C’è solo un modo per salvare le discoteche italiane: prenderle sul serio | Rolling Stone Italia
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C’è solo un modo per salvare le discoteche italiane: prenderle sul serio

Il governo ha deciso, le discoteche non riaprono. È un disastro, ma anche un’occasione irripetibile per isolare i disonesti, rinnovarsi, capire che il trend negativo del settore si combatte con l’innovazione

C’è solo un modo per salvare le discoteche italiane: prenderle sul serio

Foto via Unsplash

Ma le discoteche ci stanno prendendo per il culo? O invece stanno prendendo per il culo le discoteche? Ehi, sorpresa: sono vere entrambe le affermazioni. Di più – sono proprio interdipendenti. Questa è la verità. Anche se è troppo comodo per troppe persone nasconderla, e fare finta di niente. Eppure, mai come ora sarebbe davvero il momento di dare un taglio a questa ipocrisia di comodo, un’ipocrisia generalizzata. Nel momento in cui scriviamo è appena venuta fuori la notizia che no, le disco non si aprono ancora, dopo che per quest’estate ci si è trascinati per settimane e mesi con: possono aprire? Non possono aprire? Sì, ma col Green Pass? Col Green Pass e piena capienza? O capienza dimezzata? E le mascherine? Mentre balli si tengono o no? Dubbi che sono parcheggiati lì da mesi e mesi, quando ancora la variante Delta che ha scompaginato un sacco di certezze non era apparsa e, insomma, in teoria si poteva ragionare in maniera abbastanza lineare su cosa si poteva fare cosa no.

Chiaro, Briatore sta sulle scatole a tutti – tranne che ai cafoni, agli arrivisti e a qualche caso isolato qui e lì – e nel momento in cui l’anno scorso lui prima si è erto a grande avvocato delle discoteche e poi è diventato cluster di contagio col suo Billionaire sardo in molti hanno esultato: giustizia è fatta, vendetta è compiuta! Ora: a parte che il contagio non si augura a nessuno, manco agli stronzi, il punto è che Briatore è stato l’utile idiota perfetto per lo status quo attorno a un argomento, il ballo e le musiche ad esso connesse nel ventunesimo secolo, che invece andrebbe trattato in ben altro modo. E intendiamo: in ben altro modo dai media, dagli addetti al settore, dagli appassionati ed anche dal pubblico generalista.

Se Simon Reynolds nelle musiche da ballo tecnologicamente evolute più interessanti dagli anni ’90 in poi individua un hardcore continuum, in maniera più casereccia qui in Italia dobbiamo fare ancora i conti con un De Michelis continuum. Non ci siamo ancora schiodati di dosso cioè quell’immaginario per cui la discoteca è un playground di sudata ostentazione, di divertimento crasso e paffuto, di sprezzante stupidera e stop, quella roba lì. Qualcosa dove, se metti dei contenuti culturali di spessore, sei scemo – o sei un eccentrico snob senza speranza e senza particolare utilità. Perseguire ancora oggi questa brillante linea ci sta facendo perdere un mare di treni da un sacco di tempo a questa parte, almeno dai primi anni ’90. Mentre altrove hanno capito che la musica da dancefloor è un incredibile attrattore di dinamicità, di teste pensanti, di innovazione, di spirito imprenditoriale e di curiosità culturale, tutte cose che poi si traducono in una ricaduta economica vera (chiedere a Barcellona, Berlino o alla stessa Londra blairiana per informazioni, ma anche a Belgrado o Tbilisi, a Tulum o alla Istanbul pre-Erdogan), in Italia no, in Italia siamo fermi ai vecchi luoghi comuni.

La cosa è doppiamente paradossale se pensiamo, come scrivevamo recensendo il film-documentario Disco Ruin, che proprio l’Italia è stata una incredibile culla dell’innovazione e della creatività generata dai luoghi del ballo, in un intreccio intensissimo – all’epoca in buona parte sconosciuto al resto del mondo, con l’eccezione forse di New York – di musica, arte, moda, di capacità di essere popolari (quasi tamarri…) e sofisticati al tempo stesso. Un allineamento dei pianeti che è finito a schifìo: un po’ perché sì, perché così è la vita e tutto va a cicli, un po’ per i forti limiti culturali e per l’inconsapevolezza che c’era – e in buona parte c’è – in chi doveva gestire e dominare questi fenomeni e queste spinte.

