Cosa succede in città è il disco in cui Vasco Rossi si misura per la prima volta con le conseguenze della corsa a tutta velocità che è stata la sua vita fino a quel momento. È considerato un album di transizione: arriva dopo l’arresto e i 22 giorni di carcere che lo hanno cambiato e chiude la stagione del Vasco «sbandato» (come ha detto Mike Bongiorno) e senza freni, una mina vagante nel panorama musicale nazionale, e apre quella di autore sempre più diviso tra disillusione e voglia di tenerezza. Parlando di quel periodo, Vasco ha ammesso che l’esperienza del carcere ha rappresentato uno spartiacque. «Una botta che ti fa svegliare di colpo, ti accorgi che non sei immortale e che non sei libero come pensavi», dice nel libro Vasco 1978-2003: 25 anni di vita spericolata. Capisce di doversi «prendere più sul serio» come uomo prima ancora che come artista. La ferita causata dall’inchiesta per droga e dalla gogna mediatica lo obbliga a fare i conti con la sua immagine pubblica e, soprattutto, con se stesso. «Mi avevano già condannato sui giornali prima ancora del processo. Ho capito che dovevo cambiare qualcosa, ma non la musica: la testa».
Il disco del 1985 fotografa questo equilibrio precario. La scrittura si incattivisce, perde parte della vecchia ironia, delle jannacciate se vogliamo, e diventa più scarna e nervosa. In brani come Cosa c’è, Cosa succede in città e T’immagini il tono è quello di chi osserva il Paese di metà anni ’80: rampante, televisivo, moralista. Nella città che Vasco canta c’è qualcosa che non va (come anche nel successivo C’è chi dice no) e che nessuno (o pochissimi) ha voglia di affrontare. «Vedevo tanta ipocrisia, tutti pronti a giudicare ma nessuno che guardava in casa propria», dirà più tardi nel libro La versione di Vasco ripensando a quegli anni, rivendicando il ruolo di disturbatore «non per posa, ma per sopravvivenza». La voce narrante è più spigolosa, compressa tra rabbia e stanchezza. D’altra parte, Vasco era uscito dal carcere con la sensazione di essere stato usato come cattivo esempio e molte delle canzoni del disco mostrano una persona con una sua tenerezza, ma chiusa dentro un’armatura. È esattamente questa la tensione che attraversa il disco: da una parte il cinismo di chi non crede più alle favole, dall’altra la voglia quasi infantile di aggrapparsi a un brandello di tenerezza, di amore possibile.
Cosa succede in città è un album di passaggio anche sul piano sonoro. Vasco si adatta al pop-rock di metà anni ’80, con tastiere e sax in primo piano, senza però addomesticarlo completamente. Lavora con una band che ha già fatto il salto con Bollicine e Va bene, va bene così e che sta diventando sempre più una macchina da guerra live e comincia a consolidare la dimensione da “evento” che si imporrà negli anni successivi. Allo stesso tempo mantiene un’irrequietezza che si sente ancora nei suoni non del tutto levigati, nelle interpretazioni sporche, quasi recitative. Dentro questo contesto, Toffee è il punto di rottura e, insieme, il manifesto di una nuova scrittura. È una ballata minima, quasi sussurrata, costruita su una manciata di immagini: una cucina ancora calda, una tazza di caffè, forse un addio, ma senza scenate. Vasco ha raccontato la genesi del brano in un’intervista con Red Ronnie: «Avevo voglia di raccontare una storia con meno parole possibili. Non mi interessava spiegare tutto, mi bastavano le immagini. La canzone doveva rimanere come una fotografia trovata in un cassetto». È una canzone «che ha più non detti che parole, ma i non detti sono quelli che fanno male davvero».

Foto: Toni Thorimbert
È iniziata la transizione verso il Vasco che scrive per sottrazione che conosceremo in seguito: meno parole, più ellissi, frasi che sembrano lasciate a metà affinché sia l’ascoltatore a completarle. Toffee anticipa la poetica delle immagini di tante canzoni successive, panorami emotivi più che racconti lineari e pochi dettagli scelti con cura, che aprono spazi interi nella testa di chi ascolta. In qualche modo, Toffee rappresenta il primo passo di Vasco verso la trasformazione in artista del non detto. Da qui in poi, infatti, la sua scrittura si sposta sempre di più dal racconto esplicito a quel tipo di scrittura: frasi che si interrompono, immagini lasciate in sospeso, personaggi che entrano in scena a metà storia e spariscono prima che tutto sia chiarito. È una strategia stilistica, ma anche una scelta psicologica precisa: invece di spiegare, Vasco preferisce evocare, lasciare all’ascoltatore il compito di riempire i vuoti. Una zona grigia in cui le parole sono poche, selezionate, spesso quotidiane, dove quello che conta è ciò che non viene detto: gli sguardi, i sottintesi, i rimpianti che restano fuori dall’inquadratura. È come se ogni canzone aprisse una scena già iniziata e si chiudesse un attimo prima della spiegazione finale, costringendo chi ascolta a metterci dentro la propria storia.
