«Grazie per aver dedicato il vostro tempo a questa terronata». Carmen Consoli esordisce così alla Triennale di Milano, con un sorriso sornione che nasconde una carica emotiva che esploderà in seguito. Presenta il primo capitolo di un nuovo progetto discografico ambizioso: Amuri luci, disco di apertura di una trilogia che uscirà per tappe (la prima domani), tre album pensati come le tre anime dell’artista catanese e che comprendono le radici mediterranee, la matrice rock, la vena cantautorale.
«Il siciliano tira fuori il mio spirito critico, forse la mia parte più impegnata socialmente e politicamente, più polemica. Quando è uscito il mio primo disco mi dicevano “avevi una bella voce, ma perché canti tutta spaventata?”. Era Amore di plastica. Sentivo che l’italiano era una lingua che mi aiutava nell’introspezione, quindi andava sussurrata. Invece il siciliano mi tira fuori il blues. Infatti i canti di terra nascono per esprimere un disagio».
Ma non c’è nostalgia del folclore, perché nel disco il siciliano è impastato con l’arabo, il greco e il latino, lingue vive e lingue (apparentemente) morte che profumano di memoria e resistenza. «Sono una appassionata di lingue, mia madre è veneta. Non vedo un ostacolo anche in lingue morte nella ricerca della verità. Mi sta dando soddisfazione questo studio delle radici e dell’indagare le nostre origini, il nostro dna, che non serve a dividerci ma ad avere una storia, perché senza storia siamo solo neoprimitivi. E anche a riflettere su come facciano suonare in modo diverso la mia voce». Non la preoccupa che un lavoro così ricercato possa risultare ostico: «Usando il greco antico, questo disco non avrà successo né in Italia né in Grecia. Ma tanto in radio le mie canzoni non le passano neanche in italiano. C’è chi nasce contro, anche il mercato».
Il disco è attraversato da storie e ferite universali, che vanno dalla memoria di Peppino Impastato al dolore delle guerre contemporanee. E su queste Carmen fa esplodere l’altra dose di carica emotiva che sembrava aver tenuto dentro per molto tempo: «Io faccio parte di questa comunità e voglio essere utile. Vivere e fare quello che faccio con il massimo impegno è un atto politico. Oggi prenderei la mia barca, attraccata ad Aci Trezza, e mi dirigerei verso Gaza. Ci impiegherei un po’ di tempo, non ho i grandi mezzi del governo italiano, però sarei convinta di navigare in acque internazionali, quindi di averne tutto il diritto. Il governo in due giorni poteva aiutarli e adesso per fortuna lo farà. Pensa che cosa bella, no? Ma come dice Elisa: svegliatevi, perché la gente muore». E ancora: «Prima la guerra era fatta tra eserciti, ora sono i civili a pagarne le conseguenze. Anche in passato ammazzavano i bambini al Sud accusandoli di brigantaggio. Ma un bambino di 7 anni che colpa può avere? Si può considerare un militare? Avevo l’urgenza di dire queste cose…».
Una urgenza che si sente nel disco, fatto ascoltare in anteprima alla stampa questa mattina, che si è tradotta durante la presentazione in riferimenti continui a questioni politico-sociali. «Mio figlio ieri ha partecipato a una bellissima manifestazione a Catania, a 12 anni con la bandiera della Palestina. Sono molto fiera», ha spiegato, per poi continuare criticando i giochi di potere e il culto del profitto: «Come denunciamo con Mahmood (in La terra di Hamdis, nda) stiamo obbedendo al Dio denaro. In nome del profitto, che è la sua Bibbia, si commettono queste stragi. Io sono apartitica e credo si debba dare maggiore priorità a valori extrapolitici, come l’amore e la felicità». E non si è risparmiata neppure sullo stato della sinistra italiana: «Mi auguro che il Partito Democratico trovi una strada che unisca tutti e per uno scopo di valore. Invece sembra che ci siano continui derby soltanto per zittirsi o avere ragione a vicenda. Non c’è un vero dibattito politico. Mi inquieta. Bisogna solo prendere una parte o un’altra? Lo trovo agghiacciante. Mi auguro che si unisca. Mi viene quasi da fare l’insegnante per metterli d’accordo tutti e provare a farli smettere di litigare».
