Non dovete lanciare le vostre sneaker contro la band. Sembra una cosa ovvia, ma non c’è verso di farlo capire al pubblico di un concerto dei Green Day al Maple Leaf Gardens di Toronto. Neppure una scarica di insulti del cantante Billie Joe Armstrong riesce a fermare la pioggia di scarpe.
Poi, all’improvviso, Armstrong smette di suonare la chitarra proprio nel bel mezzo di una versione infuocata di 2,000 Light Years Away per invitare sul palco un fan scalzo a recuperare ciò che gli appartiene. Il leader dei Green Day sembra dirgli: «Senza rancore». Il ragazzo, emozionato dal palcoscenico, si arrampica, fa un inchino nervoso e si piega per allacciarsi le scarpe. Ma dovrebbe guardarsi le spalle: Armstrong è dietro di lui, con una maschera di Halloween a forma di testa di cinghiale e una mannaia in mano. Il pubblico ruggisce e il ragazzo, sano e salvo, si butta di nuovo nel mosh pit.
Qualche minuto dopo il bassista dei Green Day, Mike Dirnt, si avvicina al microfono per fare delle armonie vocali durante una cover travolgente di Knowledge degli Operation Ivy, e gli arriva in fronte una scarpa da basket vagante. Stavolta Armstrong manco se ne accorge: è preso a suonare gli accordi sulla sua Stratocaster blu e a contorcere il viso in una serie di smorfie scelte accuratamente per ottenere una reazione dal pubblico. Poi volta le spalle ai presenti e si cala i pantaloni.
Questo è intrattenimento in puro stile Green Day. Ben presto la security, in preda al panico, è costretta a inseguire i ragazzi che hanno abbandonato i posti a loro assegnati e a trascinarli via. La serata è sfuggita definitivamente al controllo? Non lo sapremo mai. «Grazie mille: non diamo per scontata questa roba!», grida Armstrong, poi la band se ne va.
Nel camerino, Armstrong si dirige direttamente verso un divano piazzato in un angolo e si chiude in se stesso. È annoiato? Forse. Esaurito? Probabilmente. Ma non aspettatevi da lui l’atteggiamento stereotipato da rockstar che Jon Bon Jovi ha sfoderato dopo un concerto di beneficenza a New York, lo scorso dicembre, che ha visto protagonisti sia il rocker del New Jersey che i Green Day.
«Uno del suo entourage è arrivato nel nostro camerino e ha detto: “Jon vorrebbe una birra, se possibile”», racconta Armstrong. «Abbiamo risposto: “Be’, puoi dire a Jon di portare qui il suo cazzo di culo cotonato e venire a prendersi una birra”».
«Non c’è proprio niente di punk negli stadi da hockey, nei palazzetti dello sport e in tutte quelle stronzate», commenta Dirnt mentre rolla la prima canna del pomeriggio, appoggiandosi alla pelle capovolta di una grancassa. Siamo tre settimane prima e i Green Day sono seduti in cerchio sul pavimento della loro sala prove, una stanza senza finestre di circa quattro metri quadrati, nascosta in una casetta stile Cape Cod in una strada di periferia tranquilla a East Oakland, California. Sulle pareti bianche si vedono solo elenchi di titoli di canzoni con appunti scherzosi sul tempo (“Per questa bisogna prendere del Valium”; “Per questa bisogna farsi di metanfetamina”). È qui che i Green Day hanno creato e provato la maggior parte di Insomniac, il loro attesissimo quarto album, il seguito di quel Dookie che ha venduto otto milioni di copie.
Nessun altro gruppo che abbracci i valori punk e suoni musica in puro stile punk (nemmeno i Nirvana) è mai arrivato a volare tanto vicino al sole senza bruciarsi le ali. Ma, invece di lasciare che il successo commerciale indebolisse il loro slancio, i Green Day sono tornati con Insomniac, il loro album più veloce e scuro a oggi. «Sembra più arrabbiato del precedente», dice Armstrong, «e non è stata una cosa deliberata».
