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Chris Cornell: sopravvissuto a tutto, ma non a se stesso

Il 18 maggio 2017 se ne andava tragicamente un'altra leggenda: una voce irreale, magnifica, che dalle macerie di Seattle ha commosso tutto il mondo

Foto Martin Philbey/Redferns

Nessuno se lo poteva aspettare. Alle undici e mezza di sera del 17 maggio 2017 Chris Cornell era il semidio dalla voce in quattro ottave, il ragazzo di Seattle travolto dall’ossessione per il volume e l’impatto fisico del suono, un messaggero dell’apocalisse rock, bellissimo e iconico nella sua Jesus Christ Pose. A mezzanotte e quindici minuti del 18 maggio era morto. Quarantacinque minuti di buio inspiegabile che si è portato via la vita di un uomo di 52 anni sposato e padre di tre figli e una delle rockstar più potenti ed amate del nostro tempo. Nessuno sa cosa sia successo.

Sembra impossibile pensare che in meno di un’ora, dopo aver parlato al telefono con sua moglie Vicky Karayannis che lo aspettava a casa a Miami, un uomo alto un metro e 88 abbia deciso di impiccarsi nel bagno di una stanza d’albergo utilizzando un nastro di gomma elastico che di solito viene usato per chiudere i “flycase” che trasportano strumenti e materiale da un concerto all’altro durante i tour. Perché la sera del 17 maggio 2017 Chris Cornell era sul palco del Fox Theatre di Detroit con la sua band, i Soundgarden. Dopo il concerto, chiuso con una cover di In My Time of Dying dei Led Zeppelin che oggi suona terribilmente sinistra, Chris è rientrato nella stanza 1136 del MGM Grand Hotel di Detroit, ha salutato la sua guardia del corpo Martin Kirsten e alle 23.30 ha chiuso la porta. A mezzanotte e quindici, dopo aver ricevuto una chiamata allarmata da Vicky, Kirsten sfonda la porta e lo trova privo di sensi in bagno. Cerca di rianimarlo, chiama i soccorsi ma alla 1 e 30 Chris viene dichiarato morto.

«Era diverso, biasciava le parole. Ho capito subito che qualcosa non andava» ha raccontato Vicky che da subito ha parlato di una dose eccessiva di Ativam, un farmaco a base di benzodiazepine che Chris usava per combattere depressione, ansia e le ricadute nell’alcol. «Tutti noi che conoscevamo Chris abbiamo notato che non era in sé nelle ultime ore della sua vita. Qualcosa è andato terribilmente male. La dipendenza non è una scelta» ha detto Vicky nelle coraggiose dichiarazioni rilasciate dopo la tragedia. Nella sua pagina web, ancora aperta per sostenere la Chris & Vicky Cornell Foundation aperta nel 2012 in difesa dell’infanzia si legge: “La voce di una generazione, un artista per ogni epoca”. Quando è morto Chris era nel pieno di una scarica di energia creativa che lo aveva fatto riesplodere, proprio come ai tempi di Screaming Life, il primo EP della band pubblicato dalla Sub Pop di Seattle nel 1987.

«Il rock & roll per me è sempre stata la voce della gente comune, degli outsider, di quelli che non comandano» diceva Chris Cornell. È cresciuto in una famiglia bianca e cattolica, ultimo di molti fratelli, in un quartiere della periferia di Seattle: «In cui tutti avevano fatto un sacco di figli. C’erano un sacco di ragazzi, piccoli e grandi, quindi c’era anche un sacco di droga». Per Chris, che inizia suonando la batteria prima di scoprire la voce il rock è una ragione di vita, per tutti gli altri la presenza scenica e la grandezza dei Soundgarden diventano un motivo per credere nel rock alla fine degli anni ‘80. Kurt Cobain ha sempre detto che i Soundgarden sono l’unica ragione per cui i Nirvana hanno scelto di registrare per la Sub Pop. Quando il music business ha cominciato a scavare nei club di Seattle in cerca dell’oro («È come se qualcuno fosse arrivato sulla tua montagna perfetta e avesse iniziato a distruggerla portandosi via tutto e lasciando lì a marcire quello che non gli interessa» diceva nel 1994 a proposito dell’implosione della scena grunge) lui è riuscito ad andare avanti, anche se ha perso degli amici come Andrew Wood, Kristen Pfaff delle Hole, lo stesso Kurt. In pezzi come The Day I Tried to Live dall’album Superunknown che vende 3 milioni di copie, ha gridato in faccia al mondo le sue fobie e le sue dipendenze giovanili.

«A 13 anni prendevo droghe ogni giorno, a 14 avevo già smesso per via delle troppe brutte esperienze, fino a 16 anni non ho avuto amici. Non sono andato al liceo, mi hanno cacciato subito. Facevo il cameriere, il lavapiatti, le pulizie, qualsiasi cosa. Poi ho cominciato ad interessarmi seriamente al punk rock» ha raccontato in una Rolling Stone Interview.

