Ci appassioniamo alle ultime uscite di Beatles e Stones per sperare che non sia tutto finito | Rolling Stone Italia
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Ci appassioniamo alle ultime uscite di Beatles e Stones per sperare che non sia tutto finito

La musica dei grandi vecchi come trucco per cercare di rimandare la fine e riscoprire l’emozione di godersi le canzoni senza analizzarle

Ci appassioniamo alle ultime uscite di Beatles e Stones per sperare che non sia tutto finito

Paul McCartney e Mick Jagger assieme in treno nel 1967

Foto: Victor Blackman/Express/Getty Images

Quand’ero alle superiori rimasi colpito dal comportamento di un amico, grande fan di Rory Gallagher. Possedeva tutti i suoi dischi, tranne uno. Quando gli chiesi perché non lo avesse mai comprato mi sarei aspettato una risposta tipo «perché è un album minore» o qualcosa di simile. Invece la sua era sì una scelta consapevole, ma molto più poetica di quella che immaginavo, dettata dal fatto che non riusciva a convivere con l’idea di non poter più acquistare nulla di nuovo del suo eroe. Rory era morto da pochi anni e, al di là di qualche eventuale gemma dagli archivi, la sua discografia era destinata inevitabilmente a finire insieme a lui. Il gesto di lasciare un vuoto nella sua collezione in qualche modo lo teneva attaccato a qualcosa, a un futuro possibile.

Forse è questo tipo di sentimento che in parte ci fa sperare che ogni nuova uscita di gruppi come Beatles o Rolling Stones non sia altro che il penultimo passaggio della loro carriera. Qualcosa che probabilmente hanno compreso anche gli artisti in questione, che con un disco ancora caldo si affrettano a dichiarare di avere già pronto nuovo materiale, nuovi progetti, un futuro ancora da scrivere insomma. L’ha fatto Ozzy poco dopo l’uscita di Ordinary Man e di tutti i mezzi necrologi che ne erano seguiti, così come l’hanno fatto Mick Jagger e compagni a qualche ora dall’uscita di un album di inediti che i fan hanno atteso per 18 anni.

Non a caso, a chi ha visto il mini documentario che precedeva l’uscita di Now and Then non è sfuggito il probably pronunciato da Paul McCartney prima di definirla l’ultima canzone dei Beatles in assoluto. Perché in quel probably sta proprio l’utilizzo consapevole da parte di Paul di un avverbio capace di dare una speranza a chi lo sta ascoltando.

Qualche giorno fa, Peter Jackson ha confermato l’esistenza di alcune tracce audio scovate durante la lavorazione di Get Back che potrebbero subire un trattamento simile a quello di Now and Then. Insomma, se Mick Jagger, Keith Richards e Ron Wood dalla loro hanno il fatto di essere ancora vivi, da quella dei Beatles ci sarebbe comunque la tecnologia, che come ha confermato la «probably last song» dei Fab Four non sempre vien per nuocere.

Di fatto, però, torniamo al concetto iniziale: possiamo parlare di mere operazioni commerciali, di canzoni posticce o di scarti riesumati, ma i numeri e l’isteria generale dimostrano il nostro bisogno di pensare che non sia finita, spesso anche di fronte a una realtà che dice l’esatto contrario. D’altra parte, se l’arte è quella cosa che ci aiuta a concepire realtà altre, è anche la cosa più vicina al concetto di immortalità che conosciamo nel corso della nostra vita.

Anche la questione dell’utilizzo della AI ha spostato un po’ l’attenzione da quello che un brano come Now and Then rappresenta davvero: qui non stiamo parlando di Jim Morrison che canta Hanno ucciso l’uomo ragno o di Elvis che interpreta Smell Like Teen Spirit. Questo è un atto d’amore e l’amore sappiamo tutti essere la risposta. Così come possono essere considerati tali i brani cui nel tempo hanno rimesso le mani Brian May e Roger Taylor dei Queen. Dovrebbe essere un onore, non qualcosa da vivisezionare con un abuso di ragione. Perché spesso è il silenzio dell’istinto a generare mostri.

Vale più o meno la stessa cosa per Robert Plant che canta Stairway to Heaven, che non eseguiva dai tempi della reunion dei Led Zeppelin, e Jimmy Page che, una settimana dopo, fa la sua prima esibizione pubblica proprio da quel concerto del 2007. Sappiamo perfettamente che nessuna delle due cose avrà un seguito, però è innegabile che oggi stiamo tutti meglio di tre settimane fa. Proprio perché, citando Rocky Balboa, non è finita finché non è finita. E la fine, se vogliamo, può non giungere mai.

La scelta può essere discutibile e avere sicuramente una ragione commerciale, ma è indubbio che noi, soprattutto in un momento storico drammatico come quello che ci troviamo a vivere, abbiamo bisogno di cose come queste. Abbiamo bisogno di ritrovare quel fanciullo interiore che non sta a discutere sulla legittimità o meno di una cosa, ma se la gode e basta. Per questo motivo è troppo facile parlare di operazioni utili solo a rimpinguare le tasche delle major. È evidente che i soldi e la nostalgia ricoprono un ruolo fondamentale e non lo voglio sottovalutare. Ma quella evocata qui è una nostalgia vitale, l’esatto opposto di quella che in genere mettiamo in relazione con la depressione. Vedere George Harrison in studio nel 1995 non è solo bellissimo, ma ci aiuta ad evocare momenti vissuti che ci hanno resi felici e che, pur provenendo dal passato, agiscono sul nostro presente. Ci aiuta a considerare il passato non come un luogo da ricordare con dolore, ma come qualcosa da ritrovare nel futuro.

Da qui forse anche la scelta tanto dei Beatles che degli Stones di evocare con la tecnologia i tempi che furono e di mischiarli con il presente, in una sorta di eterno ritorno di nietzschiana memoria. Certo, con una differenza. In Angry la computer grafica ci ripropone gli Stones eternamente giovani, belli e pericolosi sui cartelloni pubblicitari che scorrono durante il video. Un modo per rimarcarne l’indole di sempre. Più difficile da comprendere è perché Peter Jackson abbia deciso di inserire un giovane Lennon così fuori contesto da apparire come un beota che fa i versi ai compagni che suonano. Questo sì un motivo valido per non volere mai più un nuovo video dei Beatles.

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