Costi folli e salute mentale a rischio: la crisi dei concerti è iniziata | Rolling Stone Italia
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Costi folli e salute mentale a rischio: la crisi dei concerti è iniziata

Un grido d'allarme arrabbiato circa la situazione dell'industria della musica dal vivo. Sempre più artisti di medio livello rinunciano ai tour pur di non andare in rosso. Il pericolo è che restino solo i big e quelli che possono permettersi di non preoccuparsi degli introiti

Costi folli e salute mentale a rischio: la crisi dei concerti è iniziata

Shirley Manson sul palco con i Garbage

Foto: Kimberley Ross

Il mondo è nel mezzo di un esaurimento nervoso. Pandemia, guerra, riscaldamento globale; recessione e cambi di abitudini radicali all’orizzonte. È difficile che qualcuno o qualcosa rimanga immune a questo gran casino e la musica dal vivo non fa eccezione, anzi. Negli ultimi tempi (soprattutto all’estero, con le solite Inghilterra e Stati Uniti a far da apripista) si sta delineando un orizzonte veramente preoccupante: andare in giro a suonare sta diventando sempre più complicato, per motivi economici e di salute mentale.

Fatta più o meno pace con l’ormai inesistente rilevanza della vendita dei dischi fisici (e con uno streaming disgustosamente indietro circa i giusti compensi da elargire), negli ultimi due decenni per i musicisti andare in tour è stata l’unica fonte di guadagno reale. Al punto che legarsi alla giusta agenzia di booking è diventato indispensabile e di gran lunga più vitale della scelta dell’etichetta discografica.

Con l’arrivo del Covid e le chiusure forzate quel già precario equilibrio che sembrava essersi trovato grazie agli introiti dei live è definitivamente saltato. La pandemia ha nuovamente messo a nudo dei problemi strutturali atavici e mai risolti propri dell’industria musicale, ma per estensione di tanti ambiti lavorativi, soprattuto culturali. In questi ultimi mesi sono tanti gli artisti anglofoni, e non solo, che hanno cancellato date o interi tour, attribuendo le decisioni ai costi spropositati e la loro stessa salvaguardia psico-fisica.

Tra i primi a dare l’allarme c’è stata Little Simz, fresca vincitrice del Mercury Prize. L’artista inglese la scorsa primavera ha annullato quello che sulla carta si preannunciava come un trionfale tour degli Stati Uniti: «Essendo un’artista indipendente, pago di tasca mia tutto ciò che comprende le mie esibizioni dal vivo e un tour di un mese negli Stati Uniti mi lascerebbe in enorme deficit. Per quanto mi addolori non incontrarvi, in questo momento semplicemente non sono in grado di sottopormi a questo tipo di stress mentale». Parliamo di quella che, probabilmente, è l’artista inglese più in ascesa degli ultimi cinque anni. Se lei manifesta un problema di questo tipo, cosa sta succedendo?

La vita post-pandemica e il conflitto bellico in atto hanno fatto schizzare alla luce i prezzi e/o complicato enormemente tutto ciò che serve per allestire un live: i voli e gli alberghi sono proibitivi e i permessi, se si viaggia da Inghilterra e Stati Uniti, sono costosi e difficili da ottenere. Una fetta di pubblico (quella che è entrata negli anta, quella più facoltosa) è ancora nervosa all’idea di spazi chiusi e sudare. Inoltre stiamo tutti facendo i conti con un costo della vita aumentato enormemente. Va da sé che i più giovani, quelli più propensi a tornare subito alla vita sociale, sono anche le persone economicamente più deboli, oggi più che mai. Il risultato è che c’è una latitanza importante riguardante gli spettacoli dal vivo, soprattutto quelli che richiedono un minimo di lavoro produttivo dietro. A tutto ciò, negli Stati Uniti la risposta sembra essere stata quella di un selvaggio aumento del prezzo dei biglietti. Insomma, un cane che si morde la coda: le persone non vanno più come prima ai concerti e i concerti sono più costosi che mai da organizzare. Soluzione: scoraggiamo ulteriormente il pubblico a venire.

Recentemente anche i Garbage si sono uniti al coro, con un duro post di denuncia sul loro profilo Instagram: «La musica dal vivo è enormemente sotto pressione. Il musicista medio non può più sopravvivere, né tanto meno prosperare nelle condizioni attuali. Stiamo vedendo tanti talenti preziosi cedere all’ingiustizia economica di un sistema che non paga i creativi per la loro produzione artistica. Tutti sono in lizza per una manciata di luoghi al fine di guadagnare una piccola somma di denaro per mantenersi fino al prossimo spettacolo, la maggior parte non ha un dollaro di assicurazione. Una grande percentuale di musicisti che conosci e ami probabilmente vive alla giornata. Le aziende stanno guadagnando miliardi di dollari dal loro lavoro e non condividono nessuno dei profitti».

 

 
 
 
 
 
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Sei settimane fa l’artista pakistana Arooj Aftab, autrice di Vulture Prince, uno degli album più celebrati del 2020, scriveva su Twitter: «Il tour è stato fantastico. Siamo stati spesso headliner, abbiamo sempre avuto un’affluenza massiccia e ci siamo dimostrati validi in tutti i mercati. Tuttavia, ho migliaia e migliaia di euro di debiti a causa del tour e mi è stato detto che è “normale”. Perché è normale? Questa cosa non dovrebbe essere normalizzata».