Perché sì, è vero che il pubblico è volubile e le mode passano, e può succedere che un ventenne oggi preferisca la trap alla techno, ma il modo in cui è stata smantellata (o direttamente mai costruita…) una architettura culturale attorno al ballo, beh, grida vendetta. Anzi: grida Briatore, che è il perfetto erede della Weltanschauung da Dove andiamo a ballare questa sera?, il famigerato libro di De Michelis, di cui peraltro in tanti hanno evidentemente saltato all’epoca la parte introduttiva – quella in cui si sottolineava che le discoteche iniziavano a diventare un fenomeno economicamente rilevante (ed era il 1987, prima cioè che il ballo iniziasse a diventare anche un volano sociale e intellettuale e di nuova imprenditorialità con l’avvento della club culture).

Per pigrizia o impreparazione intellettuale da un lato o forse perché rammollite dal guadagno facile piovuto sulle sale da ballo dagli anni ’80 alla prima parte degli anni ’90 dall’altro, le discoteche italiane nella stragrande maggioranza dei casi non hanno mai fatto il salto che, oggi, avrebbe potuto salvarle. Nell’immaginario popolare di casa nostra – e ahinoi c’è sempre un buon tasso di verità nei luoghi comuni – il proprietario di una sala di ballo /discoteca è il localaro a cui non frega nulla della musica (anche perché della musica poco sa), che pensa all’incasso, che aumenta i margini approfittando del nero, che ripulisce i soldi e infine, nei casi migliori e più poetici, guarda il culo alle cubiste (completamente inconsapevole del fatto che spesso fra le persone che stanno facendo la fortuna e gli incassi del suo locale ci sono omosessuali e, in genere, persone molto attente a stare mille miglia lontane dal retrogrado maschilismo all’italiana: la loro creatività ed espressività molto volentieri nasce proprio da quello).

Ma andava bene a tutti. Anche chi era onesto tutto questo immaginario in fondo se lo faceva andar bene. Il localaro guadagnava, il dj suonava (e intascava, vuoi fatturando, vuoi in nero), soldi ne giravano, lavoro ce n’era. Alé, tutti contenti. Non c’era insomma bisogno di preparazione specifica sulla materia musica per fare più soldi: anzi, passata l’esplosione di idee e stranezze di inizio anni ’90 c’era la crescente convinzione che se eri troppo sofisticato, troppo avanti, poi gli incassi calavano drasticamente. Karma is a bitch: perché a un certo punto le discoteche hanno visto comunque calare i loro incassi e hanno iniziato a chiudere come mosche; e i tentativi di salvarsi diventando sempre più dozzinali e commerciali (le comparsate dei vip, i dj set farlocchi di questa o quella celebrità…) non hanno funzionato praticamente mai. Un insegnamento, quello che rivolgersi al peggio e al dozzinale non funziona per davvero sul medio-lungo termine, che incredibilmente ancora non riesce a passare nella consapevolezza comune del settore. Settore che guarda un po’ intanto continua a contrarsi, anno dopo anno. Ormai le discoteche vecchio stampo andranno messe sotto protezione dall’Unesco (se non ci ha già pensato la Guardia di Finanza a sequestrarle, o qualche banca che si è stufata di tenere alto il fido).

Eppure era arrivato l’Angelo Salvatore, a fine anni ’90 e nei primi 2000: la club culture. Wow. Presa dall’Inghilterra (che a sua volta l’aveva presa da Ibiza), e poi andata a sciacquare i panni nella Sprea o nel Meno, la cosiddetta club culture aveva improvvisamente creato nuovi stimoli, nuovi interessi e soprattutto una nuova generazione – e nuove fasce sociali – di frequentatori e fan del ballo. La discoteca italiana anni ’90, mastodontica e capace nei casi migliori da un certo momento in poi solo di prendere strapagandole vecchie glorie house americane, improvvisamente aveva la possibilità di (ri)connettersi con un fenomeno culturale vivo, attivo, propositivo, immaginifico.

