«Cari amici, è con grande dispiacere che sono costretto a rinviare il mio prossimo tour previsto a giugno. Non è un segreto che abbia convissuto con problemi mentali per svariati decenni. C’è stato un momento in cui è stato insostenibile, ma con l’aiuto dei medici e delle medicine ho potuto vivere una vita fantastica, in salute e produttiva, anche grazie al supporto della mia famiglia, degli amici e dei fan che mi hanno accompagnato attraverso questo viaggio. Molta della musica che ho fatto ha rappresentato la mia strada per disfarmi delle voci che avevo nella testa. A seguito dell’ultimo intervento alla schiena, ho cominciato a sentirmi strano ed è stato spaventoso a un certo punto. Non mi sentivo me stesso, descriverei questa sensazione come insicurezza mentale. Qualcosa ha iniziato a insinuarsi e ho cominciato a lottare con queste cose nella testa, dicendo cose senza senso e senza sapere perché lo facevo».
Con questo comunicato stampa, apparso all’inizio di giugno 2019 sul suo sito ufficiale, con grande onestà Brian Wilson rendeva noto il ritorno di quei disturbi mentali che ne avevano caratterizzato gli ultimi cinquant’anni e la cancellazione del tour che sarebbe partito di lì a poco. Brian non aveva mai avuto paura di parlare della propria salute mentale, qualcosa di relativamente semplice ai tempi degli episodi riportati nel comunicato, ma estremamente più complicato alla fine degli anni ’60, un’epoca in cui la consapevolezza e l’accettazione di tali disturbi era qualcosa di radicalmente diverso e di cui era sostanzialmente impensabile parlare. Forse anche per questo la diagnosi di disturbo schizoaffettivo e depressione maniacale (e in un secondo momento anche di disturbo schizofrenico paranoide) arrivò solo un decennio dopo i primi episodi, che inizialmente vennero liquidati come un semplice esaurimento nervoso dovuto allo stress causato dai troppi impegni legati all’attività dei Beach Boys.
Quel primo campanello d’allarme lo aveva costretto a prendersi una pausa dai live e a proseguire solo come maggior compositore della band, ma non a considerare il problema per quello che era veramente. Rimanere di più a casa lo portò sicuramente a rallentare quei ritmi insostenibili per una mente fragile come la sua, ma allo stesso tempo gli lasciarono più tempo per le abitudini che avevano contribuito a velocizzare i suoi disturbi. L’abuso sconsiderato di droga, in un primo momento soprattutto Lsd, poi sostituito da dosi sempre più elevate di cocaina, insieme a una creatività debordante che aveva sempre meno contatti con la realtà, crearono un mix devastante. Gli stessi Beach Boys furono costretti in qualche modo ad ammettere pubblicamente l’estrema fragilità psichica di Brian, anche solo per il fatto che sarebbe stato difficile spiegare in altro modo il lento eclissarsi e la semi-sparizione di colui che, fin da principio, aveva rappresentato il genio creativo della band. Un po’ come sarebbe successo qualche anno più tardi a Syd Barrett, restava difficile comprendere se il male che aveva colpito Brian fosse già presente dentro di lui e amplificato successivamente dall’abuso di sostanze, oppure causato dalle droghe stesse, come in parte confermarono i danni cerebrali da utilizzo di acidi rilevati dai suoi medici anni dopo.
Eppure gli impegni, lo stress e le pressioni non erano gli unici nemici di Brian. In lui persisteva una continua e disperata ricerca al miglioramento delle proprie capacità di artista: ogni nuova opera non avrebbe dovuto solo superare le sue precedenti, ma anche quelle degli altri. Un vortice di competitività, potremmo definirla quasi una sindrome da iper-competitività, che non poteva aiutare la sua mente già provata da una creatività senza sosta e dall’abuso di sostanze.