Ora i Green Day respingono le critiche di Johnny Rotten, sottolineando che loro non sono più punk rock e, per molti versi, è vero. Anche se si sono costruiti una reputazione con brani duri, veloci, all’insegna della rabbia adolescenziale, è stata la capacità straordinaria di Armstrong di comporre canzoni pop perfette di due minuti e mezzo a far amare la band dal grande pubblico. Per esempio, Geek Stink Breath, il primo singolo di Insomniac, è un brano tanto vivace e contagioso, con una struttura strofa-ritornello-strofa, che difficilmente ci si rende conto che, in realtà, parla dello strazio di un corpo che si sta disfacendo a causa dell’abuso di metanfetamina.
Ma i Green Day non vogliono essere bollati come una band di drogati. E poi sono i bambini, non lo speed, che ultimamente mantengono su di giri due terzi della band. Ora che Tré e sua moglie Lisea hanno una bimba piccola, Ramona, lui dice: «Suono la batteria con più energia di quanto avrei mai immaginato. Avere un figlio è faticoso, devi stare sempre attento alle tue reazioni, ma fa bene al modo in cui suoni nella band».
Durante le session di Insomniac, i Green Day hanno infranto un altro vecchio tabù punk, affidandosi a una produzione di alto profilo. L’estetica DIYdel punk ha sempre implicato che la musica restasse minimale, che le prove fossero ridotte al minimo e che la registrazione fosse economica, scadente e fatta in fretta: l’idea originale era quella di evitare la boria di quei gruppi rock da stadio pomposi come Yes e Led Zeppelin. Ma oggi i Green Day suonano esattamente in quegli stessi stadi. Di conseguenza la sfida per il trio, sempre più esperto, era creare un suono mostruosamente forte e potente, restando però fedele alla propria natura.
Stando a Rob Cavallo, che con la band ha coprodotto sia Insomniac che Dookie, i Green Day cercavano il sound dei classici album pop di gruppi come i Beatles e i Cheap Trick, piuttosto che quello dei singoli punk realizzati in modo sciatto. «Tré cambiava il suono dei piatti praticamente in ogni canzone», racconta Cavallo. «Mike aveva un’idea precisa degli amplificatori e del basso che voleva usare. E Billie e io abbiamo questo piccolo rituale: mettiamo in fila un gruppo di amplificatori, scegliamo quelli che ci piacciono di più e poi sviluppiamo un suono di chitarra». Ma Tré si picca all’idea che siano stati solo gli accorgimenti di studio a dare urgenza a Insomniac e sostiene che c’entri anche la quantità eccessiva di caffeina assunta. «Ogni volta che andavamo a registrare, dicevamo: “Ok, è la volta buona”», racconta Tré. «“Diamo fondo a tutta l’energia che abbiamo, chiudiamo la faccenda in un paio minuti e poi ci riposiamo”. Ma se non andava tutto per il verso giusto aspettavamo un po’, finché non recuperavamo le forze, bevevamo del caffè, poi ci riprovavamo e dicevamo: “Forza, facciamolo”».
Tenere presente il classic rock mentre creavano brani punk di tre o quattro accordi, e senza assoli di chitarra, ha dato vita ad alcuni pezzi sorprendenti e innovativi. Panic Song parte con una lunga cavalcata di power chord alla Pete Townshend. Bab’s Uvula Who? (che prende il titolo da una vecchia scenetta del Saturday Night Live) traduce il disprezzo di sé tipico degli adolescenti in un pezzo rock frenetico costruito sullo schema del call and response. Brain Stew ha una progressione lenta di tre accordi che ricorda in modo sospetto You Shook Me All Night Long degli AC/DC.
