Louise Marshall siede al pianoforte, gli altri le si radunano attorno. I più vicini sono David Gilmour alla pedal steel, Guy Pratt al contrabbasso, le altre tre coriste. Prendono The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd e soprattutto di Richard Wright e la fanno più morbida e raccolta. Il tono è corale, quasi famigliare, folk. Con le candele accese sul pianoforte e tutto il resto non sembra una seduta spiritica per evocare il canto inarrivabile di Clare Torry, ma una veglia funebre a quattro parti senza lacrime, un ricordo affettuoso, una versione terrena dopo quella “cosmica” del 1973. Incassati gli applausi restano lì e fanno A Boat Lies Waiting, la canzone in cui Gilmour dice a Wright quanto gli manca, che prima o poi lo raggiungerà, che è dietro di lui “in questa triste barcarola”.
Non è il momento più spettacolare del film-concerto Live al Circo Massimo, Roma, nei cinema italiani dal 17 al 21 settembre, ma è quello in cui s’intravede meglio lo spirito dell’ultimo Gilmour, il musicista che ha scelto di cantare la sua età e la sua vita ritirata e priva di glamour, senza fare eccessivamente leva sulla nostalgia per i Pink Floyd. Uno che ringrazia alla fine del concerto e di nuovo nei titoli di coda Polly Samson, «moglie, partner, autrice dei testi, scrittrice, collaboratrice fuori dal comune e consigliera in ogni cosa che faccio». Ma è pur sempre una leggenda e lo dice in un breve spot prima del film, un’affermazione che è strano sentire da un musicista apparentemente non molto egocentrico e per niente incline a sfruttare il proprio mito: «I’m David Gilmour and I’m a fucking legend».
Il film-concerto diretto da Gavin Elder, che collabora con lui dal 2006, mostra le due facce di Gilmour: la «fucking legend» che continua a suonare anche i classici dei Pink Floyd, forse mai così pochi in un suo concerto, e il padre di famiglia che ama il folk e chiama sul palco la figlia Romany. Attorno a loro c’è una una band parzialmente rinnovata, Gilmour dice la migliore che ha avuto, sono fortissimi, questo è poco ma sicuro. Oltre a Pratt, che si occupa anche della parte cantata di Waters in Comfortably Numb, ci sono i tastieristi Greg Phillinghanes e Rob Gentry, il chitarrista Ben Worsley, il batterista Adam Betts, le quattro coriste Lousie Marshall, Charlie e Hattie Webb, viste queste ultime due al fianco dell’idolo Leonard Cohen, e Romany Gilmour. Quest’ultima non si limita a cantare Between Two Points, che rende meglio dal vivo che nella versione in studio, ma si prende vari altri piccoli momenti, ha talento e papà la guarda con amore. Elder non aggiunge granché a quello che tirano fuori questi dieci, a parte il black cat della canzone (e dell’adesivo sulla chitarra di Gilmour) che nell’introduzione fa scorrazzare per i monumenti romani, un tocco kitsch evitabile. La verità è che bastano il Circo Massimo, qualche scorcio della città, la musica.
Le chiacchiere sono poche e relegate per lo più a una breve premessa in cui vediamo il soundcheck a Roma, con Romany che canta al fianco del padre di fronte alle sedie vuote, lui sempre compassato, lei che balla avendo un terzo (e meno) degli anni del padre. Il film racconta il concerto mettendo assieme filmati delle ultime tre delle sei date fatte al Circo Massimo, quando la band era più rodata. Gilmour parla solo per introdurre i musicisti e poco altro. Alle spalle il classicissimo schermo tondo che però è tutt’altro che centrale nello spettacolo. Viene in mente per contrasto il film-concerto di Roger Waters che s’è visto a luglio. Il confronto col Circo Massimo di Gilmour è l’ennesima prova di quanto i due fossero complementari nei Pink Floyd: uno mette al centro le parole e le idee, l’altro la musica e le suggestioni, uno ti stordisce e ti mette a disagio, l’altro ti seduce e forse mai come oggi ti trasmette un senso di sottile malinconia.

Foto: Polly Samson
Gilmour aveva promesso di suonare pochi pezzi dei Pink Floyd anni ’70 e così ha fatto: Wish You Were Here, Breathe (In the Air), Time, Gig, oltre alla conclusiva Comfortably Numb e a Fat Old Sun, che durante l’anteprima a Milano s’è presa un applauso. Si sente quasi tutto Luck and Strange e la differenza coi classici è palese, ma quando sei Gilmour e hai una band del genere puoi catturare l’attenzione anche solo con la forza delle performance e non con la scrittura che – è una legge naturale – con gli anni tende a sclerotizzarsi. La voce tiene nonostante l’età, il bending pure, l’impianto audio el cinema te lo fa sentire in modo spettacolare.
In tempi in cui ci si rifugia nella nostalgia di fronte a un presente che non si riesce più a comprendere, Gilmour è determinato a non indugiare nel passato. È un merito. È però strano avvicinandoci al finale, nel momento il concerto dovrebbe raggiungere il climax, ascoltare altri estratti da Luck and Strange e non classici che avrebbero acceso il pubblico, prova dell’esigenza del musicista di raccontare con quelle canzoni il suo presente. E così sullo schemo non scorrono immagini dei Pink Floyd, ma del figlio, Gilmour non canta del crazy diamond ma del tempo che è una marea che disobbedisce alla volontà dell’uomo. Forse avrebbe potuto osare ancora di più, magari mettere in piedi una parte di show ispirata al concetto della Von Trapped Family, gli spettacoli diciamo così folk che Gilmour e famiglia facevano durante il lockdown. Ha scelto di non spiazzare troppo il pubblico e di ribadire che è pur sempre una «fucking legend».
Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, diceva quello. Ne abbiamo visti di musicisti che si sono bruciati, che sono morti giovani, che sono finiti male. Ultimamente ne abbiamo visti altri che si stanno spegnendo lentamente, gente cioè che porta sui palchi il proprio repertorio anche a costo di sembrare la versione senile e per forza di cose depotenziata di sé stessa. Gilmour percorre una terza via. Lui dice che se non s’è bruciato è grazie alla moglie (vedete, ancora la famiglia). Io dico che non si è nemmeno spento lentamente. Ha il vantaggio di non avere mai fatto una musica che passa per il corpo o canzoni che devono il loro impatto alla vitalità giovanile. Può giocarsi benissimo la carta del rocker mezzo pensionato che ogni tanto chiama a raccolta i fan per raccontare storie con la chitarra. Lo fa di rado, anche se ha promesso che non farà passare più di due anni prima del prossimo disco e che lo porterà in giro con la modalità del tour di Luck and Strange: pochi concerti in pochi luoghi, la gente che viene da lui e non il contrario.
Gilmour è diventato col tempo il maestro del rock come arte borghese ed estensione della sua vita interiore. Ma qualunque strumenti imbracci, che sia una Strato o una Telecaster, riesce a esprimere l’inesprimibile, a dare un suono a sentimenti a cui è persino difficile dare un nome, al filo di malinconia che c’è sempre stata nel suo modo di suonare, quel blues cosmico ma per niente disperato che ha preso ora venature senili. Il Gilmour del Circo Massimo è un uomo di 79 anni in t-shirt che con la chitarra riesce a far sia commuovere che esaltare le persone. Lo si vede verso la fine del film, quando arriva l’assolo di Comfortably Numb: sotto al palco una ragazza piange, sopra Romany balla come un pazza, e hanno ragione tutt’e due.