L’oggetto esterno principale di questa competizione divennero presto i Beatles, la band che nei primi anni ’60 aveva spesso lottato con i Beach Boys sia in termini di pubblico che di critica. Era noto che l’ascolto di Rubber Soul avesse scatenato in lui una smania che l’aveva portato a concepire Pet Sounds, così come l’ascolto di quest’ultimo da parte dei Beatles pare avesse allo stesso modo portato alla nascita di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Una cosa, però, era farsi stimolare in modo positivo da un’opera altrui, ben diverso era farla diventare un’ossessione. Era come se ogni capolavoro dei Beatles diminuisse in qualche modo la validità del suo operato. Come spiega bene Nicoletta Cinotti nel suo saggio Creare il nemico: la sindrome da iper-competizione: «C’è una convinzione nascosta dietro alla sindrome da iper-competizione. È l’idea che se accade qualcosa di buono ad un’altra persona questo abbia un effetto che diminuisce – per confronto – il nostro valore. Non è così, ma i nostri sentimenti di gelosia o invidia ci portano a ragionare così».
Dall’esasperazione di questo aspetto della sua personalità presero il via tanto l’idea l’ossessione di comporre l’album perfetto, sia quanto la disgregazione definitiva della sua sanità mentale. Tutto ebbe inizio con un’intervista dell’ottobre del 1966, in cui Wilson affermò che l’album a cui stava lavorando dopo Pet Sounds sarebbe stato «una sinfonia adolescenziale diretta a Dio». L’idea era quella di proseguire lungo il percorso intrapreso per Good Vibrations, brano creato impiegando una tecnica di registrazione mai sperimentata in precedenza: i tre minuti del pezzo nacquero infatti da circa mezz’ora di sezioni musicali sparse, successivamente unite insieme e ridotte al formato classico della canzone pop. Un lavoro dal costo spropositato, che Brian voleva replicare per un intero album, che in origine avrebbe dovuto chiamarsi Dumb Angel, ma che prese infine il titolo di Smile. Quello che avrebbe sancito definitivamente la sua superiorità come songwriter a livello mondiale.
È nello stesso periodo che Brian iniziò a sentire quelle voci che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. «Quei pensieri e quelle voci iniziarono a presentarsi quando avevo 25 anni», raccontò alla reporter Gillian Friedman nel 2021. «Sapevo fin dall’inizio che qualcosa non andava. Avevo preso delle droghe psichedeliche e dopo circa una settimana ho iniziato a sentire le voci, e non mi hanno mai abbandonato. Per molto tempo ho pensato tra me e me di non avere le forze per affrontare una cosa così, ma alla fine ho imparato a farlo in qualche modo. È come una lotta». Una lotta giornaliera capace di rendere un inferno anche esibirsi in pubblico.
Insieme alle voci, si presentò anche una sensazione costante e continua di paura, che poteva essere scatenata da qualsiasi cosa, una domanda, un’immagine, una canzone sentita alla radio. Paure completamente irrazionali, che col tempo Wilson imparò in qualche modo a rendere meno invalidanti: «Erano così intense e terrificanti che ho imparato a bloccarle. Cerco molto duramente di non ricordarle. Ma so che hanno aumentato il mio livello di stress e mi hanno fatto sentire molto depresso negli anni». Il suo stato psicofisico, unito alla forte opposizione di alcuni membri della band a un’opera tanto ambiziosa e così lontana dall’immaginario e dai temi che avevano sempre affrontato (surf, spiagge e divertimento), portarono all’insabbiamento definitivo delle session, trasformando Smile nel più celebre degli album perduti della storia del rock.
Le cure cominciarono molto tardi, quasi dieci anni dopo i primi episodi psicotici. Brian, completamente in balia dei propri disturbi, ebbe pochissima voce in capitolo: le uniche due opzioni possibili erano quelle di assumere un terapeuta che lo seguisse costantemente o finire in un ospedale psichiatrico. Rifiutando categoricamente l’idea del ricovero, venne affidato al controverso dottor Eugene Landy, Specializzato in terapia della Gestalt – una forma di psicoterapia umanistico-esistenziale in cui l’attenzione è posta sulla dinamica inarrestabile di creazione di configurazioni figura-sfondo, che rappresentano continui cicli di contatto tra l’organismo e l’ambiente che lo circonda – Landy non si era mai occupato prima di casi come quello del leader dei Beach Boys, avendo avuto per lo più esperienze in ambito universitario.