Quasi contemporaneamente gli americani Animal Collective annullavano il tour europeo e del Regno Unito. «Preparandoci a questo tour ci siamo resi conto che la sua realtà economica semplicemente non funziona e non è sostenibile. Dall’inflazione alla svalutazione della valuta, ai costi di spedizione e trasporto gonfiati e molto altro ancora, semplicemente non è stato possibile immaginare un budget che non sarebbe andato in rosso anche se tutto fosse andato per il meglio». Anche qui, la postilla finale riguarda la salute mentale: «Stiamo scegliendo di non correre rischi per la nostra salute mentale e fisica con la realtà economica di quello che sarebbe stato il tour».

Anche Santigold a fine settembre aveva annullato il suo tour adducendo simili motivazioni. Il passaggio cruciale è forse il seguente: «Mi sembra di aver tenuto duro, cercando di arrivare al traguardo sempre più lontano, ma il mio veicolo è andato in pezzi– è caduto il paraurti, le ruote una alla volta, il volante, e infine tutto il resto. Ed eccomi qui a pensare: “Dovrei semplicemente tenere le portiere e continuare a correre?”. E il mio cuoricino che ha lavorato ben oltre i suoi limiti, tutto il mio corpo in effetti e anche la mia anima, mi stanno urlando “NO muthafucka! Accosta, cazzo!”».

 

 
 
 
 
 
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Questo diretto collegamento tra salvaguardia economica e mentale non può e non deve stupire. I maligni hanno subito iniziato a gridare al complotto: non vendete abbastanza biglietti e quindi neanche vi scomodate. La realtà è decisamente più complessa e ha ragione Arooj Aftab: non va normalizzata. Gli anni pandemici hanno lasciato un’ombra di pesantezza su tutti quanti, musicisti e artisti inclusi. Per questi ultimi poi, negli anni si è normalizzata una narrazione di stacanovismo indefesso sulla scomodità dei tour, le condizioni pessime, sulle 300 date in 300 giorni. Tutto ciò non è normale e non è romantico. Quanti sono i grandi musicisti del passato (e non solo) che reggevano i ritmi a cui erano sottoposti solo grazie a sostanze ingurgitate in quantità inconcepibli, quanti in virtù di questo stile di vita sono affogati nel loro vomito?

Il fatto che numerosi artisti stiano decidendo di non sottomettersi più a questo vera e propria macelleria psico-fisica è forse una delle poche eredità positive del Covid. Perché allargando lo sguardo, racconta qualcosa di urgente per la società in generale: la soluzione agli infiniti, numerosi e pesanti problemi in cui stiamo vivendo non può essere lo sfruttamento lavorativo fino all’esaurimento nervoso. Non può essere un carico di responsabilità insopportabile sul singolo. Bisogna tutelarsi. Quello che ha fatto Arlo Parks, cancellando il suo tour citando problemi di salute mentale «debilitanti» e affermando semplicemente: «Sono a pezzi». O una delle protagoniste del nu jazz inglese Emma-Jean Thackray, posponendo uno show molto importante: «I costi legati ai tour hanno fatto sì che ora sono in rosso di decine di migliaia di sterline, quindi oltre all’esaurimento fisico e mentale che già deriva dai continui tour internazionali, sono stato sottoposta a uno stress così estremo che la mia salute è minacciata».

Chiaramente questa situazione colpisce in modo diretto e più di tutti la fascia media di musicisti. Non tanto le super star mondiali, né gli esordienti ancora fuori dalla macchina, ma quei musicisti di media fama che lavorano tutti i giorni per (soprav)vivere. La scomparsa di questa fascia media richiama direttamente quella del ceto medio. Si sta iniziando a profilare una situazione in cui gli unici a potersi permettere di andare in giro a suonare sono artisti già ricchi o quelli per cui i soldi non hanno mai costituito un problema per ragioni terze (famiglia, fortuna); allo stesso tempo gli unici che possono permettersi di comprare i sempre più cari biglietti sono individui dello stesso identikit sociale. Ricchi che suonano per ricchi. Un appiattimento pericolosissimo, patetico e vomitevole – già materialmente in atto da tantissimo tempo, anche qui da noi.

Non c’è un lieto fine in fondo a questo pezzo. Non si tratta neanche di uno sfogo depresso fine a se stesso; più un grido d’allarme realista, arrabbiato, preoccupato e in ultimo – paradossalmente – anche speranzoso. Qui in Italia tutti questi discorsi possono sembrare ancora lontani (ma insomma), anche grazie alla quasi nulla rilevanza internazionale del nostro Paese in ambito musicale. Ma sappiamo bene quanto la penisola sia prona ad imitare con comodo, nel bene e nel male, i modelli anglofoni. Quindi probabilmente è solo questione di tempo. Non ho soluzioni da offrire ma è bene che questi temi inizino a passare di bocca in bocca, che si provi a pensare ad azioni concrete nel privato come nel pubblico, nel singolare come nel plurale.

Lo abbiamo detto durante il Covid: vanno ripensate un po’ di cose, pena la sopravvivenza di un sistema intero. Non lo abbiamo fatto e il conto ora sembra essere salato. Proviamo a far in modo che non sia l’ultimo. O al contrario: facciamo in modo che lo sia. Osserviamo compiaciuti l’implosione di un sistema nato difettoso. A quel punto però sfruttiamo l’anno zero per costruirne uno che non romanticizzi l’abuso di sostanze e l’esaurimento nervoso, non renda uno status sociale la mancanza di tempo, non costringa allo sfinimento fisico ed emotivo per arrivare a fine mese. Uno in cui non siano solo ricchi a suonare per ricchi.