Eh. Peccato che non aveva, in media, minimamente i mezzi per comprenderlo questo fenomeno, per leggerlo. E allora che ha fatto? Si è affidata ai ragazzini che sembravano più svegli (e, soprattutto, che da PR vendevano più biglietti agli amici) per mettere una spolverata di minimal berlinese o di techno inglese o di house più contemporanea nelle proprie programmazioni. Dandogli carta bianca solo fino ad un certo punto, e credendoci solo fino a un certo punto: pronti infatti a staccare la spina a queste svolte al primo segno di cedimento degli incassi. Chi invece era realmente esperto e magari pure protagonista in questa rivoluzione della club culture è stato quasi sempre guardato con sospetto da chi muoveva le leve economiche del settore, mai gli sono stati affidati reali investimenti e fiducia: «Diffida della cultura, diffida da chi ti fa discorsi troppo intellettuali, ti farà perdere soldi, e già ne stai guadagnando meno di prima». Più fiducia insomma in Göbbels (che poi la citazione quando sento la parola cultura metto mano alla pistola è in realtà di Baldur Von Schirach…) che in Simon Reynolds, insomma. Anche perché: chi cazzo è Simon Reynolds? Se lo chiamo e lo pago, quanti biglietti faccio alla porta? Ai PR piace? Me lo spingono?

Ma occhio, però. Occhio. Anche i cavalieri della club culture, soprattutto quelli più giovani, non è che si siano fatti poi tantissimo onore in questo ventennio in cui la storia della musica da ballo è stata dalla loro. Eh no. Esattamente come il mondo dei blog e delle/degli influencer che invece di essere un’informazione più vera ed autentica sono diventati, in brevissimo tempo e con l’arrivo dei primi soldi uno showcase di favori agli amici, prostituzioni intellettuali e tariffari-per-post come e più del giornalismo tradizionale tanto esecrato, allo stesso modo i nuovi protagonisti degli eventi techno e house dal 2000 in poi hanno visto bene di buttare a mare senza troppi scrupoli, con l’arrivo dei primi soldi veri, tutto l’armamentario ideale della club culture (che c’è, eccome se c’è), pensando solo a massimizzare i guadagni e a crescere, crescere, crescere un po’ per spirito capitalista, un po’ per hybris magari da banconota arrotolata.

C’è chi l’ha fatto restando indipendente. C’è chi l’ha fatto decidendo negli ultimi anni di andare a braccetto con le (un tempo odiate, un tempo nemiche…) major dell’intrattenimento. I dj hanno iniziato a chiedere jet privati e hotel sette stelle come e più dei Rolling Stones. E chi non si è unito a questo circo, beh, è stato visto come sfigato. Sì, magari amante e conoscitore della musica, della nuova cultura attorno al ballo, quindi amico e parente, non un vecchio catafalco da discoteca o sala da ballo, va bene; ma comunque sfigato.

Bello, vero? La pandemia però è arrivata a rompere questo giochino dei nuovi ricchi della musica da ballo. Ad oggi sono ancora spiazzati, non sanno come reagire, i più fortunati di loro avevano accumulato abbastanza ricchezza da poter stare fermi per i mesi in cui si è stati fermi; ma pure lì le riserve stanno finendo, ed affiorano i primi segnali di nervosismo. Anche i (nuovi) ricchi piangono.

E qui arriviamo al punto. Tutto questo poteva (e doveva) figliare una cosa: ci si unisce! Finalmente! Tutti insieme! Evviva! Sferzati dalla gravità della situazione (tenere un settore fermo o quasi per 18 mesi è micidiale, immaginate di non ricevere lo stipendio per un anno e mezzo e magari di avere pure spese fisse), si poteva alla buon’ora riprendere consapevolezza sui lati positivi e sulle forze propulsive della cultura del ballo. Club culture o discoteca vecchio stile che fosse, ecco. Nessuna differenza. Uniti nel chiedere un riconoscimento; uniti nell’elaborare una piattaforma comune che salvaguardasse sì le differenze ma unisse gli sforzi; uniti nel comprendere come un maggior investimento sullo spessore culturale di ciò che si fa era ed è un ottimo investimento. Uniti, uniti, uniti. Anche solo per prendere ristori ad alta liquidità, come è successo ad esempio in Inghilterra (club, dj, agenzie di booking, persino testate giornalistiche dedicate alla musica elettronica: perché le autorità britanniche hanno riconosciuto l’importanza economica del settore, la sua capacità di generare ricchezza, dinamicità, innovazione, posti di lavoro anche e soprattutto per i giovani).