Dal punto di vista psicologico, il non detto è il luogo in cui si accumulano emozioni non elaborate e ciò che non riusciamo o non vogliamo dire spesso pesa più di quello che diciamo. Nelle relazioni affettive, ad esempio, i silenzi, le mezze frasi, le omissioni creano un campo di tensione emotiva fortissimo. Vasco, intuitivamente, porta questa dinamica nelle canzoni: non descrive il litigio, ma la stanza dopo il litigio; non racconta l’addio, ma il momento in cui ti accorgi che è già avvenuto. In termini narrativi è un rovesciamento: la trama non è più la sequenza degli eventi, ma la somma di ciò che manca. L’artificio diventa così un dispositivo empatico potentissimo: più Vasco tace, più l’ascoltatore parla dentro di sé, proietta, riconosce pezzi della propria biografia. È il motivo per cui molte sue canzoni sembrano personali a chiunque le ascolti: sono piene di spazi bianchi in cui ciascuno può scrivere la propria versione.
Questa poetica è chiaramente anche una forma di difesa: dopo gli anni degli eccessi e delle confessioni a microfono aperto, il Vasco adulto sembra diffidare delle spiegazioni troppo chiare. È un modo per proteggersi, per non consegnare tutto, ma anche per ammettere che molte cose – sentimenti, traumi, desideri – non sono riducibili a una frase compiuta. In questo senso il suo dire per immagini è quasi anti-psicologico nel metodo, ma profondamente psicologico negli effetti: non analizza, ma smuove; non spiega, ma fa venire a galla. Ed è proprio lì, in quella zona di sospensione tra ciò che viene detto e ciò che viene trattenuto che Vasco Rossi diventa davvero uno dei grandi narratori emotivi della musica italiana.
Chi ha lavorato accanto a lui in quel periodo conferma la sensazione di stare assistendo a una trasformazione. Guido Elmi in un’intervista promozionale per il successivo C’è chi dice no ricordava un Vasco «più chiuso, meno portato alla battuta, ma concentratissimo in studio, quasi ossessionato dall’idea di non farsi più fregare da nessuno», mentre il batterista Daniele Tedeschi in Vasco 1978-2003 sottolinea come in quel periodo «la band fosse già pronta per gli stadi, ma Vasco in studio cercasse sempre la crepa, il dettaglio storto, perché non voleva un suono troppo pulito».

Riascoltato oggi, in occasione della ristampa intitolata Cosa succede in città 40th Rplay (Carosello) con un libro a cura di Gianni Poglio e brani rimasterizzati dai nastri originali, il disco risulta meno immediato dei classici che lo precedono e lo seguono, ma proprio per questo è cruciale: è il momento in cui il personaggio pubblico e l’uomo smettono di coincidere alla perfezione. Il primo si avvia a diventare definitivamente “nazionale”, la rockstar da stadio che conosciamo oggi; il secondo entra nel decennio successivo con un bagaglio di disillusione nuova, che finirà dentro dischi sempre più introspettivi e spaccati tra rabbia e carezza.
Vasco ha parlato del suono del disco in maniera non sempre lusinghiera, eppure Cosa succede in città è invecchiato molto meglio di tanti dischi dello stesso periodo e la rimasterizzazione ha dato i suoi frutti. Ottima invece la scelta di remixare Bolle di sapone per una versione nuova di zecca firmata da Vincenzo Pastano. Da fan del materiale anni ’80, con un lavoro marcato sul suono delle chitarre, Pastano dà nuova vita a un pezzo quasi dimenticato, che potrebbe diventare la sorpresa dei concerti del prossimo anno.
Cosa succede in città è in fondo il racconto di cosa succede quando la fuga finisce, quando “vivere e basta” non è più sufficiente e le notti al limite presentano il conto. Vasco non chiede scusa, non fa mea culpa edificanti, si limita a cantare quello che vede, con la consapevolezza di chi è passato dall’altra parte del muro e ha deciso di restarci. È il punto in cui il Blasco diventa narratore di macerie, in primis interiori. Ed è lì che la sua scrittura, tra cinismo e voglia di tenerezza, comincia davvero a diventare adulta. Perché, come dice all’inizio del disco, “quando tocchi il fondo… vieni su! Vieni fuori oppure… non ci vieni più!”.













