Rolling Stone Italia

Brian Eno, odori anali, fantascienza: la musica ambient spiegata in ‘Oceano di suono’

Il saggio di David Toop torna in libreria dopo quasi trent'anni grazie a Add Editore, con una nuova traduzione e una prefazione di Valerio Mattioli. Un estratto
Brian Eno in concerto nel 1975

Foto: Estate Of Keith Morris/Redferns/Getty Images

Brian Eno, più noto come fortunato produttore discografico di gruppi come gli U2 che per le sue installazioni artistiche, era autore di The Future Will Be Like Perfume, un’opera esposta a Berlino nel febbraio del 1993 il cui titolo era un chiaro riflesso della natura prevalentemente eterea dell’esperienza contemporanea. Pubblicò inoltre Neroli (Thinking Music Part IV), un album austero persino per i suoi standard. Registrato per alcune installazioni nel 1988 e lungo poco meno di un’ora, il pezzo prendeva il nome dal profumo dei fiori d’arancio e si ispirava alle sue proprietà rilassanti, rincuoranti e illuminanti. «In origine non avevo intenzione di pubblicarlo», spiega, «era più che altro uno studio. Mi ritrovavo spesso a metterlo mentre scrivevo o stavo seduto a leggere. In particolare, non lo vedevo come vera e propria musica. Creava un bello spazio per pensare.» Paradossalmente, Eno non riuscì a riconoscere la sostanza musicale di Neroli finché non fu pubblicato in compact disc. E qui emerge una contraddizione.

L’anno precedente Brian aveva tenuto una conferenza con installazione di diapositive intitolata Perfume, Defence & David Bowie’s Wedding al Sadler’s Wells Theatre di Londra. «Re del coriandolo»: così l’aveva definito il Guardian nella sua recensione dell’evento. Il capitolo Perfume della conferenza conteneva, fra le altre, queste osservazioni e descrizioni: «L’olio di giaggiolo, un complesso derivato della radice di iris, è vagamente floreale in piccole dosi, ma di una carnosità quasi oscena (come l’odore sotto il seno o fra le natiche) in quantità maggiori. Lo zibetto, secrezione della ghiandola anale dell’animale omonimo, è profondamente sgradevole non appena viene riconosciuto, ma straordinariamente sensuale in dosi subliminali».

Odori anali: cosa c’entravano con il mutamento culturale?

Nelle interviste rilasciate nel 1975, Brian aveva cominciato a ventilare la prospettiva di introdurre la musica in particolari ambienti come una sorta di profumo o tinta. In un articolo scritto nel novembre di quell’anno per la rivista Street Life, destinata ad avere vita breve, accennò all’idea di cambiare le abitudini degli ascoltatori: «Credo che siamo arrivati a un passo dall’usare la musica e i suoni registrati con la stessa varietà di opzioni che adottiamo per i colori: potremmo usarla solo per “tingere” l’ambiente, potremmo usarla “diagrammaticamente”, potremmo usarla per modificare il nostro umore in modi quasi subliminali. Prevedo che il concetto di “muzak”, una volta spogliatosi delle sue connotazioni di immondizia sonora, avrà nuova (e assai fruttuosa) vita». Nel 1978, aveva raccolto queste idee in un manifesto. «L’ambience si definisce come un’atmosfera», scrisse per le note di copertina di Music for Airports, «o un’influenza circostante: una tinta. La mia intenzione è produrre pezzi originali apparentemente (ma non esclusivamente) destinati a momenti e situazioni particolari, nella prospettiva di costruire un catalogo piccolo ma versatile di musica ambientale adatta a un’ampia gamma di mood e atmosfere.» L’idea però era far risaltare le «idiosincrasie acustiche e atmosferiche», non smorzarle con la muzak. «L’obiettivo dell’ambient music è calmare e offrire uno spazio per il pensiero», concludeva Eno. «L’ambient music deve poter conciliare vari livelli d’attenzione uditiva senza imporne uno in particolare: dev’essere tanto interessante quanto ignorabile».