Il settore più tradizionale aveva l’occasione per fare pulizia al suo interno: rinnegare gli arrazzoni e i disonesti, smetterla col nero e le cose sottobanco, comprendere che il palese trend discendente del proprio settore andava combattuto con l’innovazione. E se per innovare non hai soldi, beh, allora l’unica è rinfrescare le idee e proporre qualcosa di nuovo e soprattutto: dare il via a un rinnovamento prima di tutto generazionale. Rinnovamento che tra l’altro, guarda un po’, era ed è a portata di mano: tutta la schiera di persone che sono entrate nell’industria del ballo grazie alla club culture, alla techno, all’house, alla fascinazione per le Berlino, le Ibiza, le Barcellona! Sì, loro. E non sono poche. Se insomma il settore fosse stato in grado di unirsi e di far evolvere questa attuale frattura generazionale e di mentalità in un qualcosa di nuovo, qualcosa di unitario e condiviso attorno alcuni principi base, allora sarebbe stato molto più difficile per il governo Conte prima e per il governo Draghi poi ignorare così serenamente le istanze sulle riaperture. Non lo ignori, un player di peso. Citofonare Confindustria per conferme.

Invece che succede? Succede che nel SILB, il sindacato che dovrebbe rappresentare tutto il settore, le nuove facce entrano col contagocce. Sono anzi sempre più le persone ai vertici che in realtà manco hanno più una discoteca e che comunque, se ancora ce l’hanno, non si pongono però minimamente il problema della qualità, pensano solo a fatturare e a far divertire la gente nel modo più flat possibile (il che ci sta, eh, perché anche il divertimento più commerciale ha una sua ragione d’essere, non va certo abolito; ma di solito ai vertici di un ente importante si mettono le eccellenze, non i mestieranti).

Tutta colpa del SILB? Macché. Almeno il SILB c’è, esiste, si agita, qualcosa fa, qualcosa conta, ha un minimo di riconoscimento istituzionale. Tutta la parte nuova del settore da quando è nata ha invece sempre schifato o ignorato le istituzioni, a meno che non servissero per ottenere permessi per far svolgere qualche evento speciale. Il senso di collettività e proprio di settore, di categoria, è stato ignorato se non addirittura sbeffeggiato da questa nuova generazione modernista di cavalieri dell’intrattenimento danzante: vale per i promoter, vale per i dj, vale per tutte le figure professionali che ruotano attorno alla club culture (tranne quelle, beate loro, che interagiscono un po’ di più col mondo della musica live tradizionale). Ah, e ricordiamo l’altro tassello: i più preparati e acculturati, in questo mondo nuovo, erano comunque come si spiegava prima gli sfigati. Gente senza soldi alla fine: perché non ne aveva fatti abbastanza, essendosi rifiutata proprio per amor proprio ed eccesso di cultura di lucrare sull’immaginario più standardizzato e commercializzato di Ibiza o Berlino. E se non sei stato così smart da arricchirti in un momento in cui si arricchivano anche i più pischelli e i più ottusi, che autorevolezza pensi di poter avere? L’unica figura che un po’ metteva d’accordo tutti – ma dietro le quinte, più d’uno gli dava del bollito e guarda un po’ dello sfigato proprio quando si esponeva a favore della categoria – era Claudio Coccoluto, che purtroppo non c’è più.

Questo il quadro della situazione. Chiaro: ci sono le eccezioni, ci mancherebbe. Chiaro: fra vecchi e nuovi, fra sindacati (SILB) e neonate club commission (CFC), qualche persona in gamba ovviamente c’è. Ma se al SILB si rimprovera di non aver ottenuto nulla e di non contare un tubo nonostante esista da mille anni, CFC – che dovrebbe raccogliere il meglio dell’autorità, della conoscenza e del fatturato della nuova generazione – ha ottenuto di suo ancora meno, almeno ad oggi, restando più un circolo del bridge dove ci si trova e si fanno considerazioni sul tempo e sulla (in)capacità degli altri. I dj e i management, invece? I dj e i management dal canto loro tacciono (quelli importanti); oppure si agitano in modo insensato (quelli meno importanti, che sperano di guadagnare visibilità non con la loro abilità tecnica e musicale ma facendosi vedere in questa fase di stop e reclamando come diritto connesso per la ripartenza spazi che in passato mai hanno avuto).