La prima cosa che fece, lungi dall’applicare i propri studi al caso e agire deontologicamente, fu quello di ricoprire un ruolo a metà tra il manager (inteso alla stregua del Colonnello Parker con Elvis Presley) e il secondino, applicando 24 ore su 24 una terapia costante capace di abbracciare ogni aspetto: fisico, psichico, personale, sociale e sessuale del suo paziente. Se da una parte i suoi metodi drastici e coercitivi riuscivano a dare qualche risultato (Brian era dimagrito e aveva smesso di abusare di sostanze), dall’altro era come se alla sue voci interne si fosse sostituito proprio il pensiero del suo proprio terapista. Con la scusa di aiutarlo a tornare a comporre e a vincere le sue paure, Landy accompagnava di persona Brian in studio con i Beach Boys, dando consigli sulla strada da percorrere e cercando di entrare personalmente nel processo creativo: «Io ero interessato a far diventare Brian un essere umano completo, loro erano invece interessati solo a far uscire un nuovo album nel 1977».
Quando Landy però, a un anno dalla presa in carica di Wilson, pretese che la sua parcella venisse raddoppiata, la moglie e gli altri membri dei Beach Boys decisero di licenziarlo. All’inizio degli anni ’80, ricaduto nelle solite cattive abitudini, Wilson finì in overdose a causa di un mix di alcol e droghe e Landy venne richiamato d’urgenza. Il primo passo della nuova terapia fu quello di riempire il musicista di psicofarmaci e di allontanarlo dai familiari. Ad aumentare l’attaccamento morboso nei confronti del suo terapeuta, che utilizzò la tragedia per manipolare ulteriormente il suo paziente, giunse anche la morte del fratello Dennis, annegato il 28 dicembre del 1983. Il passo successivo fu quello di creare una società con Wilson e ottenere i crediti e la co-produzione di molte canzoni dell’omonimo solista di Brian Wilson, quello di Love and Mercy.
La prima persona a rendersi conto del fatto che tutti quei comportamenti assomigliavano più a una circonvenzione di incapace che a una terapia psicologica fu Melinda Ledbetter, una ex modella che Brian aveva conosciuto come venditrice d’auto un paio d’anni prima. Tra i due era nato un amore che lo stesso Landy aveva provato a lungo a boicottare, senza successo, e già pochi mesi dopo aver assistito ai trattamenti poco ortodossi del medico, Melinda aveva provato a informare i familiari della sua assoluta mancanza di deontologia e della malafede dietro a quei comportamenti. Finalmente, Audree, Carl e le figlie Carnie e Wendy Wilson contestarono il controllo mentale esercitato da Landy su Brian, facendogli causa il 7 maggio 1991. Meno di un anno dopo la sentenza fu quella che tutti speravano: a Landy fu vietato per ordine del tribunale di contattare Brian, lasciando i suoi affari nelle mani del curatore di beni Jerome S. Billet.
Per Brian fu come rinascere. Sposò Melinda e adottarono tre figli, tornò con regolarità in studio e recuperò tutti i crediti delle canzoni in cui il medico risultava co-autore. Tornò a suonare dal vivo con una regolarità che non aveva mai avuto in precedenza, collezionando più show che in tutta la sua vita precedente. Venne curato adeguatamente per la sua depressione e per i disturbi di cui soffriva, potendo contare finalmente su un gruppo di persone che gli stavano intorno solo per amore – e non per soldi.
Forte di tutto questo, Brian trovò persino il coraggio di rimettere mano a quello Smile che, per molti, aveva contribuito a farne crollare la psiche. Richiamato il paroliere di allora, Van Dyke Parks, Wilson riuscì a concludere l’ultima suite rimasta incompleta e a presentarla dal vivo in uno show che si concluse con diversi minuti di standing ovation. Il cerchio era finalmente chiuso. Gli stati depressivi, le paure e le voci non lo abbandonarono, come dimostrato dallo stop forzato alle attività del 2019, ma l’apporto di uno psichiatra competente e della sua famiglia non permisero ai suoi disturbi demoni di limitarne la vita: «Quando non sono sul palco, suono i miei strumenti tutto il giorno. Inoltre, bacio mia moglie e bacio i miei figli. Cerco di usare l’amore il più possibile». Forse, come diceva il suo rivale di un tempo, John Lennon, l’amore era davvero la risposta.