«Quando ho registrato un album che si chiamava Datevi fuoco non avevo una lira. Ho chiamato Fabrizio Rioda del Jungle Sound che mi ha detto: “Pino, questa è casa tua, fai quello che ti pare”. Sono stato qui un mese, però il secondo giorno mi ha detto: “Pino, almeno paga il fonico”».
Inizia così la chiacchierata Fabrizio Rioda del Jungle Sound (e dei Ritmo Tribale) e Pino Scotto, ospite della sesta puntata del vodcast Milano sogna che indaga la scena musicale cittadina anni ’80 e ’90 attraverso l’attività di uno dei più noti studi di registrazione e sala prove, il Jungle appunto (a questo link le altre puntate).
«Siamo stati fortunati», dice Scotto ripensando a quegli anni, «perché quella era una Milano che urlava. Si urlava rabbia, libertà, voglia di cambiare, voglia di cambiare il Paese, sembrava di essere tornati agli anni ’70, veramente bello. Adesso questa città è diventata una fogna, non ci sono più spazi liberi, ce n’è qualcuno ma è un altro tipo di libertà oggi. Anche perché questi ragazzi delle nuove generazioni li hanno chiusi in gabbia facendogli credere che l’arte e la libertà siano il male assoluto. Programmi come questo insegnano ai giovani che c’è un’altra via, un’altra strada, loro hanno visto solo una via a senso unico e all’inizio c’è una targa e c’è scritto: Via di Merda».
«Mi sono rotto di andare in certi posti e vedere la tristezza assoluta, vedo tanta banalità, manca la voglia di cambiare, di lottare. Vedo gli sguardi spenti negli occhi delle persone, sono gli stessi sguardi spenti come si vedevano ai tempi in quelli che si facevano di eroina, gente che ha deciso che non esiste un futuro. Ma non è così, bisogna cambiare, bisogna lottare, a cominciare da quel palazzo di merda che c’è giù a Roma».
Pino Scotto è arrivato a Milano nei primissimi anni ’70 per fare il militare. «Era l’anno in cui ho visto i Led Zeppelin, i Chicago, i Jethro Tull allo Smeraldo. Ho visto il concerto del pomeriggio, poi mi sono imboscato nella buca dell’orchestra e ho visto pure quello della sera. E poi gli Yes, i Gentle Giant… sono passati tutti quell’anno a Milano».
Scotto suonava e per mantenersi faceva l’operaio. «In fabbrica, non stavo dietro a una scrivania. Non per disprezzare gli impiegati, ma io non dormivo la notte, ho fatto 35 anni così, senza dormire… E la cosa strana sai qual è? Che io non mi ricordo un giorno che sia uno della fabbrica, perché era un modo per portare a casa uno stipendio. Di quello che ho fatto con la mia passione per la musica però mi ricordo tutto, dalla A alla Z…».
Ripensando a quegli anni: «Si suonava dappertutto, alle feste dell’Unità, era pieno di sale prove come qua, era un viavai dalla mattina alla sera di gente che entrava con gli strumenti e usciva con il sorriso. Ora non c’è più nulla di tutto questo. Negli anni ’70 ci lamentavamo senza sapere quello che sarebbe arrivato: un genocidio culturale, umano, sociale».
Scotto è tra le altre cose autore di un pezzo intitolato Leonka inciso coi Ritmo Tribale. «L’ho scritto perché ci ho vissuto, ci ho passato la vita dentro al Leoncavallo. La notte in cui hanno ucciso Fausto e Iaio ero lì… sono arrivati urlando che li avevano ammazzati… siamo andati nella via di fianco ed erano lì stesi per terra».
A tenerlo in vita in tutti questi anni, dice, è stata la passione. «Oggi nell’aria questa gente cosa respira? Hanno distrutto tutto, ragazzini che vanno in piazza a migliaia a vedere uno che canta stronzate con una macchinetta. Ragazzi che parlano di libertà delle donne e poi nei testi dicono il contrario. Vedere che questi ragazzini fanno i sold out a San Siro… a San Siro! Una volta ci andava solo Vasco. Adesso qualsiasi scappato di casa fa il sold out a San Siro, sparano cazzate a manetta e non beccano una nota».
E ancora: «Io credo che questi scappati di casa che vanno in giro con l’Auto-Tune hanno trovato un modo per fregare i giovani, hanno creato una lobby. Ragazzi, la musica non è quella… quella è una truffa, vi stanno levando la possibilità di ascoltare la musica con la M maiuscola e un mondo senza musica è un mondo spento, è un mondo senza luce».
Torniamo al blues, propone Scotto. «Anche il rock è diventato la fotocopia di sé stesso. Ed è per quello che dico sempre ai ragazzini: torniamo al blues. Fatti un anno o due di blues e poi suoni quello che vuoi. Il blues ti insegna cosa sono l’anima, il timing, l’interpretazione, cos’è suonare. Torniamo al blues e riscriviamo la storia del rock. Lo possiamo fare anche noi italiani».