Ma le radici punk dei Green Day sono comunque evidenti. Brain Stew, spiega Armstrong, è il soprannome di James Washburn, un vecchio amico della band. «Aveva una gran cresta alla mohicana; adesso è diventato un vero ratchethead [gergo californiano per indicare un appassionato di automobili]», racconta. «Quando qualcuno perde le staffe, lui dice cose tipo: “Hey, a quel tipo è slittata la frizione”. È una forte influenza per i miei testi». E i primi versi di No Pride (“Sono solo un bastardo/ e non ho una casa/ dove la dignità è una mina antiuomo/ nella scuola della speranza perduta”) sono ispirati a Gonna Find You, canzone di un altro suo mentore: Jesse Michaels, il leader della grande band di Berkeley Operation Ivy, che Armstrong definisce «un Kerouac punk rock».
È evidente che i Green Day non riescono a scrollarsi di dosso la loro etica punk blue collar. L’idea di divertimento di questa band è rilassarsi nel magazzino di Oakland, in California, dove i loro amici dei Fetish, una band locale emergente, vivono e provano insieme. Matt Olyphant, cantante e autore dei testi dei Fetish, ha incontrato i Green Day per la prima volta due anni fa fuori da un locale dove si esibivano. «Dopo il concerto ci siamo messi a chiacchierare e fumare erba nel parcheggio», racconta. Dopo aver conosciuto Olyphant, che allora era un performer di spoken word alle prime armi, gli altri membri dei Green Day l’hanno convinto a formare i Fetish, la sua prima band. «Non era tanto quello che facevano, ma il modo in cui mi trattavano», racconta Olyphant. «Erano davvero molto disponibili».
Quasi tutto ciò che fanno i Green Day sembra essere all’insegna di una vena di gentilezza e senso di comunità. Quando hanno firmato con la Reprise, etichetta del gruppo Warner Music, hanno insistito affinché la Lookout! Records, l’etichetta indipendente di Berkeley, California, che aveva pubblicato i loro primi due album, 39/Smooth del 1990 e Kerplunk del 1992, conservasse i diritti su entrambi i titoli. Poi hanno invitato i Pansy Division, una band della Lookout!, ad aprire un tour importante; un altro gruppo della Lookout!, i Riverdales, ha aperto i concerti del recente tour dei Green Day in Europa e Nord America. A maggio, i Green Day hanno suonato per due serate all’Henry J. Kaiser Convention Center di Oakland e hanno devoluto tutti i profitti (compresi i ricavi della vendita delle magliette) a Food Not Bombs, associazione che fornisce pasti ai senzatetto, e ad altre tre organizzazioni di beneficenza. «Hanno mantenuto tutte le promesse fatte», afferma Ben Weasel, chitarrista dei Riverdales, un gruppo alla Ramones. «Ma mi piace il fatto che non vadano in giro a sbandierarlo».
Piuttosto che lottare contro Ticketmaster per mantenere bassi i prezzi dei biglietti, i Green Day hanno deciso di diminuire la propria percentuale sul profitto. «Non ci frega un cazzo di Ticketmaster», dice Tré. «Chiediamo il prezzo che valiamo e non pensiamo di valere 22 dollari e mezzo. Prendiamo una percentuale più bassa rispetto ai Pearl Jam. Non li sto criticando: lo dico solo rivolgendomi a chi si lagna, in generale. Comunque io non vado in giro a comprare biglietti da Ticketmaster con la mia carta di credito, quindi non mi lamento. Non volete che i vostri biglietti costino 27 dollari? Chiedete una percentuale inferiore, ragazzi. Ridimensionate i vostri tour».
Man mano che il mondo dei Green Day si espande, mantenere il controllo non è sempre così semplice. Lo scorso luglio, quando alcune stazioni radiofoniche, tra cui KROQ a Los Angeles, hanno preso a trasmettere J.A.R. (una canzone che la band aveva registrato per la colonna sonora di un film che si è rivelato un buco nell’acqua al botteghino: Angus) settimane prima della data prevista per la messa in onda, hanno iniziato a circolare voci secondo cui la colpa era dei manager dei Green Day, Elliot Cahn e Jeff Saltzman. Si vociferava che Cahn e Saltzman avessero offerto copie di J.A.R. per incentivare le stazioni radio a trasmettere brani della (510) Records, una nuova etichetta che i due manager avevano recentemente fondato con la MCA. Saltzman sostiene che queste voci siano false.