Bel quadro, vero? Una veduta d’assieme che racconta di una grande improvvisazione, impreparazione, inadeguatezza. Già. Tre caratteristiche che sono state nascoste o sterilizzate quando le cose andavano alla grande per forza, perché in fasi diverse (e in modo diversi) la pista da ballo ha sempre avuto la capacità di appassionare le persone e di evolvere in modo vitale attraverso il succedersi delle generazioni (perché il ballo è una espressione troppo bella dell’umanità e dell’emotività, non morirà mai); ma appena la china è diventata imprenditorialmente più scoscesa, i limiti sono venuti fuori. Ora che causa pandemia è proprio scoscesissima, praticamente drammatica, invece di tirare fuori il meglio del proprio potenziale grazie alla forza della disperazione si sta invece girando a vuoto, molto più che altre categorie, molto più che altri settori, molto più che altre sfere della musica e dello spettacolo.

Ma non è solo per questo che Conte prima e Draghi poi non stanno prendendo in considerazione le istanze degli operatori del ballo. No. C’è una grande verità non detta, e che fa paura: la gente non sente più un particolare vincolo d’appartenenza verso chi, oggi, fa vivere il mondo dell’intrattenimento danzante. Oh: per andare a ballare (quando si poteva, e quando si potrà) ci va, questo sì. I numeri si fanno. Si torneranno a fare. Ma la verità è che anni ed anni di immobilismo e corsa al ribasso culturale da un lato e di presunzione e autoreferenzialità dall’altro, hanno creato un drammatico scollamento tra il mondo del ballo – discoteche o club che siano – e il loro pubblico. Guardate bene: sui social si agitano tantissimo promoter, dj, pr e i loro amici più stretti, tantissimo, ma la gente diciamo così normale è abbastanza indifferente alle sorti del settore. Le discoteche e i club dovrebbero essere i maestri delle pubbliche relazioni, del convincere le persone a fare qualcosa uscendo di casa: la mobilitazione che sono riusciti ad ottenere è invece al momento nulla, o quasi. Fa pensare.

D’altro canto ti viene anche da dire: e perché dovrei prendere sul serio certi lamenti? Già, in quanto proprio per l’incapacità del settore di fare fronte unico e organizzarsi oggi c’è in atto infatti una Babele ridicola: da un lato le discoteche e i club che strillano perché continuano ad essere chiusi e non considerati dalle istituzioni nonostante un protocollo sanitario pronto da mesi e benedetto anche da studiosi e pandemisti molto quotati, dall’altro però se ti guardi attorno ballano tutti, molti dj comunque suonano in giro come nulla fosse, l’escamotage del ristorante o dello stabilimento balneare viene usato alla chetichella da molti, troppi. La gente non ha minimamente la percezione che, ad oggi, il ballo sia vietato. Come invece è.

Ecco perché stanno prendendo per il culo le discoteche, perché sì, le nostre istituzioni lo stanno facendo (lasciandole ancora senza risposta, sulle modalità per riaprire e ripartire); ma è anche vero che troppo spesso e troppo facilmente sono anche le discoteche (nel senso figurato di galassia di tutto ciò che è riconducibile all’economia del ballo) a prenderci oggi per il culo: non facendo pulizia, non organizzandosi fra loro, non facendo granché per impedire che – col giusto codicillo o col colpo d’astuzia di un cambio burocratico – in giro si balli eccome. Non sarebbero loro a doverlo impedire, ma le forze dell’ordine? Vero. Ma un settore coeso e con un’identità ideale e morale forte, saprebbe farsi rispettare – e saprebbe farsi seguire dalla propria gente, spingendola a riconoscere il buono dal pessimo. Ma oggi, questa differenza, quanto c’è davvero?

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