È sopravvissuto a tutto, ha sciolto e riformato i Soundgarden, ha suonato con gli Audioslave, sperimentato in un disco solista con Timbaland e collaborato con i Linkin Park. Con l’album Higher Truth uscito nel settembre del 2015 aveva trovato una nuova identità da cantautore distillando la sua musica all’essenza, al suono della sua voce pura intrecciata al quello della chitarra acustica. Come ha raccontato lui stesso: «Sono motivato a farmi ispirare dalla malinconia». Non c’era più solo rabbia e potenza. «Comincio a capire Neil Young: va in tour con i Crazy Horse, poi fa concerti da solo con sette chitarre acustiche. Ha perfettamente senso. Non sta cercando di scoprire chi è perché lui è tutte quelle cose insieme». Nell’ultima intervista mai rilasciata in Italia, prima di un concerto perfetto al Teatro Arcimboldi di Milano, Chris Cornell ci aveva spiegato la riscoperta della sua identità artistica come una rivelazione: «Fino ad oggi ho sempre cercato di evitarla, come se volessi fuggire da me stesso. Ora ho capito che sono tutte le mie influenze messe insieme, io sono la voce».

Sembrava la fine di un percorso di liberazione dai traumi di un’infanzia disagiata, dagli abusi di una giovinezza da rockstar, dai casini di un primo matrimonio difficile (con Susan Silver, manager dei Soundgarden e di altre band come Alice in Chains e Screaming Trees, con cui Chris ha dovuto combattere in tribunale più volte, anche per riavere la sua collezione di chitarre) e dallo spettro delle dipendenze.

A nessuno fregava un cazzo di Seattle, e la stessa Seattle se ne fotteva della sua musica

Durante il tour di Higher Truth era sereno, ispirato, consapevole. Aveva rimesso le cose a posto con i Soundgarden riportandoli in tour in giro per il mondo, aveva reso omaggio alla sua storia con la reunion dei Temple of the Dogs, il primo gruppo dei tempi di Seattle che aveva formato insieme ai futuri membri dei Pearl Jam e al suo amico Andrew Wood, in un’epoca prima della gloria grunge quando tutto ruotava intorno al senso di appartenenza: «E a nessuno fregava un cazzo di Seattle, e la stessa Seattle se ne fotteva della sua musica» come ha raccontato Chris a RS Usa, «Potevi avere tutti i fan che volevi ma se arrivava un band da fuori, meno brava e con meno seguito, tu dovevi aprire per loro».

Alla fine della sua carriera, Chris era diventato un interprete assoluto. Ha messo la sua voce irreale in primo piano, al servizio di canzoni che avessero la sua stessa profondità interiore. Dalla versione devastante di Nothing Compares to U di Prince a quella sorprendente di I Will Always Love You di Whitney Houston (a sua volta una cover di Dolly Parton), dalle reinterpretazioni di Billie Jean e Imagine durante il tour dell’album Songbook del 2011 fino all’elettricità pura di Helter Skelter dei Beatles o War Pigs dei Black Sabbath fatti con i Soundgarden e i Temple of the Dogs, le cover di Chris Cornell sono sempre state qualcosa in più di semplici cover. Immersioni nell’anima e nei sentimenti, oscuri o sublimi, che stanno all’origine di una canzone che lui scavava e riportava in superficie rendendoli ancora più intensi. L’ultima cosa che ha fatto è stato registrare nei Cash Cabin Studios di Hendersonville, Tennessee una poesia di Johnny Cash, You Never Knew My Mind e trasformarla in canzone per l’album-tributo Forever Words voluto dal figlio di Cash, John Carter Cash, a cui hanno partecipato amici di Cash come Wille Nelson, Kris Kristofferson a fianco di artisti come Elvis Costello, John Mellencamp e Robert Glasper.

«Johnny Cash ha avuto un’influenza incredibile su di me. Quando ero ragazzo i miei amici non avevano idea di chi fosse, ma io ero attratto dalle sue canzoni e dal suo modo di interpretarle». Cash ha scritto quel pezzo nel 1967 parlando della fine del suo matrimonio con la prima moglie Vivian e del suo nuovo amore per quella che diventerà la donna della sua vita, June Carter. Interpretato da Chris Cornell quattro mesi prima della sua morte, il testo assume un altro significato. Una richiesta di aiuto, l’egoistica rivendicazione della sofferenza che spesso accompagna un gesto assurdamente estremo come il suicidio, o forse solo un canto di rassegnazione al buio che lo inseguiva da sempre, che gli ha regalato tanta arte ma ha finito per inghiottirlo:

“Ci sono stati tempi felici e molte risate
In cui tu sentivi di aver capito tutto
Eravamo spensierati, aperti e sinceri
Innamorati, semplici, gentili e veri
E immagino tu non abbia mai avuto dubbi
Sul fatto che tra di noi andasse tutto bene
Ma non hai mai conosciuto davvero la mia mente”

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