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‘Cracker Island’ dei Gorillaz è il disco più classico della band meno classica del pianeta

Coerente ma non prevedibile, solido ma non noioso, consistente ma non banale. Abbiamo ascoltato il nuovo album del progetto di Damon Albarn e Jamie Hewlett che uscirà il 24 febbraio

Foto: press

Tutto ciò che riguarda i Gorillaz è, per definizione, bizzarro. Dall’idea di base di formare un gruppo virtuale di musicisti cartoon – «era l’inizio dell’esplosione delle boyband e tutto sembrava costruito a tavolino. E quindi abbiamo deciso di costruire anche noi qualcosa a tavolino, ma che fosse interessante», raccontò qualche tempo fa Damon Albarn a Hot97 – alla totale libertà sonora che il progetto ha esplorato nei suoi primi vent’anni di vita nei quali ha masticato rock, elettronica, rap, dub, funk, reggae), nulla nella storia dei Gorillaz è stato canonico.

C’è stato un periodo, a metà carriera, e più precisamente durante il tour di Plastic Beach (siamo tra il 2010 e il 2011), dove nella band live erano presenti Mick Jones e Paul Simonon dei Clash. Qualche anno prima, nel 2006, i quattro componenti virtuali (2D, Murdoc, Russel, Noodle) avevano duettato – sotto forma di ologrammi – con Madonna per i Grammy Awards per poi abbandonare le scene, all’apice del successo, per uno iato lungo cinque anni, non prima di aver pubblicato The Fall, un album (praticamente solista) di Albarn composto con il solo utilizzo di un iPad («il primo album fatto interamente con un iPad», strillava la promo). E questo solo per citare alcuni passaggi simbolici della creatura di Damon Albarn, che al progetto si affacciava come idolo dei teeanger Brit pop degli anni ’90, e Jamie Hewlett, fumettista e illustratore della controcultura fresco del successo di Tank Girl.

Cracker Island, il nuovo disco dei Gorillaz in uscita il prossimo 24 febbraio, prodotto dalla band con Greg Kurstin (già al lavoro con Adele, Beck, Foo Fighters, Liam Gallagher) e Remi Kababa Jr., oramai terzo membro non ufficiale dai tempi di Humanz, arriva ad un anno dall’EP Meanwhile e a due dall’imprevedibile roulette russa sonora dell’esperimento Song Machine, una pubblicazione a più episodi di inediti del gruppo accompagnati ogni volta da differenti ospiti d’eccezione (tra i tanti, Robert Smith dei Cure, Elton John, St. Vincent, Slowthai, Beck), un progetto iniziato, nelle parole di Albarn, «senza nessuna idea di cosa stessimo facendo». I Gorillaz, in fondo, ci hanno da sempre abituato a dischi poliedrici, ampi, ricchi di esperienze soniche differenti e viaggi negli interstizi della sperimentazione pop, e l’estenuante progetto Song Machine ne sembrava il perfetto manifesto estetico. Ecco, ora che abbiamo chiarito il pensiero musicale della band, c’è da dire una cosa: Cracker Island è tutt’altro.

Dimenticatevi le montagne russe, le distrazioni luminose, il peculiare effetto di distorsione sulla voce parlante di Albarn. Cracker Island è, al contrario, un disco solido, coerente, consistente. Rotondo, analogico caldo, privo di spigoli digitali. Dimenticatevi anche le lunghezze esagerate (i 17 brani di Song Machine o i 26 della deluxe version di Humanz), Cracker Island è l’album meno corposo della storia dei Gorillaz: 10 canzoni concise, ben scritte, arrangiate con eleganza e cultura. Un album maturo (arriva nell’anno in cui Albarn compie 55 anni), in cui al suo interno troviamo il cuore dei Gorillaz, stavolta spoglio di tutta quella serie di piagnistei post adolescenziali da britannici spocchiosi che spesso hanno caratterizzato (in male) alcune produzioni passate dove a fianco di capolavori indiscutibili era facile trovare della merda inaudita.

Sul tema tanto caro ai Gorillaz, ovvero quello delle collaborazioni, anche stavolta l’elenco degli ospiti è sorprendente: Bad Bunny, Beck, Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, Thundercat, Tame Impala, Bootie Brown, Adeleye Omotayo degli Humanz Choir, il gruppo vocale formato per l’Humanz Tour nel 2017. E nessuno è superfluo: Cracker Island, il primo singolo estratto, è un treno grazie al basso costante di Thundercat; Oil, che ha qualcosa in comune con un classico dei Gorillaz On Melancholy Hill, raggiunge tutta un’altra dimensione quando entra la voce di Stevie Nicks; Silent Running (che nella melodia può riportare a certi episodi di un altro side project di Albarn, The Good, The Bad & The Queen) può volare grazie al cantato libero di Omotayo; New Gold esalta un concept sonoro tanto caro alla band (quel funk-pop bello dritto inaugurato con Stylo e riproposto ripetutamente durante la carriera) portandolo a un nuovo livello grazie agli interventi di Tame Impala e Bootie Brown; Tormenta, con l’idolo latino Bad Bunny, ci ricorda quanto può essere emotivo e cool il reggaeton e Beck, nella conclusiva Possession Island, aggiunge quella melanconia tutta americana a una struggente ballad per pianoforte.

Tornando al concetto iniziale di bizzarro (qui meno presente, o meglio, meno oppressivo nel suono e nella composizione), Cracker Island arriva in un momento particolare della carriera della band. I Gorillaz, come dicevamo, sono attivi da oltre vent’anni oramai, ma il loro ultimo singolo a raggiungere la top ten inglese è stato Dirty Harry, tratto da Demon Days e uscito nel lontanissimo 2005. In effetti, quello che i Gorillaz sono andati a perdere nell’incedere del loro percorso è stata quella capacità di scrivere la hit mondiale, quello che in passato erano riusciti a fare con brani come Clint Eastwood, Feel Good Inc., Dare. Nonostante questo, però, i numeri relativi agli ascolti della band sono decisamente aumentati in maniera organica in questi ultimi anni grazie a un intelligente e furbo utilizzo delle collaborazioni, palesato in modo esplicito nell’esperimento Song Machine.

Cracker Island, più che mai, conferma la mancanza di un brano capace di trascendere la dimensione del disco, ma i Gorillaz disinnescano questa possibile problematica con quello che finora è l’album più coerente della storia della band, ancor più di The Now Now. Coerente, ma non prevedibile, solido, ma non noioso, consistente, ma non banale. Ci sarebbe una parola ancora più precisa che per descrivere Cracker Island: classico.

Cracker Island è a tutti gli effetti un disco classico, ma nella migliore accezione del termine, un album che necessita di essere ascoltato dall’inizio alla fine, senza salti, per essere apprezzato al pieno delle sue possibilità sonore. E in un mondo capovolto come quello di questi tempi, è proprio bizzarro che, oggi, a fare un disco classico sia la band meno classica sul pianeta.

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