Quest’ultima asserzione, in particolare, era una bestemmia per quanti credevano che l’arte dovesse concentrarsi sulle emozioni e sulla nostra intelligenza superiore, occupando il centro dell’attenzione ed elevandoci sopra l’ambiente ordinario che ci appesantisce l’anima. Eppure ciò che Eno stava facendo, come spesso riesce a chi coglie lo spirito del momento, era descrivere un movimento già esistente. La narrazione misurabile e comprensibile degli oggetti sonori autonomi, iper-composti ed emotivamente avvincenti era stata disintegrata da missili lanciati da ogni punto della bussola artistica e tecnologica. Le sue parole contribuirono a fare di questa tendenza un cantiere aperto nei settori del design (ivi compreso il social design) e della musica popolare. E una volta che l’arte si era trasformata in design – o meglio ancora pop design, designer pop e ogni altra declinazione –, ecco che un’idea radicale poteva diventare un evento mediatico.

In un certo senso, Thomas Pynchon, J.G. Ballard e Philip K. Dick erano stati precursori di Brian Eno: Pynchon con la sua immagine del suono elettronico come intrattenimento ambientale; Ballard con le sculture di nuvole e i venditori di statue sonore di Vermilion Sands; Dick con la sua rêverie musical-tecnologica. Inoltre, proprio come gli scrittori di fantascienza, Eno esprime riflessioni fondate su una serie di realtà presenti. La musica di sottofondo è ovunque, quasi sempre selezionata con cura per riflettere le sottili distinzioni tribali e sociali nelle attività di svago: un ristorante hi-tech che mette jazz registrato fra il 1955 e il 1965; un bar tutto legno e locandine che mette la cosiddetta “roots” e “world” music; un pub che mette pop degli anni Settanta; un ristorante indiano che mette canzoni dei film di Bollywood; un ristorante indiano appena più caro che mette Enya, Sade, Kenny G, forse persino gli Orb; la tavola calda di un parco a tema per famiglie che mette classici pre-1987 stile muzak ad alto tasso di archi, e così via. Televisioni via cavo sfarfallano al limite del campo visivo; loop di musica New Age ripetono all’infinito i loro arpeggi calmanti nei parchi acquatici accompagnando movimenti fluidi e giravolte delle pastinache; i sub-bassi e la cassa di tracce jungle sparate a tutto volume da un’autoradio spianano l’aria in un raggio mobile di cinquanta metri; la musica si diffonde nell’etere del World Wide Web, in attesa di essere scaricata, sperando di parlare con qualcuno.

La complessiva assenza di una reazione intensa a questi stimoli è disarmante, preoccupante o affascinante. Dipende dallo stato d’animo, dal punto di vista, dall’interesse individuale per i prodotti e i valori stabili, o da comunicazioni invisibili, immateriali, emergenti e mutevoli. «In breve», continuava Brian nella conferenza Perfume, «siamo sempre più scentrati e disormeggiati, viviamo giorno per giorno, impegnati in un continuo tentativo di costruire un insieme di valori credibili, o quanto meno plausibili, pronti ad abbandonarlo per trovarne un altro quando la situazione lo richiede. Mi rendo conto che mi piace di più osservarci mentre diventiamo miscelatori di profumi dilettanti, intenti a frugare con dita curiose in un grande archivio di ingredienti per scoprire quali abbinamenti ci sembrano sensati; a raccogliere esperienza, la possibilità di formulare ipotesi migliori, senza la necessità della certezza.»

L’obiettivo di questo libro è ricostruire il percorso che ha portato il suono (specialmente la musica) a esprimere questa apertura ora spaesante e ora esaltante tramite cui tutto ciò che è solido si fonde nell’etere. Gente che definisce musica i suoni emessi dalle orche per comunicare, o cerca nei siti delle pitture rupestri echi animali scomparsi da un’eternità; registrazioni in cui il rumore puro, il minimalismo o le traiettorie non narrative vengono vendute e utilizzate come una specie di musica pop; locali in cui lo status marginale della musica, il suo eclettismo estremo e la sua diffusione frammentaria vengono considerati un abbellimento ambientale; musica tagliata a fette con cui laminare spessi strati di eventi sonori apparentemente incompatibili; musica costruita a partire da conversazioni telefoniche private rubate nell’aria (e da vite “private”) per mezzo di uno scanner manuale; musica che esplora il linguaggio delle sensazioni fisiche; musica in cui prevale l’assenza, paura o beautitudine ambientale, calma e quasi-silenzio, minimalismo estremo o un paesaggio spazioso, un’atmosfera tropicale o polare in cui l’ascoltatore possa inserirsi, essere in primo piano, vagare nello spazio immaginario per ore e ore.

Tratto da Oceano di suono. Musica ambient e ascolto radicale nell’era della comunicazione di David Topp (ADD Editore). Traduzione di Michele Piumini.

Iscriviti