Armstrong non si sbilancia su chi ritiene responsabile della cosa. Ma in ogni caso la band ha licenziato Cahn e Saltzman non appena il polverone si è diradato. Ora i Green Day si gestiscono da soli, una pratica praticamente inaudita per le band del loro livello, sotto contratto con una major.«Ci sentivamo trattati non più come persone, ma come risorse», dice Armstrong. «E così abbiamo detto: “Vaffanculo”. Non avremo mai più un manager professionista». «Sinceramente, mi divertivo molto di più un paio di anni fa», commenta Mike Dirnt.
È appena mezzogiorno e mezzo di una giornata soleggiata a Berkeley quando Dirnt, riconoscibilissimo per le sue sopracciglia a forma di virgolette e i suoi onnipresenti pantaloni di poliestere a quadri, beve la sua seconda birra della giornata in un microbirrificio di Telegraph Avenue. «In tour facciamo la vita più esaltante del mondo per un’ora al giorno», dice, «poi per tutto il resto del tempo è come fare il lavoro più noioso del pianeta».
Ma non è certo un ingrato. Dei tre membri dei Green Day, Dirnt (al secolo Mike Pritchard) sembra aver avuto l’infanzia più difficile. Aveva solo sette anni quando i suoi genitori adottivi, la mamma indiana d’America e il papà bianco, hanno divorziato. Quella separazione ha gettato la vita del giovane Dirnt nel caos; stando a lui, si è trasferito almeno sette volte prima di andarsene di casa a 15 anni.
Secondo Dirnt, quell’infanzia complicata l’ha preparato alla perfezione alla vita precaria di una rockstar. «Ho dovuto pensare molto con la mia testa», dice. «Sono cresciuto con mia madre che odiava i bianchi ma amava me e sono riuscito a capire che mi voleva bene, ma odiava le altre persone per motivi politici». Fin da piccolo, Dirnt ha imparato a fare da mediatore, un ruolo che ha anche nei Green Day. «Ero uno di quei bambini che giravano per il quartiere parlando con gli adulti e imparando un sacco di cose. Sono bravo con le persone».
Quando il padre di Dirnt ha iniziato ad avere un certo successo come programmatore, la situazione si è complicata ulteriormente. «Dal punto di vista economico, mio padre appartiene alla classe medio-alta, mentre mia madre a quella bassa», spiega. L’instabilità finanziaria ha lasciato un segno indelebile nella psiche del bassista. «Semplicemente ho impostato la mia vita in modo da poter essere felice indipendentemente dal mio reddito. Se riesci a crearti uno stile di vita che ti renda sempre felice (per me era essere circondato da musicisti e amici) e non hai altre aspettative, allora tutto quello che succede in più è solo grasso che cola».
Dirnt è l’unico dei Green Day con un diploma di scuola superiore (anche se Tré ha una certificazione GED), ma è anche il solo che non si è sposato e non ha messo su famiglia nel bel mezzo della tempesta dello scorso anno (lui e la sua ragazza, Anastasia, hanno fissato la data del matrimonio per il prossimo agosto). Di recente ha comprato una casa a sua madre e, dopo un po’ di insistenza, ammette di averne acquistata anche una piccola per sé, ma si lamenta del fatto che dovrà pagare le rate dei mutui per anni.
