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Cosa c’è che non va nella carriera di Nina Zilli

Dagli esordi al Roxy Bar fino alla partecipazione a The Voice, sembrava che l'ascesa di Maria Chiara Fraschetta fosse inevitabile. Ma qualcosa è andato storto.

Foto PACIFIC PRESS / Alamy / IPA

“Sì vabbè dai Matty cosa vuoi che ti dica di lei? Diciamo: sulla carta ha tutte le carte in regola per sfondare. E’ una bellissima ragazza, ma di una bellezza non convenzionale, è alta, giunonica. Ha un look molto centrato: sceglie appunto Vivienne Westwood e non Monella Vagabonda. Ha fatto un bell’album di debutto, è stata all’Eurofestival, quel 50 miiiiiiiila lacrimeeeee lo ricordano tutti, eppure non ce la fa. E non ce la fa perché non smuove nulla: non muove grandi passioni, , né grandi detrattori come una Tatangelo qualsiasi. E’ un “ah ok.” e basta.”

Ecco, parlare col mio amico Matteo quando sto elaborando un pezzo è sempre un piacere. Soprattutto quando riesce a essere così tranchant riassumendo 10 anni di carriera in 3 frasi. Ma chi è la madamigella di cui stiamo parlando?

Facciamo un passo indietro: Maria Chiara Fraschetta debutta nel mondo “dell’arte” nel 2001 come valletta del Roxy Bar di Red Ronnie. Esperienza non esattamente indimenticabile che, però, le procura le prime collaborazioni importanti con Africa Unite e Franziska, tra gli altri. Potrebbe diventare una reginetta reggae del nuovo millennio e nel 2009 ottiene il suo primo contratto col suo nome d’arte che mescola il nome della sua icona: NINA Simone con il cognome materno ZILLI. Giuliano Palma la prende sotto la sua ala. Eccola: è nata la next best thing della musica italiana: subito disco di platino, il premio Mia Martini a Sanremo, Eurofestival, conquista addirittura tutti i maschi eterosessuali italiani finendo con un suo brano su Pro Evolution Soccer.

Ma piano piano si fa strada in lei un’evoluzione: Nina vuole diventare un po’ Mina, un po’ Amy Winehouse, un po’ Etta James, i pezzi diventano sempre più maestosi, gli abiti sempre più pomposi, le cofane in testa prendono il posto dei dread. E poi, come se Red Ronnie non fosse stato sufficiente, qualcuno deve averle detto: “Oh Nina, ci manca solo un bel programma, una ciliegina sulla torta e si fa il botto vero”. D’altronde la storia pullulava di grandi successi: Noemi che è riuscita a passare da “quella di X Factor” a quella di The Voice (e nessuno si ricordi una sua canzone), la Tatangelo schiava di esilaranti meme con Milly D’Abbraccio e la frase “quando la persona è niente, l’offesa è zero” che diventa il vero platino della sua carriera, Arisa e la rissa con la Ventura, Levante e la rissa instagram con Arisa, Anna Oxa che lascia l’Italia per motivi di sicurezza. Ma Nina approda a “Italia’s got talent” versione post De Filippi, dove riesce a far risultare simpatico perfino Frank Matano. E torna sul luogo del delitto per ben due anni (poi il programma viene messo in pausa di riflessione). Insomma quello che doveva essere il botto vero si riduce a un mortaretto da pre-capodanno.

Arriviamo ai giorni nostri: la Universal non lascia ma raddoppia e decide che Nina è ancora la next best thing 10 years later e scommette tutto su di lei. E come lo fa? Mettendoci il produttore del momento (il buon Canova) e affidando il singolo di “ri”lancio al trio Faini / Paradiso / Calcutta che durante l’estate 2017 firma solo altre 3749038494 hit. Una spruzzatina di reggae (quello degli inizi), un tocco di elettronica che ci deve sempre essere, qualche tailleurino giusto e via alla conquista del mondo. Le radio apprezzano, il pubblico un po’ meno. Modern art (premio al titolo più brutto dell’anno) esce il 1 settembre e dura in classifica quanto un gatto in tangenziale. Il magic touch di Canova fallisce di brutto. Pure Sanremo (tentativo in extremis di massaggio cardiaco a rianimare l’encefalogramma piatto dell’album) segna un imbarazzante diciassettesimo posto. Di tour in vista non se ne vedono. I social sono fermi a febbraio. Si vocifera di 1000 copie vendute.

Cosa ci deve insegnare questa storia? Che il music business 2.0 è una cosa seria. Che la televisione fa bene, in maniera immediata al vostro portafoglio, ma tanto poi vi mangia e vi manda il conto in termini di credibilità. Che gli stylist, o sedicenti tali vi fanno credere che l’immagine vi aiuti a vendere dischi, quando invece l’unica cosa che vi aiuta a vendere dischi è una: le belle canzoni, i bei testi.

E qui si è pensato di incidere “Guardo la biro che ho rubato in hotel con te, scriveva blu, era la prima volta che ti chiedevo un po’ di più. (…) Sei nell’aria, sei nell’aria, sei nell’aria, non puoi giocare con me sei nell’aria, voglio fidarmi di te”.

Al confronto il nuovo singolo di Luisa Corna (ebbene sì, incide dischi ancora anche lei) è da premio Pulitzer.

Quindi Nina: ascolta il consiglio di un amico che ti vuole certamente più bene dei tuoi consiglieri attuali e che ti vorrebbe vedere alta in classifica al posto di quelle sciacquette degli altri talent. Butta via quei tacchi che già sei una cavallona, torna in Giamaica con i tuoi amici di una volta (lascia pure a casa Giuliano Palma però altrimenti ti ritrovi a fare i concerti di Natale su Sky), ascolta musica che è fuori dai top 50 di Spotify e soprattutto se mi vedi al palasport di Bologna (che bazzichi spesso ultimamente) cerca di non darmi due sonori ceffoni. Con affetto, tuo Matteo.

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