Che disagio ascoltare 'Barrett', anche 50 anni dopo | Rolling Stone Italia
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Che disagio ascoltare ‘Barrett’, anche 50 anni dopo

Irriconoscibile rispetto alla vitalità che aveva coi Pink Floyd e nell'esordio, il Syd Barrett del secondo album mette in mostra senza censure la sua fragilità. Difficile abituarsi a tanta inquietudine

Che disagio ascoltare ‘Barrett’, anche 50 anni dopo

Syd Barrett

Foto: Andrew Whittuck/Redferns

Roky Erickson e Skip Spence. Brian Wilson, Ian Curtis, Daniel Johnston. Non sono pochi gli artisti rock che, nei loro dischi, hanno fotografato più o meno consapevolmente uno stato di progressivo disfacimento, una disintegrazione mentale in corso d’opera. Nessuno, probabilmente, lo ha fatto con il candore disarmante e l’eloquenza drammatica di Syd Barrett nel suo secondo LP Barrett. A cinquant’anni esatti dalla sua pubblicazione, l’ascolto di quell’album provoca ancora un senso di disagio, un’inquietudine di fondo cui è difficile abituarsi. Più ancora di quanto facesse il disco precedente uscito all’inizio dello stesso anno (il 1970), The Madcap Laughs: caotico, disordinato, ma a suo modo vitale.

Ascolti queste 12 canzoni, invece, e ti sembra di veder scorrere davanti agli occhi un crudo e spietato documentario su un uomo, un musicista, in cammino su una strada buia e senza uscita. A colpirti, a ferirti per prima è quella voce quasi irriconoscibile rispetto ai tempi non lontani di Arnold LayneSee Emily Play, di Bike e Lucifer Sam: atona e spenta, invecchiata e malinconica. Come se l’accecante technicolor di The Piper At The Gates Of Dawn avesse lasciato spazio a un livido bianco e nero espressionista che riflette una realtà tragica e deformata.

È quasi commovente lo sforzo di David Gilmour – qui produttore, chitarrista e anche bassista – e dei suoi collaboratori (Rick Wright alle tastiere, il batterista degli Humble Pie Jerry Shirley, l’altro percussionista Willie Wilson), che si sforzano di cucire un vestito musicale presentabile intorno a quegli scarabocchi sempre più schizofrenici, scomposti e scarmigliati, parto di una mente sconvolta che segue rotte imperscrutabili mandando all’aria le nozioni più elementari e condivise di ritmo, melodia e armonia, strofa e ritornello. Ma è una lotta impari, un corpo a corpo con una creatura sfuggente e misteriosa cui è impossibile dare una forma compiuta. Parte Baby Lemonade, e dopo un innocuo giro blues di chitarra acustica tutto cambia nell’arco di 40 secondi: non c’è più allegria, è scomparsa la febbrile innocenza del Syd che avevamo conosciuto con i primi Pink Floyd e ogni volta tornano in mente le parole del loro primo produttore Joe Boyd, quando racconta di avere visto spegnersi d’improvviso quella luce brillante che aveva negli occhi.

Ascolti Dominoes, un lamento sulla solitudine e sull’isolamento che Gilmour ha voluto eseguire più volte in sua memoria, e si materializzano le immagini di due reclusi che cercano un modo di ingannare il tempo, in un ospizio o forse in un ospedale psichiatrico. Non hai l’impressione di assistere a una fiction, però; piuttosto alla devastante confessione di una persona che percepisce di essere finita in trappola. In Love Song la voce è sedata, come se provenisse da un nastro riprodotto al rallentatore o da un paziente appena uscito da un elettroshock. In It’s Obvious le parole faticano a uscire di bocca. In Rats le tessere del puzzle si sparpagliano senza ordine. In Maisie l’atmosfera è mortifera, sepolcrale, in Waving My Arms In The Air è claustrofobica, mentre in Wolfpack Barrett canta senza filtri di una vita che gli sta sfuggendo dalle mani.

Neppure il ritmo più vivace e la chitarra bluesy di Gigolo Aunt – l’unico pezzo, riportano le cronache, che Barrett e la band incisero insieme in studio – e il music hall scarcassato di Effervescing Elephants allentano la tensione. Sono tutte anti-canzoni (come le ha definite la cantautrice gallese Cate Le Bon, una che come Julian Cope e Robyn Hitchcock le ha mandate a memoria) dalla trama esile e friabile, baciate da piccoli lampi di ispirazione che l’artista non riesce a trattenere tra le mani. La chitarra di Gilmour, il pianoforte, l’Hammond e l’harmonium di Wright provano a riportarle su questa terra, ma invano. Ed è encomiabile, in fondo, la decisione di Gilmour di non incaponirsi lasciando che Barrett esponga senza censure la sua sconvolgente fragilità, la sua arte che si fa dolore e si frantuma.

Per questo Barrett è un disco disturbante che ancora oggi ascolto di rado e maneggio con cura. Troppa nevrosi e paranoia, per poter essere affrontata con noncuranza. Troppo brutale e sincero, incapace di ricompensarti con quell’effetto catartico e consolatorio che spesso si accompagna all’ascolto di canzoni tristi e disperate. C’è voluto coraggio, da parte di Gilmour, per  portare a termine la missione, aiutando Barrett a realizzare un disco ostico, scomodo e per tutti, probabilmente, portatore di non poca sofferenza. Ci vuole un atto di volontà e la giusta disposizione d’animo per aprirsi al suo ascolto. A quel mondo malato e gracile, poetico e toccante.

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