Anche Armstrong sembra a disagio nei confronti dei frutti portati dai successi di classifica dei Green Day. E non sorprende affatto che il cantante abbia pagato il prezzo più alto per la fama. Lui e la moglie Adrienne hanno acquistato una casa a North Berkeley prima che nascesse il loro figlio Joey, lo scorso marzo. «Era in un bel quartiere, proprio di fronte a una scuola elementare», spiega Armstrong. «Poi dei ragazzini hanno iniziato a presentarsi a casa mia, ma non era un gran problema. La cosa peggiore è stata che una ragazza ha comunicato il mio indirizzo su Live 105 [KITS] e così ho dovuto andarmene da quella casa: è stato davvero brutto, perché sia a me che ad Adrienne piaceva molto. Abbiamo dovuto sopportare tutte queste stronzate per cercare di mantenere un po’ di privacy».
La privacy era una cosa di cui Tré non doveva preoccuparsi da bambino a Willits, in California, una comunità rurale isolata a più di due ore a nord di Berkeley. Dopo che sua sorella, di sei anni più grande di lui, se ne è andata di casa a 18 anni, lui è in pratica diventato un figlio unico. «Avevo una stanza tutta per me, tutta l’attenzione era per me», racconta. «Avevo la mia batteria e potevo suonarla». I suoi genitori, a 12 anni, gli hanno permesso anche di suonare la batteria in una band punk chiamata Lookouts, fondata dal loro vicino Lawrence Livermore. «Vivevamo in montagna», racconta Tré. «Suonavamo attaccando ai pannelli solari un cazzo di amplificatore Peavey». Livermore, più avanti, ha fondato la Lookout! Records… e il resto è storia. Cinque anni dopo, quando i Green Day avevano già pubblicato il loro EP 1,000 Hours e 39/Smooth, Tré ha sostituito il primo batterista della band, Al Sobrante (alias John Kiffmeyer), che fino a poco tempo fa suonava con gli Isocracy, ora sciolti.
Anche se è stordito dagli eventi degli ultimi 18 mesi, Tré sostiene che il salto dai Lookouts ai Green Day è stato ancora più grande. «Quando abbiamo pubblicato Kerplunk per la Lookout!, pensavo: “La mia batteria sarà su un CD!”». Anche se Tré suona in vari gruppi da quando era ragazzino, gli accadimenti recenti hanno reso la sua vita un po’ più surreale. «A volte devo ricordare a me stesso che faccio parte di una band», dice. «Stamattina stavo portando a spasso il mio cane e all’improvviso ho pensato: “Faccio un lavoro davvero strano”».
Armstrong indica uno scorcio oltre la highway. «Vedi tutte quelle raffinerie?», chiede. «Quella là è la scuola elementare dove sono andato». La sua mano si sposta leggermente a sinistra. «Vedi quanto sono vicine?». L’autore principale dei Green Day è al volante della sua Ford Fairlane nerissima, una bella auto classica del ‘62 customizzata con rivestimenti in pelle leopardata e tendine a frange porpora sui finestrini. Dallo specchietto retrovisore, attaccato a un filo di perline, penzola un piccolo crocifisso. Anche se la sua vita è cambiata moltissimo nell’ultimo anno, Armstrong sembra sfinito come sempre. La sua maglietta a righe marroni è strappata sulla manica; i capelli corti e decolorati sono arricciati e stanno diventando arancioni; e ha le occhiaie. Ma le apparenze non sempre rispecchiano la realtà delle cose: non si tratta di stress da rockstar causato dai tour e dall’abuso di droghe. Armstrong, 23 anni, è in questo stato per via di suo figlio Joey. «L’orologio interno del mio corpo è totalmente incasinato perché adesso ho un figlio», dice Armstrong. «La maggior parte delle canzoni nuove sono state scritte nel mio scantinato, nel cuore della notte. Non riuscivo a dormire, quindi andavo di sotto».
Mancano un paio di settimane all’uscita di Insomniac e Armstrong mi fa visitare Rodeo, in California, la sua città natale. Situata a nord-est di San Francisco, Rodeo è immersa in una distesa di colline brune e ondulate che punteggiano la sponda orientale della baia di San Pablo, una zona nota come East Bay. Anche se dista solo un quarto d’ora di macchina dall’autostrada che porta a Berkeley, la città universitaria prospera e cosmopolita dove i Green Day hanno mosso i primi passi, Rodeo sembra un altro mondo.