Critica, poi, anche sul rapporto tra musica e tecnologia: «L’intelligenza artificiale può essere fondamentale in tanti ambiti, come quello sanitario. Ma quando l’essere umano è sostituito nel proprio sentire, allora intorpidisce i sensi. L’AI ci toglie il lavoro scrivendo i pezzi e le musiche? Mio figlio Carlo si è rifiutato di cantare una canzone fatta con l’intelligenza artificiale. Però ricordo che negli anni ’90 si diceva: questa è musica scritta a tavolino. C’era già un algoritmo che veniva attuato dai mestieranti. Forse sono meglio quelle dell’AI di quelle scritte a tavolino. Ma tanto io mi sono sempre ribellata a entrambe le modalità».
La tracklist del disco è un mosaico di memorie e rivolte. Amuri luci è dedicata a Giovanni Impastato e all’infanzia condivisa col fratello Peppino. In La Terra di Hamdis, Carmen intreccia i versi del poeta arabo-siculo dell’XI secolo Ibn Hamdis con le migrazioni di oggi: «Ho pensato a Mahmood perché era perfetto per un brano del genere. E canta in siciliano con grande precisione e accuratezza». Parru cu tia è un inno alla ribellione scritto dal poeta Ignazio Buttitta con la partecipazione di Jovanotti (che rappa in italiano). «Lorenzo dimostra che i grandi artisti sono anche umili. Mi ha fatto un grande regalo con quello che ha scritto, cioè di prendere se stessi in pugno contro quello che non va. Non bisogna fare finta di niente. Non era scontato partecipasse a questa follia che non andrà nelle radio o nelle discoteche, ma forse farà pensare qualcuno». Con Qual sete voi, invece, dà voce a Nina da Messina, prima donna a poetare in volgare, in duetto con il giovane tenore Leonardo Sgroi del Maggio Musicale Fiorentino. «Metto in evidenza donne come Nina da Messina, o anche Graziosa Casella (in Nimici di l’arma mia, nda). Donne libere, oltre a essere individui che si sono ribellati ai soprusi. È importante abbattere questa subcultura del più forte che fa soccombere il più debole. Questa è la cultura fascista».
Amuri luci, guardando oltre verso la trilogia, sembra il primo degli elogi alla lentezza: «Non ho fretta sui tempi di uscita degli altri due dischi. Il mio manager mi ha sempre detto: tu non sarai sempre radiofonica, per cui creiamo uno zoccolo duro di pubblico sui live. Infatti io vivo suonando, cantando, progettando spettacoli a teatro. Per me il disco è solo un piacere». L’ambizione che questo progetto possa abbattere qualche muro, però, non l’ha nascosta: «Perché dei testi in greco antico? Se alla quinta data del tour qualcuno si sarà preso la briga di leggerli, trascriverli, imparare la pronuncia e cantarli, quello sarà un grande risultato. Quindi, che cos’è il pop se la gente canta anche il greco antico? Dobbiamo riscoprire quanto vale una cosa per la quale abbiamo speso tempo. Quello che si impiega a migliorare se stessi è un valore. A me piace il tempo da perdere. Per esempio a imparare il greco antico che non serve a niente. Ma è così? È veramente una lingua morta? Eppure è alla base di tutto. E io voglio risvegliare le cose morte, sono necrofora della lingua».
Le registrazioni dell’album hanno seguito il medesimo passo cadenzato: «È stato realizzato in gran parte in presa diretta. Avevo trovato una chitarra classica appartenente a una mia trisavola, mi sono messa a suonarla e sono nate le canzoni. Forse perché mi connetteva con le radici di famiglia. Poi ho chiamato i musicisti e ho chiesto: le arrangiamo assieme? Nella mia casa di campagna, mentre mia madre cucinava, siamo ingrassati e abbiamo suonato. E ci siamo divertiti con la musica». Perché in fondo, nonostante i risultati che avrà il progetto discografico, Carmen Consoli ha ammesso di avere una convinzione incrollabile: «Anche solo una persona può avviare una rivoluzione».
