Si vede con un misto di gioia e di malinconia una delle ultime, se non l’ultima intervista in assoluto di Paolo Benvegnù affiancato da due membri degli Scisma. È stata realizzata il 15 novembre 2024, il cantautore è morto il 31 dicembre. È uscita oggi.
Con lui ci sono Giorgia Poli e Michela Manfroi, bassista e tastierista della band sia negli anni ’90, sia ai tempi della reunion del 2014-2015. I tre si sono ritrovati al Jungle Sound, lo studio dove gli Scisma hanno registrato l’album Rosemary Plexiglas, per rispondere alle domande di Fabrizio Rioda per il vodcast Milano sogna dedicato allo studio/sala prove, ma anche alla scena cittadina dell’epoca (a questo link tutte le puntate, da Manuel Agnelli a Morgan passando per La Crus, Casino Royale, Pino Scotto).
«Non me ne rendevo conto», dice Benvegnù a proposito delle energie messe in circolo dal Jungle, «lo vedevo come un abbordaggio a una nave di speranza. Non capivo tutta l’energia e quante formazioni incredibili gravitavano qua attorno. Anche il pubblico italiano non era più quello tradizionale. Finalmente c’era un pubblico non clericale e che guardava oltre i confini. Quello che succedeva qui era un riflesso di quello che accadeva in Europa, negli Stati Uniti, nel Regno Unito. Un unicum. Un po’ come il neorealismo nel cinema».
Parlando dei primi anni della band Michela Manfroi ricorda che «si dormiva dove si suonava, nel locale appena chiuso, senza cachet e con la 127 stracarica… Sono state esperienze formative e per una legge di causa-effetto tutta quella voglia di fare alla fine è tornata indietro. Una delle ricompense enormi è stato trovare questo posto con tutto quello che è venuto dopo, la vedo come una ricompensa per quella purezza lì. Chi ce lo faceva fare con una 127 di andare fino a Torino ai Murazzi senza prendere una lira…».
Rosemary Plexiglas era prodotto da Manuel Agnelli. «Secondo me» dice Giorgia Poli « è stato bravissimo a seguirci, anche se tanto lavoro era già stato fatto e arrivavamo con brani cesellati in maniera certosina. Ma serviva la supervisione esterna per portare un po’ più in là la band». Nella chiacchierata Benvegnù ricorda «che veniva sempre su nella sala F, mentre nella E c’erano Elio e Le Storie Tese e per noi era già un’emozione incredibile. Manuel stava facendo Hai paura del buio?, veniva su con delle maracas e agitandole diceva “Oh, ma sai che con le maracas questi pezzi sono ancora più belli?”».
«Una volta mi sono arrabbiato un sacco con lui perché mi aveva detto di cantare in modo più sensuale, io ho la sensualità di un estintore ma col passare del tempo ho capito cosa voleva dirmi». All’inizio, dice Poli, «era serissimo, aveva un ruolo, cercava di essere professionale. Poi è finita. Lo ricordo che stava a cavalcioni sulla sedia della regia e faceva delle gag pazzesche. Conquistarlo è stato importante. Quando abbiamo iniziato, Paolo e Michela avevano un locale che si chiamava il Vicolo e lavoravamo tutti lì, chi come cameriere, lui come barman. E lì guardavamo su VideoMusic o MTV i gruppi della scena milanese e ci dicevamo: cavolo, sta succedendo qualcosa».
La bassista ricorda che gli Scisma erano diversi dalle altre band che frequentavano il Jungle ed erano molto più… festaiole. «Non usavamo nessun tipo di droga, non bevevamo, non fumavamo… diciamo che dal punto di vista del cliché del rock eravamo un po’ anomali, ma i musicisti che c’erano al Jungle ci hanno accolti».
«Io» ricorda Benvegnù «ero molto ingenuo, abito a Perugia e lì si definisce così questa cosa: “Sei tonto”. Non mi sono accorto di niente. La cosa che mi piaceva tantissimo era la grandissima interazione fra i musicisti. Siamo venuti giù dal Lago di Garda e ricordo l’esultanza di quando abbiamo prenotato dalle 10 all’1 di notte, partendo alle 7. Una volta arrivati qui abbiamo visto che tutti si trattavano in maniera paritaria, dal più piccolo al più grande. È stata una grande lezione».
In quanto allo stile del gruppo, Michela ricorda che lo slogan era: Scisma trasforma dualismo in dualità. «Era un concetto importantissimo. Il fatto che tutto sia fatto di opposti che si compenetrano l’ho ritrovato nei testi scritti da una persona che non praticava il buddismo come Paolo. Evidentemente sono concetti che fan parte di noi e quindi tutto ritorna».
Ai tempi di Rosemary Plexiglas, dice Benvegnù, «dopo aver ascoltato Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins mi sono detto: cerchiamo di fare questa cosa qua. Ovviamente non eravamo bravi quanto loro, ma quello per me è stato un grande riferimento musicale e di atteggiamento. Prendevamo l’attitudine anche dai gruppi che suonavano ai festival, come i Neurotica e il loro rigore sul tempo. Ancora oggi mi sento parte di questa moltitudine di band che pochi conoscono».
Alla fine, però, la band è implosa. «Colpa mia», dice Benvegnù nell’intervista, «abbiamo ragionato sempre per obiettivi: andare a suonare a Garda, a Brescia, a Milano, al Jungle, a Roma… Arrivati alla fine della tournée di Rosemary e in Europa di obiettivo ne rimaneva uno solo: Sanremo. Per arrivarci abbiamo pensato che bisognava partire dall’inizio e ci è sembrata una montagna troppo alta da scalare».
Un po’ tutta la scena, aggiunge, è implosa «sotto i colpi della performance, della prestazione e dei numeri. Ecco perché mi sento a casa qui, sento l’energia sana e pura che è stata messa in campo. Ci sono voluti 20 anni per rivalutare quella scena. Il tempo è galantuomo».