Isolata e tranquilla, quella comunità esiste per ospitare i dipendenti delle gigantesche raffinerie petrolifere e chimiche che la circondano. Secondo Armstrong, lì poco è cambiato dai tempi in cui ci è cresciuto. Ma, girando per il piccolo centro, a prima vista è difficile individuare la fonte d’ispirazione per le numerosissime odi alla noia e al disagio adolescenziale dei Green Day. Le modeste villette a schiera sono tutte ben tenute e alcune hanno bandiere americane appese al portico.
Armstrong, il più giovane di sei figli, è cresciuto qui. Il padre si guadagnava da vivere come batterista jazz e poi come camionista; è morto di cancro quando Billie Joe aveva 10 anni. La madre e una delle sue sorelle vivono ancora nella casa in cui è cresciuto. «Non avevo proprio niente di cui essere orgoglioso, vivendo da queste parti», dice Armstrong. «Ho vissuto circondato dall’idea dell’orgoglio americano e roba del genere, in mezzo a tutti questi bifolchi che in realtà non hanno nulla di cui essere fieri, qui. Non c’è niente. Parlano di quanto siano orgogliosi: orgoglio per la loro città natale, orgoglio per la loro scuola, orgoglio patriottico, ma penso che un orgoglio di questo tipo generi solo molti pregiudizi».
Ai piedi di una collina, a Rodeo, c’è un negozio di alimentari dall’aspetto piuttosto gradevole, si chiama Super Stop e ha un piccolo parcheggio di fronte. «Lì vanno quelli che si fanno di speed», dice Armstrong senza mostrare alcuna emozione, mentre passiamo. Fin da bambino sapeva quanto le droghe illegali erano diffuse nella sua città, in particolare la metanfetamina prodotta in loco. «La trovavi dappertutto nel nostro quartiere. E ti chiedevi sempre: “Perché quei cazzo di ragazzoni, dall’altra parte della strada, stanno svegli tutta la notte a lavorare sulle loro auto?”».
Anche il campo da football della John Swett High School, nella vicina Crockett, dove Armstrong ha trascorso il primo anno e mezzo della sua sfortunata carriera scolastica, è un ritratto da cartolina della normalità americana. «Non ero uno di quei tizi che venivano picchiati o cose così al liceo», dice. «Più che altro credo di essere stato invisibile. Non esistevo». «Questa è Tight Wad Hill», annuncia Armstrong mentre raggiungiamo un cul-de-sac che domina tutto il campus. «Qui tutti gli sfigati e i tirchi venivano a guardare gratis le partite di football. È il punto con la vista migliore di tutto il campus». La canzone Tight Wad Hill, di Insomniac, parla di un “teppistello” che sceglie questo posto come suo rifugio. «Qui ci vengono un sacco di tossici».
Sono state proprio queste contraddizioni, tra come le cose avrebbero dovuto essere e come erano realmente, a fare avvicinare Armstrong al punk. A differenza dei genitori o degli insegnanti, i punk dicevano la verità nuda e cruda. «Sapevano esprimersi meglio», spiega. «E poi ho sempre pensato che la rabbia fosse molto più interessante che non stare bene con se stessi».
