Le registrazioni bootleg di quel tour (come Patriots of the Wasteland o Five Alive) dimostrano che quella line-up aveva il potenziale per fare un album degno di nota. Basta ascoltare la fantastica Three Card Trick dal concerto di Chicago del 1984: qualunque cosa si pensi del delirio rivoluzionario di Joe o delle sue invettive contro Mick, quella è una feroce canzone dei Clash, suonata da una vera band.
Vien da piangere se la si confronta con la versione in studio. Sull’album Three Card Trick è un reggaettino da aperitivo coi musicisti sostituiti da suoni sintetici. Cut the Crap non suona per niente come un disco rock col suo frastuono digitale e quei cori clowneschi sovraincisi. L’unico pezzo salvabile è This Is England, in cui Strummer vaga per le strade osservando gli effetti della disoccupazione, del razzismo, del declino industriale, della guerra delle Falkland e di una donna che gli punta un coltello dicendo: «Questa è l’Inghilterra, questa è una lama d’acciaio di Sheffield». Troppo poco, troppo tardi.
Strummer era mortificato per l’album. «Alcuni pezzi erano decenti, ma lo odiavo», spiega a NME nel giugno 1986. «Ho litigato con Bernie prima del missaggio finale e non ho sentito Cut the Crap finché non è arrivato nei negozi». La colpa della produzione viene data al manager, quella per le canzoni se la assume lui. «Datemi una canna, un drink, una chitarra, una città straniera di notte e lasciatemi scarabocchiare qualcosa. Sono quelle le cose che mi ispirano. Sono un romantico, non un teorico. Il fascino del ribelle, le foto di Belfast, le magliette H-Block e della Baader-Meinhof: tutta colpa mia».
Intanto, Strummer deve assistere al successo dell’ex coi Big Audio Dynamite. «Mi sono sentito malissimo quando i B.A.D. ce l’hanno fatta. Non perché tutti i vecchi punk ce la facevano e io no – me lo meritavo, non mi ero comportato bene – ma perché Jones mi aveva fatto sentire i mix provvisori e io gli avevo detto che era la peggior schifezza che avessi sentito in vita mia, avvisandolo: non pubblicarla, fai un favore a te stesso». Jones non lo ascolta e il disco è un successo.
Va detto: Mick è magnanimo dopo aver vinto, si rifiuta di infierire su Strummer quando è a terra, anche se nessuno gliene avrebbe fatto una colpa. «Non direi mai nulla di male sui Clash», spiega a David Fricke di Rolling Stone nel tardo 1985, quando entrambi i dischi sono usciti. «Ho fatto qualche intervista in cui la gente prova ad arruffianarsi chiedendomi quanto siano stati stronzi Strummer e gli altri. Non funziona con noi. Quando succede, io e Don Letts partiamo subito a difendere i Clash». I due vecchi amici si sono poi riconciliati e hanno collaborato su No. 10, Upping St. (1986) dei Big Audio Dynamite. Niente canzoni memorabili, ma una reunion commovente.
Strummer ha imparato la lezione di Cut the Crap. Ritira il nome Clash e dopo aver lottato duramente per ottenere la corona da rockstar, la lascia cadere. «Non direi che è stato un gesto nobile», spiegherà a Musician nel 1988. «È più come se l’avessi fatta cadere e rotta». Trash City, una hit minore del 1988 per MTV 120 Minutes per la colonna sonora di Permanent Record è il suo ultimo pezzo popolare.
I Clash sono stati una delle pochissime band della loro epoca a resistere alla tentazione della reunion: niente album, niente tour, neppure un solo concerto-evento. Una presa di posizione che ha giovato enormemente alla loro reputazione postuma. Quando Joe Strummer è morto nel 2002 a soli 50 anni per un problema cardiaco era ormai una delle figure più amate e riverite del mondo musicale. Una delle sue più grandi imprese è stata riuscire a sopravvivere alla maledizione di Cut the Crap.