Di ritorno, sull’autostrada, un’auto taglia due corsie e si affianca alla Billiemobile. Il conducente, un ragazzo dall’aspetto pulito e atletico, inizia a suonare il clacson e a fare il segno del pollice alzato ad Armstrong. Il cantante fa un veloce sorriso smagliante e poi fissa lo sguardo davanti a sé, cercando di ignorarlo. «Personalmente mi piace molto suonare in posti grandi», dice più allegro. «Abbiamo la possibilità di esibirci in queste arene e ne sono davvero grato. Non mi sfiora neppure l’idea di dire: “Fanculo i nostri fan: non sono veri fan dei Green Day perché ci hanno scoperti su MTV”. Queste persone pagano per vedermi suonare. Tanti di quei ragazzi prima d’ora non hanno mai ascoltato il tipo di musica che facciamo e molti di loro provengono da famiglie monoparentali in cui l’unico genitore lavora sodo per dare loro 12 dollari con cui uscire e venire a vederci suonare. L’ultima cosa che voglio fare è criticarli per essere venuti al nostro concerto. Sono loro che ci hanno resi grandi».
Nel 1995, il successo enorme di Dookie ha portato i Green Day là dove nessuna band punk era mai arrivata prima. E adesso, fuori dal palco, cercano di schivare i giovani a caccia di credibilità, che sono numerosi come le sneaker zozze che gli arrivano sul palco. «Non mi vedrete mai entrare in una stanza e dire: “Chi c’è, qui dentro, che potrebbe dare una spinta alla mia carriera?”», dice Armstrong con un ghigno.
Apparentemente, il burbero Armstrong e i suoi compari non hanno nulla di cui lamentarsi: fan adoranti, viaggi in tutto il mondo e un sacco di soldi non sono esattamente ciò che la maggior parte delle persone definirebbe una situazione sfavorevole. Eppure Armstrong dice che, nonostante la sua band adesso sia il manifesto del punk rock per tutti coloro che fino all’anno scorso non sapevano nemmeno cosa fosse questo genere, nella sua vita quotidiana è cambiato poco. «Sono ancora un essere umano», dice. «Probabilmente mi incazzo almeno cinque giorni alla settimana, proprio come chiunque altro. Tutti si stancano della vita: è nella natura umana». Armstrong ha scritto una canzone che parla di questo dilemma intitolata Walking Contradiction e inizia dicendo: “Fai come dico, non come faccio, perché/ la merda è così alta che non puoi scappare”.
In un tour di questa portata, l’unico modo per mantenere il controllo totale è portarsi dietro ogni cosa. Il che significa avere una flotta di veicoli che trasporta tutto (dal personale addetto al catering a un impianto audio speciale e le luci del palco) e segue il tour bus dei Green Day da una location all’altra. Ma i membri della band sottolineano subito che le loro priorità sono rimaste le stesse. In questo tour, i Green Day dormono sul bus e non in camere d’albergo: risparmiare sulle spese contribuisce a mantenere bassi i prezzi dei biglietti. E poi così i ragazzi riescono a evitare quegli incontri imbarazzanti che la loro fama enorme comporta.
Dirnt ricorda un episodio successo in Inghilterra, mentre si dirigeva di fretta verso il tour bus fermo in sosta. «Un tizio mi ha afferrato la mano stringendola con tutta la forza che aveva», racconta Dirnt. «Mi stringeva la mano e diceva: “Perché non dai qualcosa ai tuoi fan? Penso che tu ce lo debba”». A quanto pare, voleva solo stare un po’ con il gruppo nel retro del pullman. «Allora l’ho guardato e gli ho detto: “Sai cosa? Vaffanculo! Pensi che solo perché hai comprato un disco io ti debba qualcosa?”».
Anche se la situazione attuale dei Green Day non è così desolante come quella descritta nelle loro canzoni, sembra che la fama mainstream raggiunta nel mondo del rock’n’roll abbia fornito a questo gruppo di ex punk politicamente corretti una nuova serie di motivazioni per essere incazzati. E nessuno se ne lamenta. «Ogni tanto devo dire: “Cazzo, siamo la più grande band punk d’America in questo momento”», dice Armstrong. «Sembra che mi stia bullando e se lo pubblicherete è in questo modo che verrà interpretato. Ma ogni tanto mi sento proprio così».
Questo articolo è tratto dal numero del 28 dicembre 1995 di Rolling Stone US.













